Pubblichiamo un estratto di un interessante
saggio appena uscito in libreria, autore Stefano G. Azzarà (Democrazia cercasi. Dalla caduta del Muro a
Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e
impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur Editore)
Il libro pone una
questione chiave, da cui derivano fondamentali considerazioni sulla vita
italiana: possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti
hanno svuotato gli strumenti della partecipazione popolare, favorendo una forma
neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e spingendo molti
cittadini nel limbo dell'astensionismo o nell'imbuto di una protesta rabbiosa e
inefficace.
Al tempo stesso, in nome dell'emergenza
economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica e
confronto sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.
Dietro questi cambiamenti c'è però un
più corposo processo materiale che dalla fine degli anni Settanta ha minato le
fondamenta stesse della democrazia: il riequilibrio dei rapporti di forza tra
le classi sociali, che nel dopoguerra aveva consentito la costruzione del
Welfare, ha lasciato il campo ad una riscossa dei ceti proprietari che nel
nostro paese come in tutto l'Occidente ha portato ad una redistribuzione verso
l'alto della ricchezza nazionale, alla frantumazione e precarizzione del
lavoro, allo smantellamento dei diritti economici e sociali dei più deboli.
Intanto, nell'alveo del neoliberalismo trionfante, si diffondeva un clima
culturale dai tratti marcatamente individualistici e competitivi. Mentre dalle
arti figurative alla filosofia, dalla storia alle scienze umane, il
postmodernismo dilagava, delegittimando i fondamenti e i valori della modernità
- la ragione, l'eguaglianza, la trasformazione del reale. - e rendendo
impraticabile ogni progetto di emancipazione consapevole, collettiva e
organizzata.
È stata la sinistra, e non Berlusconi,
il principale agente responsabile di questa devastazione. Schiantata dalla
caduta del Muro di Berlino assieme alle classi popolari, non è riuscita a
rinnovarsi salvaguardando i propri ideali e si è fatta sempre più simile alla
destra, assorbendone programmi e stile di governo fino a sostituirsi oggi
integralmente ad essa. Per ricostruire una sinistra autentica, per
riconquistare la democrazia e ripristinare le condizioni di una vasta
mediazione sociale, dovremo smettere di limitare il nostro orizzonte
concettuale alla mera riduzione del danno e riscoprire il conflitto. Nata per
formalizzare la lotta di classe, infatti, senza questa lotta la democrazia
muore.
Di seguito un estratto del capitolo di
premessa tratto dal libro di Azzarà:
«Rinnovamento»
della sinistra o spostamento a destra?
Sono passati quasi tre anni
dalla liberazione del paese. Dopo un oscuro ventennio di persecuzioni che avevano
costretto gli oppositori alla clandestinità o all'esilio, alla ine del 2011 il
sacrificio dei nuovi partigiani in questa guerra di resistenza ha raggiunto
il suo obiettivo: Silvio Berlusconi è stato
finalmente estromesso dalla presidenza del Consiglio.
Certo,
non sono state sufficienti la competizione politica e le urne. Anche
se i carabinieri sono rimasti in caserma, c'è voluto una
sorta di golpe monetarista - sia detto senza offesa! - con il
quale lo spread e i mercati, i grandi trust
dell'informazione e le loro sponde istituzionali sono andati
oggettivamente incontro agli auspici formulati a suo tempo da Alberto Asor Rosa
(e condivisi da tutti i sinceri democratici). Ma a
brigante, brigante e mezzo: l'Italia è adesso un paese restituito alla normalità
delle nazioni civili. E, attraversato un doloroso ma breve
purgatorio tecnico, si avvia con i suoi nuovi
giovani condottieri a incrociare il treno della ripresa
economica e a recuperare la dignità del proprio ruolo in Europa come nella comunità
euroatlantica. Il fine giustiica i mezzi e l'esito
delle recenti elezioni europee - che hanno regalato a Matteo
Renzi un plebiscito che neanche l'analista più simpatetico avrebbe
potuto prevedere, azzoppando il nuovo grigiobarbuto Nemico Pubblico - lo
dimostra.
Possiamo dunque tirare un sospiro di
sollievo.
Dov'è finita però la sinistra, in questa festa? Non c'è più
e non compare nemmeno sullo sfondo nelle foto di rito. O meglio,
esistono ancora questo curioso termine e questa collocazione nell'emiciclo
parlamentare. Pare addirittura che proprio a quello che viene considerato come
il più grande e autorevole partito della sinistra italiana
appartenga il premier in carica, circonfuso di luce. Ed è innegabile che
questo partito abbia accumulato in pochi mesi un consenso fuori
dal normale, che mai la sinistra aveva avuto e che solo la
Dc degli anni Cinquanta aveva saputo conquistare. Ma al di là delle apparenze -
e a prescindere dall'imbarazzo di molti dirigenti di questo partito nel pronunciare
questo nome antico -, se guardiamo ai contenuti dell'agenda del governo e del
parlamento le cose stanno in maniera molto diversa.
Altro
che vittoria schiacciante della sinistra: l'uscita di scena del Cavaliere ha
favorito in realtà il consolidamento di un'unica vastissima destra. Di una
destra che nelle sue articolazioni variegate occupa tendenzialmente tutto lo
spettro politico nazionale e della quale è semmai in discussione non il primato
ma l'assetto e le gerarchie, ancora in via di stabilizzazione.
