Ormai
l’incapacità di guardare le cose con uno sguardo intellettualmente
limpido, moralmente coerente e politicamente onesto, ha impedito a
questo Paese ed anche alla sua residua intellighenzia di vedere cosa è
effettivamente successo in Europa nell’ultima settimana. Che detto in
poche parole non è altro che l’inizio della dissoluzione sotto la spinta
delle contraddizioni create dalla moneta comune.
La Francia, dove il crollo della confiance in Hollande e nel governo è
verticale, ha annunciato che rimanderà al 2017, cioè l’anno delle
elezioni presidenziali e legislative, l’obiettivo del 3% di deficit. In
realtà Parigi, forte di un debito pubblico molto inferiore a quello
italiano nel suo rapporto col pil, ha già goduto di molto tempo e di
numerosi sconti sulla via di questo traguardo, ma visto il degrado cui
va incontro l’economia del Paese, l’Eliseo ha mandato un messaggio
chiaro, prima riconfermando in poche ore un premier filo austerity come
Valls come garanzia per Bruxelles e poi chiedendo tempo facendo
intendere che se si dovranno attuare i massacri necessari per
raggiungere il 3% è possibile che la Francia nel 2017 si troverà
governata dagli euroscettici. Peraltro è da notare che il nuovo
commissario Ue, Moscovici da cui Hollande si aspettava o forse fingeva
di aspettarsi un assist per la flessibilità, ha invece richiamato al
rispetto delle regole.
Quasi contemporaneamente anche l’Italia sia pure in maniera ambigua e
affidata ai twitter e alle intervistine, quando non alla contraddizione
tra Padoan e Renzi, ha detto di voler rispettare il 3% del deficit
(visto che il Paese è stato sempre abbastanza virtuoso da questo punto
di vista) ma di voler sospendere il pagamento del fiscal compact per il
2015, portando in cambio lo scalpo del lavoro. Sempre per i medesimi
motivi di natura elettorale e di tenuta stessa del sistema politico.
Queste due posizioni sono state ottimisticamente presentate come un
fronte unico, ma in realtà sono del tutto autonome l’una dall’altra,
molto diverse tra loro e non osano divenire un fronte comune se non
altro perché non si basano su una contestazione radicale delle regole,
su una diversa visione dell’economia e della società rispetto al
liberismo, quanto su dilazioni a la carte, in attesa del miracolo di una
ripresa che non si sa da dove dovrebbe venire. E sono entrambe
infognate dentro gli interessi locali delle classi dirigenti. Del resto è
molto curioso che sistemi politici a parole e fatti convinti dei
benefici della moneta unica e delle relative regole, quando poi si
tratta di salvare l’economia chiedano delle dispense.
Di contro c’è la Germania e la sua muta di Paesi con i conti migliori
o apparentemente migliori, che dopo le ultime europee sono diventati
non più morbidi, ma molto più rigidi sull’austerità, tanto da aver
irrobustito il guinzaglio a Draghi come emerge chiaramente dal summit di
Napoli. Anche qui per ragioni interne: la crescita inaspettata del
partito anti euro in Germania rende molto più difficile alla Merkel fare
concessioni, nonostante che le politiche austeritarie stiano mettendo
in difficoltà la stessa Germania Ci troviamo perciò di fronte ad uno
scontro senza precedenti e ad una inarrestabile forza centrifuga dei
vari Paesi fondatori della Ue, con una Gran Bretagna che è ormai
sull’uscio e quindi è tornata a fare l’isola. Uno scontro che tuttavia
si alimenta proprio dalle contraddizioni insanabili poste dalla moneta
unica: essa ha senso solo dentro un sistema di regole certe, al di fuori
delle quali diventerebbe una barzelletta. Quindi non si può essere
euristi, ma cercare di eludere o di sottrarsi in qualche modo ai
trattati visto che l’euro si è rivelato un veleno per i Paesi più
deboli. Senza parlare dell’ambivalenza della moneta unica, trappola
economica per la maggior parte dei Paesi, fattore di declino e di
impoverimento dovunque, ma anche sistema principe per eliminare il
sistema dei diritti e giungere ad una governance finanziaria del tutto
slegata da qualsiasi reale democrazia.
Prima o poi il sistema è destinato ad esplodere, ma nonostante tutto
nei Paesi della periferia si fa una gran fatica a violare il tabù della
moneta unica visto che una sua dissoluzione colpirebbe banche e finanza
le quali si troverebbero alle prese con titoli sovrani destinati a
svalutarsi del 20 0 30 per cento nel giro di due anni (* vedi nota).
Ecco perché si tace o addirittura si cerca in ogni modo di giocare
sulle’equivoco. Mi ha colpito nei giorni scorsi un intervista
all’economista del momento Piketty per fargli dire che lui è favorevole
all’euro. Si certo, nell’ambito però di una rifondazione politica
dell’Europa che dovrebbe prevedere almeno inizialmente un nucleo di
Paesi storici limitato a Germania, Francia, Italia, Benelux e forse
Spagna e Austria. Questo significa che sì una moneta comune può esserci,
ma azzerando proprio tutto e ricominciando da capo su altre basi, di
fatto smantellando questa Ue. E’ evidente che si tratta di una non
soluzione visti i tempi lunghissimi e gli scossoni che comporterebbe,
mentre il veleno della moneta continuerebbe ad agire portando in coma le
economie. Insomma una buona moneta per un’utopia. O una buona utopia
per una cattiva moneta.
*Questo dato è tratto dalle analisi dell’Ubs e di Banca Nomura e
si riferisce alle eventuali svalutazioni di una moneta nazionale
italiana e spagnola. La svalutazione monetaria non va confusa però con
la svalutazione interna come si cerca di far credere per le ricadute sui
mutui e sulle retribuzioni reali: la svalutazione della sterlina di
circa il 27% su dollaro e del 31% su euro tra il 2008 e 2009 ha
prodotto un’inflazione che ha avuto come picco il 5% ritornando all’ 1,8
in breve tempo. E per quanto riguarda l’Italia l’uscita dallo Sme nel
1992 e la svalutazione del 20 per cento produssero un ‘inflazione del 4,
6%, paradossalmente la più bassa dal 1969.
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