Mercoledì 24 settembre il direttore del «giornale della
borghesia italiana» ha voluto informarci che Renzi quella
borghesia non la rappresenta. La notizia, al di là di quello che
non esplicita e potrebbe preannunciare (vedi Vincenzo Comito sul manifesto del 26 settembre)
solleva comunque una questione di sicura rilevanza. Quella di chi,
di cosa rappresenti Renzi. Mi riferisco, prima ancora che a quella
parlamentare, a quella rappresentanza che si acquisisce mediante
l’attività di governo e risultante come consenso all’indirizzo e al
prodotto dell’azione governativa.
La risposta non può essere certo data da Renzi maestro
indiscutibile di comunicazione e manipolazione politica. Può
risultare solo da un’analisi obiettiva dell’orientamento espresso nei
suoi confronti delle forze organizzate ed istituzionalizzate.
Abbiamo saputo che la borghesia italiana della finanza
e dell’industria non sente che i suoi interessi siano rappresentati
nell’azione del governo.
All’editoriale di Ferruccio de Bortoli
si sono aggiunti i giudizi espressi da autorevoli esponenti
dell’imprenditoria italiana (De Benedetti, Della Valle). La
Confindustria, da parte sua, non sembra particolarmente
entusiasta di questo governo pur se arruolatasi come
portabandiera degli abrogatori dell’articolo 18.
Notizie di tal tipo dovrebbero allietarci se, per converso, ad
essere rappresentati nell’azione di governo fossero gli interessi
dei lavoratori. Il che proprio non è.
A dimostrarlo è l’opposizione dei sindacati, iniziata in
contemporanea alla costituzione del governo Renzi e provocata
dallo stesso Renzi con le dichiarazioni sprezzanti
e programmaticamente antisindacali che pronunziò.
Opposizione divenuta via via più acuta e oggi durissima con la
mobilitazione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di
quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970,
mobilitazione che potrebbe condurre a uno sciopero generale.
Alla critica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede
a Renzi di «ridisegnare l’agenda politica» e di non ridursi agli
slogan.
Non è poco. Perché non è da niente la sottoposizione,
l’asservimento, il ricatto continuato cui una lavoratrice o un
lavoratore sarebbe assoggettato dalla decisione di Renzi di
abrogare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Su quale rappresentanza dunque può poggiare Renzi ? Se non gli
interessi di quanti dimostrano di avergliela revocata, Renzi
rivendicherebbe quella del 40,81 per cento dei cittadini italiani.
Una rappresentanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Perché questa rappresentanza del 41 per cento è quella ottenuta
per l’elezione del parlamento europeo in sede, in forma e ai fini
che nulla hanno a che fare con l’indirizzo politico di governo, con la
maggioranza parlamentare, con la legislazione italiana e con
i diritti dei cittadini della Repubblica. Una maggioranza che non
lo legittima affatto in sede nazionale. L’irrilevanza di quel voto per
il governo la aveva affermata più volte lui stesso prima dei
risultati elettorali.
Una maggioranza che tanto meno potrebbe rivendicare nel caso
specifico della modifica dell’articolo 18. È del tutto evidente che
a comporre quel 41 per cento dei votanti per il Parlamento europeo
abbia contribuito, in misura determinante e maggioritaria, il 25
per cento degli elettori che votarono per il Pd nelle elezioni
politiche del 2013. Sottraendo al 41 per cento il 25 dei voti che
ottenne il Pd nel 2013, la quota rappresentativa di Renzi si riduce
al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone perciò solo di
questa quota di consenso elettorale. È quindi del tutto evidente
che, con la divisione determinatasi nel Pd sulla questione
dell’articolo 18, a rappresentare gli elettori del Pd sia la
minoranza, non la maggioranza attuale della Direzione di quel
partito. Quella minoranza che, tra l’altro, ottenne proprio quei voti
che consentono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prioritaria, fondamentale che non
andrebbe mai dimenticata, elusa, disconosciuta. La composizione
delle due camere del Parlamento italiano è illegittima. Lo ha
riconosciuto e sancito la Corte costituzionale come tutti sanno.
In un paese civile una sentenza del genere avrebbe comportato almeno
lo scioglimento delle due Camere. In Italia dovrebbe impedire
o almeno condizionare presidente del consiglio, governo,
parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle
primarie di un partito, voti quanto mai occasionali
e media-dipendenti, si ottiene la leadership di tale partito che, con
8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei
consensi alle elezioni politiche, conquista la maggioranza dei
seggi (assoluta alla Camera, relativa al Senato).
Un sistema quindi delle falsificazioni progressive. E che, pur
dopo la declaratoria della incostituzionalità del meccanismo
che costituisce la rappresentanza e la maggioranza che ne deriva,
permette che, acquisita la leadership di partito, si
possa disporre del potere di far strame della Costituzione, dei
principi della democrazia, dei diritti dei cittadini.
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