Confrontiamo i programmi
elettorali e le proposte di legge avanzate dai due principali schieramenti
politici dall'inizio della stagione del bipolarismo sino a oggi:
non sarebbe difficile accorgersi di come su tutte le questioni principali - l'architettura
istituzionale, le relazioni internazionali e l'uso
della forza, il mercato del lavoro e i diritti economici e sociali, le
telecomunicazioni fino al rapporto tra politica e magistratura - la sinistra
abbia fatto proprie a poco a poco, sconfitta dopo sconitta e svolta dopo
svolta, gran parte delle posizioni e delle argomentazioni che già
da tempo erano patrimonio del suo avversario. Aggiungendovi,
è vero, la decorazione politicamente corretta dei diritti
civili di volta in volta più trendy. Ma dimenticando sempre e
comunque la propria ragione sociale: la difesa del mondo del lavoro come
momento determinante o persino costitutivo dell'interesse nazionale.
E rivendicando, al contrario, la propria superiore efficienza
nel tagliare lo Stato sociale («riduzione della spesa pubblica», viene
chiamata) e nel ridurre le tasse a chi già non le paga («riduzione della
pressione fiscale», nella stessa neolingua).
Meglio tacere poi, per carità di patria, quanto è
avvenuto a proposito della politica estera: l'abbandono della causa dei palestinesi
- il popolo martire per eccellenza, ridotto a elemosinare la
sopravvivenza in un campo di concentramento a cielo aperto - e l'appiattimento
sulle posizioni dei governi israeliani più retrivi, è oggi
forse il
sigillo più emblematico (e vergognoso) dell'esaurimento
di una tradizione politica e della sua definitiva mutazione
in chiave atlantista e neocolonialista. In maniera inavvertita ma
inesorabile, a ogni giro di boa, a ogni vertenza e in occasione di ogni conflitto,
il quadro politico complessivo del paese è slittato sempre
più a destra.
E
invece di contrastare questo movimento - che nasce sul terreno dei rapporti di produzione,
del salario, dei diritti, per riversarsi su quello della cultura e della stessa
mentalità diffusa - la sinistra ne ha accompagnato
la tendenza, cercando per quanto le è stato possibile persino di
accelerarla. Fino a scavalcare in tal modo
la destra stessa, all'inseguimento di tutte quelle proposte che, sancendo la fine
della lotta di classe e l'avvio di una fase di feconda collaborazione
tra chi è incluso e chi non lo è - tra chi dà gli ordini e chi
obbedisce, tra chi è ricco e chi non sa come sbarcare il lunario, tra chi evade
e chi è tassato alla fonte - potessero assicurarle la fiducia dei veri centri
di comando nel paese e fuori di esso e delle vere centrali di raccolta del
consenso.
È questo il prezzo paradossale della fine del «fattore
K» in Italia: la sinistra può oggi finalmente governare e può distribuire un
bonus di ottanta euro al proprio bacino elettorale; ma può farlo solo
rinunciando a se stessa (e a politiche redistributive che non siano quelle del clientelarismo
mediatico) e intestandosi il programma altrui.
Finché
si accorge che in fondo questo strano ruolo - «rinnovamento», si dice
- non le dispiace affatto: «La sinistra se non cambia non è più sinistra»,
recita il refrain dettato
dal nuovo leader indiscusso del paese, il fratello o il figlio o il fidanzato
di tutti.
Anzi, «se non cambia» la sinistra «perde la dignità
di essere sul fronte del progressismo».
Mentre noi, si capisce, «siamo in prima
linea sulla politica del cambiamento».
È la
più grande «vittoria conseguita dal leader del centro destra», ha commentato
con ironia tagliente Luciano Canfora in una recente lettera a «l'Unità». Berlusconi,
infatti, «ha ottenuto che il Partito democratico, per riuscire finalmente a
conseguire (questo per lo meno attualmente si pensa) un consenso significativo,
per riuscire insomma a "sfondare", ha dovuto, nella
persona del suo attuale leader, assumere i valori fondamentali della
parte avversa».
Qualche mese fa, in occasione delle primarie 2013 che
avrebbero dovuto scegliere il nuovo segretario del
Pd, mi era capitato di assistere a un educativo confronto televisivo tra Matteo
Renzi, vincitore predestinato, e la sua vittima sacrificale Gianni Cuperlo, ultimo
segretario della Fgci - l'antica Federazione giovanile comunista
italiana - e rappresentante della sinistra interna. Ora,
nonostante una mestizia ormai proverbiale, Gianni Cuperlo era senz'altro
quanto di meglio la tradizione politica che proviene dal Pci potesse mettere in
campo per un ultimo tentativo di salvare in extremis la
propria storia e il proprio futuro. Unisce all'intelligenza politica e al
metodo di ragionamento una notevole sensibilità dello
sguardo e una raffinatezza di stampo francese. Si indovina benissimo
la scuola che c'è dietro il suo pensiero e la tragedia che essa ha affrontato
nel secolo scorso. Purtroppo, di questa scuola si
vede però benissimo anche la prassi politica: la lucidità d'analisi si coniuga così
a un'insuperabile pavidità e a un realismo surrealista,
che costringono lui e quelli come lui a fare sempre esattamente il contrario di
ciò che dicono e di ciò che andrebbe fatto, per un malinteso senso di responsabilità
e per quell'equivoco autoindulgente che grava sul tardo togliattismo. [...]
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