È inutile girarci intorno. Tre sono i gradini che potevano
condurre il nostro Paese nel baratro. Ed è bene sapere che li abbiamo
già percorsi tutti e tre con apparente e beata incoscienza.
Il primo
è quello della deriva etico-morale. Un Paese che non è riuscito
a trasmettere ai propri cittadini il senso della res publica,
quindi del bene collettivo e del patrimonio nazionale; un Paese che
non sa creare le condizioni e le dinamiche perché fra i suoi
abitanti, nei vari gangli vitali della sfera sociale, possano
emergere i più preparati, i più volenterosi, i più meritevoli,
proprio perché anche così possa salvaguardarsi e crescere lo
stesso bene comune, ebbene questo Paese è già morto. È come una stella
di cui ancora vediamo la luce pur sapendo che in realtà si è già spenta,
e per questo non potrà continuare a esistere nella rinnovata
costellazione. La politica degradata al livello del più bieco
affarismo rappresenta soltanto la punta estrema, più clamorosa
e visibile, di un iceberg che affonda ben in profondità le sue
radici, coinvolgendo tutti quei «cittadini» che i nuovi populismi
vorrebbero dipingere come puri e incontaminati. Al punto che anche
solo a utilizzare termini come «etica» e «morale» si finisce
tacciati di ingenuità, idealismo, utopia. Eppure non sarò io, da
filosofo, ad abdicare al dovere umano e sociale di richiamare
l’urgenza, e persino la vera e propria emergenza, di un Paese che ha
un bisogno estremo di riscoprire, ridisegnare e riorganizzare il
proprio impianto etico e morale. Certo, questo passa
necessariamente per un serio progetto culturale.
Ma qui arriviamo
al secondo gradino. Quello della deriva pedagogico-culturale. Non ci
giro intorno neanche in questo caso: per me che svolgo esami
universitari con cadenza regolare è fin troppo facile, e penoso,
registrare il fatto che, per esempio, sempre più studenti faticano
enormemente, e quindi spesso rinunciano, a leggere i libri di testo.
Non è soltanto che politiche sciagurate e decennali hanno
impoverito e marginalizzato la scuola; né che la
commercializzazione selvaggia e incontrollata dell’informazione
e della comunicazione in genere ci ha condotto ad avere, per
esempio (ma il discorso può essere esteso a tutto il «quarto potere»),
una televisione la cui programmazione è diventata via via sempre
più scadente, volgare e disinteressata agli effetti culturali (e
cognitivi!) che produceva nei confronti dell’opinione pubblica. C’è
un terzo dato, perlopiù ignorato ma in realtà gravissimo: la
deriva culturale e il processo di commercializzazione sono stati
così forti e pervasivi che, in buona sostanza, di fronte alla
comparsa della più grande invenzione della contemporaneità, cioè
Internet, si è del tutto rinunciato a pensare ad ogni minima forma di
educazione critica al mezzo e di resistenza «umanistica» rispetto
alle degradazioni che il mezzo stesso produceva. Soprattutto nei
confronti delle giovanissime generazioni. È significativo il
fatto che a nessuno mai verrebbe in mente di far affrontare la vita
a un bambino, senza che la scuola gli abbia potuto fornire alcuni
strumenti. Eppure, per la vita virtuale (e sappiamo bene che
virtuale non significa affatto irreale, forse tutt’altro) si
è coscientemente e deliberatamente rinunciato ad ogni tentativo
di educare e formare menti che, durante la propria crescita,
sapessero utilizzare questi mezzi straordinari mantenendo
autonomia di giudizio, capacità critica, caratteristiche
specifiche dell’essere umano come, per esempio, la lettura
approfondita, lenta, in grado di sedimentarsi e produrre
conoscenza durevole nell’individuo. Ignorare tutto ciò ha
comportato la realizzazione di quello che Kurt Vonnegut aveva
descritto nel suo romanzo visionario del 1952 (Player Piano),
laddove descriveva una prima rivoluzione che svalutava il «lavoro
muscolare» (agricoltori), una seconda che sviliva quello
«ordinario» (artigiani), mentre alla fine ci si trovava di fronte
alla terza rivoluzione, quella in grado di rendere superfluo il
pensiero umano, cioè il «vero lavoro intellettuale». A chi ha
giovato tutto ciò? Chi, con molta probabilità e con complicità
evidenti da parte di una politica indegna di questo nome, ha
beneficiato di tutto ciò e in qualche modo se ne è fatto artefice?
Qui arriviamo al terzo gradino, che al tempo stesso rappresenta il
filo rosso di collegamento con gli altri due: quello di un Paese in
cui si è consentito all’economia di divenire la scienza dominante,
il sistema di valori più forte e indiscutibile, la dimensione a cui
votare tutto l’umano vivere e tutti gli sforzi sociali. All’economia
servono produttori e consumatori, non certo individui critici
e consapevoli, forniti di un bagaglio etico-morale che permetta
loro di cogliere la grande ricchezza della vita umana al di là dei
numeri, del profitto e delle logiche quantitative in genere. Non ha
destato lo scalpore che avrebbe meritato, sentire Mario Monti che,
da capo del governo, dichiarava impunemente di trovarsi lì per
soddisfare i mercati (invece che la qualità della vita dei
cittadini che si trovava a guidare).
Il nostro Paese questi
gradini li ha scesi tutti e tre, con i risultati che sono sotto gli
occhi di tutti. Non c’è e non ci sarà articolo 18, riforma del lavoro
e della giustizia, né riforma costituzionale o fiscale che tenga,
è bene sapere che non ci sarà riforma in assoluto che potrà
risollevarci se non sapremo risalire questi tre gradini, provando
a ricostruire l’impianto etico-morale, educativo e politico del
nostro Paese. Una politica degna di questo nome dovrà saper
elaborare un programma fattivo e concreto in grado di affrontare
il baratro in cui ci hanno condotto queste tre derive. Dovrà saperlo
fare in un ottica anche europea, per ovvie ragioni, laddove l’Europa
non potrà essere soltanto una fantomatica entità finanziaria che
ci impone un rigore aritmetico e quantitativo, ma anche un grande
progetto di costituzione di una realtà in grado di tutelare la
qualità, il benessere e la specificità umana dei suoi cittadini.
Una teoria che non trova sbocchi sul terreno della realtà sociale
è sterile tanto quanto una politica che non sa darsi un progetto
teorico e una mappa programmatica risulta cieca, inefficace,
incapace di incidere su un periodo più ampio. Possono sembrare
ragionamenti idealistici o persino utopistici, ma se per un
attimo soltanto pensiamo che essi rappresentano tutto ciò che da
troppo tempo non facciamo più, e di contro vediamo lo stato in cui ci
siamo ridotti, beh, allora ci rendiamo conto che se di utopia si
tratta, è un’utopia quanto mai necessaria. Il coraggio più grande
risiede proprio nella forza e nella volontà di rispolverare un
progetto apparentemente desueto e idealistico. Qui e ora!
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