L’ineffabile duo Giavazzi-Alesina ci riprova. In un editoriale sul
“Corriere della Sera” dello scorso 10 gennaio, i Bocconi Boys, come li
ha sarcasticamente battezzati l’economista neo keynesiano Paul Krugman,
ripropongono la paradossale tesi, già avanzata in un pamphlet del 2007,
secondo cui il liberismo sarebbe “di sinistra”.
Le argomentazioni sono note: aprire alla concorrenza attività
economiche “protette”, eliminare i sussidi alle imprese inefficienti,
premiare la meritocrazia, liberalizzare (ancora di più!) il mercato del
lavoro, ridurre il “peso distorsivo” dello Stato, farla finita con le
velleità di politica industriale (qualcuno sa dire chi coltiva oggi
simili velleità in Italia, ammesso e non concesso che siano state
coltivate in passato?!) e, naturalmente, privatizzare tutto il
privatizzabile: sono tutte “riforme” degne di figurare nel programma di
una “sinistra moderna”.
Gli effetti che queste riforme stanno producendo nei due Paesi che
più di qualsiasi altro hanno imboccato questa via (scelta cui hanno
effettivamente contribuito, fra gli altri, campioni della “sinistra
moderna” quali Tony Blair e Bill Clinton) sono sotto gli occhi di tutti:
aumento vertiginoso dei poveri, nelle cui file entrano sempre più
spesso non solo i disoccupati ma anche i working poor, differenze di
classe crescenti e blocco della mobilità sociale (due temi non a caso al
centro della campagna per le elezioni di middle term già in atto negli
Stati Uniti), fine dell’università di massa e ritorno di una università
riservata alle élite privilegiate (meritocrazia?!), costi sempre più
elevati e qualità decrescente dei servizi pubblici privatizzati
(clamorosi i casi di sanità e trasporti in Inghilterra), ecc.
La faccia tosta con cui certi “esperti” ripropongono ricette che
hanno condotto un sistema economico globale sempre più finanziarizzato e
deregolamentato all’attuale collasso sarebbe incredibile, se le prime a
legittimare i loro dogmi non fossero proprio quelle sinistre che
sarebbero chiamate a criticarli.
Invece il coro dei cantori del liberismo sale sempre più alto (e
sfacciato) da quando può contare sull’apporto di un campione della
“sinistra moderna” come Matteo Renzi, dei cui propositi di riforma per
rendere sempre più flessibile il mercato del lavoro onde “aprirlo a
giovani e donne” (ma ci sono o ci fanno !!??) leggiamo ogni giorno, così
come leggiamo del plauso che tale intento riscuote dai vari Ichino,
nonché dagli stessi Alesina e Giavazzi (assieme all’ammonimento che
tutto questo non basta: si sa, lo smantellamento dei diritti del lavoro
non basta mai!).
Così, sullo stesso numero del “Corriere”, leggiamo un articolo di
Dario di Vico il quale saluta con entusiasmo la notizia che un giovane
italiano su quattro “sceglie” l’autoimpiego (sceglie? Non sarà che il
mercato del lavoro non lascia loro alternative?) e, nello stesso
articolo, cita il sociologo Richard Sennet, dimenticandosi di ricordare
che lo stesso Sennett, in un articolo apparso qualche mese fa sul
“Guardian”, denunciava dati alla mano il fallimento dei miti
dell’autoimpiego e delle startup.
Sempre in quel numero del “Corriere”, da incorniciare per i fan
dell’ideologia neoliberista, troviamo una voce parzialmente discorde in
un articolo di Ernesto Galli Della Loggia: intendiamoci, il nostro non è
stato folgorato da nostalgie sinistrorse, si limita a fare
sommessamente presente che mentre i malservizi di Poste e Ferrovie
alimentano la rabbia nei confronti dei servizi pubblici, occorrerebbe
ricordare che si tratta di imprese che pubbliche non sono più da tempo,
benché la proprietà resti ancora in larga misura nelle mani dello Stato.
Fattore che non cambia il fatto che le loro scelte siano ora dettate
dall’esigenza di generare profitti e non di fornire agli utenti il
miglior servizio al miglior prezzo: di qui la Caporetto di pendolari e/o
viaggiatori delle linee ferroviarie del Sud a fronte del tripudio delle
Frecce superveloci, o le interminabili code di vecchi pensionati e
altri utenti “comuni”, i quali si vedono sfilare davanti i clienti che
usufruiscono di servizi “premium”.
Per evitare però che queste banali verità suonassero come una
smentita alla linea del giornale, qualcuno si è premurato di titolare
“L’equivoco di Poste e Ferrovie. Non consideriamole servizio pubblico”,
così i lettori che leggeranno solo il titolo (cioè quasi tutti) potranno
pensare, riferendosi soprattutto alla seconda frase, che sarebbe l’ora
di smetterla di pretendere che simili servizi siano pubblici…
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