Ma come? Il presidente della Bce dà il via all'acquisto di
titoli spazzatura (Abs, titoli di stato greci e ciprioti, ecc) per
ripulire un po' i mercati e regalare soldi alle banche criminali, e le
borse crollano?
Milano ha perso quasi il 4%, le altre piazze europee un po' meno, ma
comunque tanto (Francoforte -2, Parigi quasi -3, solo New York e poi
Tokyo restano indifferenti). Cos'è successo?
Conviene guardare fuori dalla reggia di Capodimonte – dove la Bce si è
riunita ieri, accolta da una contestazione per molti versi
entusiasmante – per provare a capire qualcosa. L'Europa, come zona
economicamente rilevante, integrata, governata “saggiamente”, è in
questi giorni tornata al centro dello scetticismo generale dei mercati.
Colpa contemporaneamente dell'ottusità (e dell'egoismo) germanico e
dello strappo francese, che ha deciso di non rispettare il vincolo del
3% nel rapporto deficit/Pil, denunciando il surplus tedesco come causa
altrettanto importante degli squilibri continentali. O anche l'Italia
renziana, che dice di voler rispettare quel vincolo ma di non poter
onorare le scadenze temporali del Fiscal Compact nella riduzione del
debito (oltre 50 miliardi l'anno, per venti anni), perché trascinerebbe
questo paese – e tutta l'Europa – in una recessione senza fine.
Aggiungiamoci la stagnazione generale, la deflazioni aperta in diversi
paesi, il crollo anche delle aspettative sull'economia tedesca, e il
quadro comincia a esser chiaro.
La diffidenza verso l'Unione Europea e l'"efficienza" delle sue
modalità di funzionamento – dal punto di vista puramente capitalistico –
è così tornata ai livelli di tre anni fa, quando pochi avrebbero
scommesso sulla permanenza dell'euro (quindi anche dell'Unione), e solo
la sortita di Draghi (“whatever it takes”, ovvero la Bce come vero
prestatore di ultima istanza, al pari della Federal Reserve) aveva
arrestato il treno avviato verso il dirupo.
Stavolta non ha funzionato neanche l'avvio – tra dieci giorni - del
piano di acquisto dei titoli “junk”, con limite di spesa a 1.000
miliardi di euro (il 65% del Pil annuo dell'Italia, non proprio
bruscolini). È l'eurozona in quanto tale a sembrare troppo fragile. I
problemi sono più grandi.
Accolta da una minore rilevanza, almeno sui media italiani, ieri c'è
stata un'altra decisione con ricadute globali sconvolgenti: l'Arabia
Saudita ha riaperto la guerra dei prezzi del petrolio, esattamente come
30 anni fa, ma in una situazione del tutto diversa. Di fatto, ha
tagliato i prezzi per le forniture immediate sui mercati asiatici,
specialmente per le qualità di greggio più ricercate (il “light”, più
facile da raffinare), trascinando così al ribasso i prezzi di tutte le
altre qualità (Brent, Wti, Opec, ecc). Per la prima volta da diversi
anni il prezzo del barile di riferimento (il Brent) è così sceso sotto i
90 dollari; che non sono pochi, ma molti meno dei 110-120 cui ci si era
ormai abituati. Sulle piazze specializzate, e nei ministeri dei paesi
produttori, si preparano gli scenari per studiare le contromosse in caso
di crollo del prezzo fino ai 60 dollari al barile.
È la guerra, in una situazione di crisi globale, perché pochi
produttori possono reggere a lungo un calo così drastico delle entrate
petrolifere. Non può farlo la Russia, sotto pressione dell'Occidente (e
molti avanzano l'ipotesi – più che probabile – che l'iniziativa saudita
sia stata concertata con gli Stati Uniti). Tantomeno il Venezuela,
altrettanto in difficoltà economica e sotto attacco imperialista da
diversi anni. Per non parlare dei produttori africani. Ma non torna a
vantaggio neanche delle multinazionali statunitensi, che vedono il
rischio che il prezzo scenda al di sotto dei costi industriali dello
shale gas, ultima risorsa trovata per restituire agli Usa una – molto
temporanea – indipendenza energetica. E dire che in questi ultimi mesi
gli Stati Uniti avevano ripreso, dopo 40 anni, a esportare greggio verso
altri paesi (tra cui anche l'Italia), sia pure in quantità risibili:
400.000 barili al giorno, sugli oltre 90 milioni di consumo globale
quotidiano.
È una guerra che farà molti morti nel settore petrolifero, dunque. E
che destabilizza un quadro economico già di suo poco allegro. È vero che
questo calo dei prezzi potrebbe favorire una ripresa della produzione
industriale globale e anche, teoricamente, dei consumi di massa
(l'energia è l'unica merce globale che abbia un prezzo uguale per tutti
ed entri nella formazione del prezzo di tutte le altre merci; l'altra –
il lavoro – varia invece di prezzo da paese a paese). Ma è una
proiezione solo teorica, in parte favorevole soltanto per quei paesi –
come la Cina - che continuano a “tirare”, perché è molto più probabile
che contribuisca ad aggravare invece la deflazione generale
dell'economia globale.
I mercati finanziari hanno davanti questo quadro, ora. E comprende
anche molte altre variabili che non ci vengono più nemmeno rese note. In
questo quadro, quel che può fare la Bce è ben poca cosa.
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