lunedì 1 settembre 2014

Democrazia cercasi



Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia. Un libro di Stefano G. Azzarà


 
Pubblichiamo un estratto di un interessante saggio appena uscito in libreria, autore Stefano G. Azzarà (Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur Editore)
 Il libro pone una questione chiave, da cui derivano fondamentali considerazioni sulla vita italiana: possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno svuotato gli strumenti della partecipazione popolare, favorendo una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e spingendo molti cittadini nel limbo dell'astensionismo o nell'imbuto di una protesta rabbiosa e inefficace.
Al tempo stesso, in nome dell'emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica e confronto sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.
Dietro questi cambiamenti c'è però un più corposo processo materiale che dalla fine degli anni Settanta ha minato le fondamenta stesse della democrazia: il riequilibrio dei rapporti di forza tra le classi sociali, che nel dopoguerra aveva consentito la costruzione del Welfare, ha lasciato il campo ad una riscossa dei ceti proprietari che nel nostro paese come in tutto l'Occidente ha portato ad una redistribuzione verso l'alto della ricchezza nazionale, alla frantumazione e precarizzione del lavoro, allo smantellamento dei diritti economici e sociali dei più deboli. Intanto, nell'alveo del neoliberalismo trionfante, si diffondeva un clima culturale dai tratti marcatamente individualistici e competitivi. Mentre dalle arti figurative alla filosofia, dalla storia alle scienze umane, il postmodernismo dilagava, delegittimando i fondamenti e i valori della modernità - la ragione, l'eguaglianza, la trasformazione del reale. - e rendendo impraticabile ogni progetto di emancipazione consapevole, collettiva e organizzata.
È stata la sinistra, e non Berlusconi, il principale agente responsabile di questa devastazione. Schiantata dalla caduta del Muro di Berlino assieme alle classi popolari, non è riuscita a rinnovarsi salvaguardando i propri ideali e si è fatta sempre più simile alla destra, assorbendone programmi e stile di governo fino a sostituirsi oggi integralmente ad essa. Per ricostruire una sinistra autentica, per riconquistare la democrazia e ripristinare le condizioni di una vasta mediazione sociale, dovremo smettere di limitare il nostro orizzonte concettuale alla mera riduzione del danno e riscoprire il conflitto. Nata per formalizzare la lotta di classe, infatti, senza questa lotta la democrazia muore.
Di seguito un estratto del capitolo di premessa tratto dal libro di Azzarà:
 
«Rinnovamento» della sinistra o spostamento a destra?

