La decisione del giornale tedesco Der Spiegel di
render nota la telefonata fatta da Angela Merkel a Mario Draghi,
presidete della Bce, e soprattutto i toni usati dalla cancelliera,
evidenzia i limiti strutturali - questi sì - della costruzione europea.
Diamo per scontato che la notizia sia stata fatta filtrare
direttamente dall'entourage della Merkel e che il contenuto sia quello
riportato dal giornale. La risposta della Bce, del resto, non è affatto
una smentita, ma una conferma, sia pur limitata da alcune "inesattezze".
Il contenuto è riassumibile in poche battute, anche se la materia è
indubbiamente complessa. La Merkel avrebbe chiesto a Draghi: "hai
cambiato idea riguardo alla necessità di mantenere l'austerità nella
gestione del bilancio pubblico?" Domanda sorta dalla necessità di
interpretare correttamente, quanto alle implicazioni di politica
monetaria e non solo, il discorso fatto da Draghi alla riunione dei
banchieri centrali a Jackson Hole, nel Kansas.
In sostanza, il vertice tedesco è preoccupato dallla possibilità che
la Bce - sostenendo la necessità di "usare meglio i margini di
flessibilità contenuti nei trattati", in special modo per quanto
riguarda i vincoli di bilancio, possa far da spoda alla pressante
richiesta italo-francese di mettere in atto uno scambio presuntamente
"virtuoso" tra rapida approvazione di "riforme strutturali" (a partire
come sempre dalla devastazione del mercato del lavoro, in termini di
diritti e salario) e "maggiore flessibilità sui tempi di rientro dal
deficit e di riduzione del debito".
A nessuno può sfuggre che si tratta di uno scambio, comunque, molto
"rigorista", visto che sacrifica equilibri sociali pluridecennali
(soprattutto in Francia, dove diritti e salari sono stati meglio difesi
che non in Italia) alla promessa di un piccolo rinvio per il
raggiungimento del pareggio di bilancio.
La Germania, comunque, sarebbe preoccupata da un allentamento del
"rigore" proprio per quanto riguarda la politica monetaria realizzabile
dalla Bce - in completa autonomia - perché un serio "quantitative
easing" che comportasse l'acquisto dei titoli di stato dei paesi più
deboli implicherebbe un impegno diretto di capitali (monetari) tedeschi a
garanzia dei debiti dei "paesi cicala".
Diciamo subito che tutta questa discussione in termini di "austerità
versus flessibilità" è solo un modo ideologico di nascondere un
conflitto tra interessi cresciuto fino a diventare quasi ingestibile. Le
attuali regole dell'Unione Europea, infatti, sono rigide in proporzione
inversa alla potenza economica di diversi paesi. Per la Germania, ad
esempio, non valgono quasi mai. Né quando si trattava di rientrare dal
deficit eccessivo per i costi affrontati con la "riunificazione", né -
da alcuni anni a questa parte - quando si tratta di metter fine al
"surplus eccessivo" nella bilancia dei pagamenti. Tradotto: l'attuale
congegno previsto dai trattati funziona in maniera "elastica" ma
regolare, come la forza di gravità. E l'economia tedesca ha tratto tutti
i vantaggi possibili da questa posizione, ma al riparo dagli obblighi
di "compensare" con risorse proprie gli squilibri che andava creando
nelle economie dell'eurozona (inchiodate su due lati: dalla minore
competitività tecnologica e dalla moneta unica).
Questa distorsione asimmetrica è la principale palla al piede
dell'economia continentale in un contesto di crisi globale. La maggiore
"reattività" di Stati Uniti e Giappone, strombazzata da opinionisti un
tanto al chilo, è stata fin qui possibile perché non gravata da
meccanismi istituzionali formalmente paralizzanti.
L'Unione Europea, in altri termini, non funziona ancora come uno
stato propriamente detto (anche se le sue decisioni in materia di
"riforme strutturali" e politiche di bilancio sono assolutamente
vincolanti, con la sanzione affidata alla reazione dei mercati) perché
il suo anomalo e antidemocratico assetto istituzionale patisce comunque
la formale necessità della "ricerca del compromesso" tra i paesi membri.
Compromessi sempre squilibrati dalla "forza di gravità", ma pur sempre
lenti nell'elaborazione e fonte di continui ripensamenti,
riformulazione, aggiustamenti in corso d'opera, eccezioni e rinvii.
Comunque sia, questo schema non tiene più. Finché si trattava di
sperimentare una ricetta di "austerità" sulla Grecia - paese dalla
"forza gravitazionale" quasi inesistente (2% del Pil europeo) - non si
sono levate obiezioni degne di nota. Ovvero di "peso" politico. Ma
questo modo di gestire la crisi - senza addentrarci qui nel più generale
quadro di crisi del capitale e del modo di produzione - sta
distruggendo le economie di due paesi fondatori della Ue, per di più
dotati di una "massa gravitazionale" che non può essere ignorata. Tanto
più che i problemi creati a tutto il continente dalla "linea
Bundesbank-Merkel" stanno ora - come ampiamente previsto -
ripercuotendosi anche sul centro motore (anche la Germania sta facendo
ormai i conti con la cescita zero e il rischio di deflazione).
Qualcosa bisogna insomma fare, ha avvertito anche Draghi. La frase
rivelatrice del suo di scorso a Jackson Hole è infatti "i rischi di fare
troppo sono minori del fare troppo poco". Ma la Bce, con la sola
politica monetaria, non può fare molto di più che "spargere denaro dagli
elicotteri" (ipotesi vista con orrore da Berlino). Serve "altro". E qui
tutti si fermano agli slogan: "riforme strutturali", "politiche
industriali", ecc.
La nuova nomenklatura dell'Unione Europea, in queste ore sta
discutendo duramente di poltrone e incarichi; e ogni nome (o paese di
provenienza) implica un'accentuazione diversa in materia di
flessibilità, austerità, riforme, ecc. Un massacro di pesi e contrappesi
(basti pensare che se alla guida degli "affari economici" dovrà andare
il francese Moscovici, per forza di cose orientato alla "flessiilità",
Berlino pretende di inventare nuove poltrone per riequilibrare con un
"falco" austero i possibili sconfinamenti del primo) che tutto può
promettere, meno che decisioni efficaci e rapide in materia di economia.
Intendiamoci: sul massacrare i lavoratori di tutti i paesi l'accordo è
completo. La discussione vera è su quali frazioni di capitale verranno
"favorite" e quali invece accompagnate verso l'asta fallimentare (la
crisi Alitalia è stata decisa in questo modo, oltre 20 anni fa, ai tempi
degli accordi di Maastricht).
L'unica "riforma strutturale" che - forse, davvero forse - potrebbe
ridar fiato all'Unione Europea sarebbe un equilibrio complessivo assai
meno "tedescocentrico", meno spudoratamente vantaggioso per le
imprese-guida delle filiere che dipendono da Berlino e dintorni. Ma chi
glielo dice alla Merkel?
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