Sono passati quasi tre anni dalla liberazione del paese. Dopo un oscuro ventennio di persecuzioni che avevano costretto gli oppositori alla clandestinità o all'esilio, alla ine del 2011 il sacrificio dei nuovi partigiani in questa guerra di resistenza ha raggiunto il suo obiettivo: Silvio Berlusconi è stato finalmente estromesso dalla presidenza del Consiglio.
Certo, non sono state sufficienti la competizione politica e le urne. Anche se i carabinieri sono rimasti in caserma, c'è voluto una sorta di golpe monetarista - sia detto senza offesa! - con il quale lo spread e i mercati, i grandi trust dell'informazione e le loro sponde istituzionali sono andati oggettivamente incontro agli auspici formulati a suo tempo da Alberto Asor Rosa (e condivisi da tutti i sinceri democratici). Ma a brigante, brigante e mezzo: l'Italia è adesso un paese restituito alla normalità delle nazioni civili. E, attraversato un doloroso ma breve purgatorio tecnico, si avvia con i suoi nuovi giovani condottieri a incrociare il treno della ripresa economica e a recuperare la dignità del proprio ruolo in Europa come nella comunità euroatlantica. Il fine giustiica i mezzi e l'esito delle recenti elezioni europee - che hanno regalato a Matteo Renzi un plebiscito che neanche l'analista più simpatetico avrebbe potuto prevedere, azzoppando il nuovo grigiobarbuto Nemico Pubblico - lo dimostra.
Possiamo dunque tirare un sospiro di sollievo.
Dov'è finita però la sinistra, in questa festa? Non c'è più e non compare nemmeno sullo sfondo nelle foto di rito. O meglio, esistono ancora questo curioso termine e questa collocazione nell'emiciclo parlamentare. Pare addirittura che proprio a quello che viene considerato come il più grande e autorevole partito della sinistra italiana appartenga il premier in carica, circonfuso di luce. Ed è innegabile che questo partito abbia accumulato in pochi mesi un consenso fuori dal normale, che mai la sinistra aveva avuto e che solo la Dc degli anni Cinquanta aveva saputo conquistare. Ma al di là delle apparenze - e a prescindere dall'imbarazzo di molti dirigenti di questo partito nel pronunciare questo nome antico -, se guardiamo ai contenuti dell'agenda del governo e del parlamento le cose stanno in maniera molto diversa.
Altro che vittoria schiacciante della sinistra: l'uscita di scena del Cavaliere ha favorito in realtà il consolidamento di un'unica vastissima destra. Di una destra che nelle sue articolazioni variegate occupa tendenzialmente tutto lo spettro politico nazionale e della quale è semmai in discussione non il primato ma l'assetto e le gerarchie, ancora in via di stabilizzazione.
Confrontiamo i programmi elettorali e le proposte di legge avanzate dai due principali schieramenti politici dall'inizio della stagione del bipolarismo sino a oggi: non sarebbe difficile accorgersi di come su tutte le questioni principali - l'architettura istituzionale, le relazioni internazionali e l'uso della forza, il mercato del lavoro e i diritti economici e sociali, le telecomunicazioni fino al rapporto tra politica e magistratura - la sinistra abbia fatto proprie a poco a poco, sconfitta dopo sconitta e svolta dopo svolta, gran parte delle posizioni e delle argomentazioni che già da tempo erano patrimonio del suo avversario. Aggiungendovi, è vero, la decorazione politicamente corretta dei diritti civili di volta in volta più trendy. Ma dimenticando sempre e comunque la propria ragione sociale: la difesa del mondo del lavoro come momento determinante o persino costitutivo dell'interesse nazionale.
E rivendicando, al contrario, la propria superiore efficienza nel tagliare lo Stato sociale («riduzione della spesa pubblica», viene chiamata) e nel ridurre le tasse a chi già non le paga («riduzione della pressione fiscale», nella stessa neolingua).
Meglio tacere poi, per carità di patria, quanto è avvenuto a proposito della politica estera: l'abbandono della causa dei palestinesi - il popolo martire per eccellenza, ridotto a elemosinare la sopravvivenza in un campo di concentramento a cielo aperto - e l'appiattimento sulle posizioni dei governi israeliani più retrivi, è oggi forse il sigillo più emblematico (e vergognoso) dell'esaurimento di una tradizione politica e della sua definitiva mutazione in chiave atlantista e neocolonialista. In maniera inavvertita ma inesorabile, a ogni giro di boa, a ogni vertenza e in occasione di ogni conflitto, il quadro politico complessivo del paese è slittato sempre più a destra.
E invece di contrastare questo movimento - che nasce sul terreno dei rapporti di produzione, del salario, dei diritti, per riversarsi su  quello della cultura e della stessa mentalità diffusa - la sinistra ne ha accompagnato la tendenza, cercando per quanto le è stato possibile persino di accelerarla. Fino a scavalcare in tal modo la destra stessa, all'inseguimento di tutte quelle proposte che, sancendo la fine della lotta di classe e l'avvio di una fase di feconda collaborazione tra chi è incluso e chi non lo è - tra chi dà gli ordini e chi obbedisce, tra chi è ricco e chi non sa come sbarcare il lunario, tra chi evade e chi è tassato alla fonte - potessero assicurarle la fiducia dei veri centri di comando nel paese e fuori di esso e delle vere centrali di raccolta del consenso.
È questo il prezzo paradossale della fine del «fattore K» in Italia: la sinistra può oggi finalmente governare e può distribuire un bonus di ottanta euro al proprio bacino elettorale; ma può farlo solo rinunciando a se stessa (e a politiche redistributive che non siano quelle del clientelarismo mediatico) e intestandosi il programma altrui.
Finché si accorge che in fondo questo strano ruolo - «rinnovamento», si dice - non le dispiace affatto: «La sinistra se non cambia non è più sinistra», recita il refrain dettato dal nuovo leader indiscusso del paese, il fratello o il figlio o il fidanzato di tutti.
Anzi, «se non cambia» la sinistra «perde la dignità di essere sul fronte del progressismo».
Mentre noi, si capisce, «siamo in prima linea sulla politica del cambiamento».
È la più grande «vittoria conseguita dal leader del centro destra», ha commentato con ironia tagliente Luciano Canfora in una recente lettera a «l'Unità». Berlusconi, infatti, «ha ottenuto che il Partito democratico, per riuscire finalmente a conseguire (questo per lo meno attualmente si pensa) un consenso significativo, per riuscire insomma a "sfondare", ha dovuto, nella persona del suo attuale leader, assumere i valori fondamentali della parte avversa».
Qualche mese fa, in occasione delle primarie 2013 che avrebbero dovuto scegliere il nuovo segretario del Pd, mi era capitato di assistere a un educativo confronto televisivo tra Matteo Renzi, vincitore predestinato, e la sua vittima sacrificale Gianni Cuperlo, ultimo segretario della Fgci - l'antica Federazione giovanile comunista italiana - e rappresentante della sinistra interna. Ora, nonostante una mestizia ormai proverbiale, Gianni Cuperlo era senz'altro quanto di meglio la tradizione politica che proviene dal Pci potesse mettere in campo per un ultimo tentativo di salvare in extremis la propria storia e il proprio futuro. Unisce all'intelligenza politica e al metodo di ragionamento una notevole sensibilità dello sguardo e una raffinatezza di stampo francese. Si indovina benissimo la scuola che c'è dietro il suo pensiero e la tragedia che essa ha affrontato nel secolo scorso. Purtroppo, di questa scuola si vede però benissimo anche la prassi politica: la lucidità d'analisi si coniuga così a un'insuperabile pavidità e a un realismo surrealista, che costringono lui e quelli come lui a fare sempre esattamente il contrario di ciò che dicono e di ciò che andrebbe fatto, per un malinteso senso di responsabilità e per quell'equivoco autoindulgente che grava sul tardo togliattismo. [...]

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