Premessa
Siamo abituati ai
cambiamenti epocali annunciati per qualsiasi tema dal governo Renzi.
Il progetto sulla scuola presentato a inizio settembre non fa
eccezione. Nelle 136 pagine de La buona scuola si ritrovano
gli ingredienti consueti: un linguaggio che ricerca così tanto la
freschezza (con tanto di grafica ammiccante agli esercizi di
calligrafia della scuola che fu) da far quasi rimpiangere il
burocratese delle circolari ministeriali, un’analisi come minimo
approssimativa della situazione di partenza, l’indistinzione tra
obiettivi proclamati e misure concrete.
E’ comunque opportuno
prendere sul serio il documento, che, nel solco inaugurato da
Berlinguer e proseguito da Moratti e Gelmini, intende applicare alla
scuola modelli organizzativi e criteri di verifica propri delle
imprese, secondo il mai dimostrato assunto che il criterio di
efficienza aziendale sia valido anche per i sistemi educativi.
Insistere sull’efficienza, d’altronde, assolve anche il compito
di nascondere la realtà della continua diminuzione delle risorse
finanziarie destinate al settore.
Acquisita senza
discussione la riforma Gelmini dei cicli delle superiori, il progetto
renziano si occupa soprattutto dell’organizzazione del lavoro e
della gestione degli istituti. Si tenta così di chiudere il cerchio
di una scuola “postmoderna”, a parole rafforzata in risorse e
ambizioni, nei fatti derubricata dal ruolo costituzionale di servizio
pubblico ad agenzia formativa tra le tante. Lo stile “nozze coi
fichi secchi” è del resto evidente anche nell’ennesimo “ritocco”
all’esame di maturità ipotizzato dalla ministra Giannini che,
senza pudore, propone di eliminare i commissari esterni (come aveva
fatto Moratti negli anni ‘90), per risparmiare quattro soldi e
abolire ogni controllo sulle scuole private.
D’altra parte
l’ennesimo progetto di riforma, oltre a mostrare gli scarsi esiti
degli interventi precedenti (come indicano anche i risultati delle
rilevazioni Ocse-Pisa) fa leva su un clima di immobilismo,
stanchezza, rassegnazione che regna nella scuola.
Precari addio. A
quali condizioni?
Forte impatto ha il primo
punto: l’assunzione in un’unica soluzione nel 2015 dei 150.000
precari compresi nelle graduatorie a esaurimento (Gae), e di
ulteriori 40.000 nel triennio successivo attraverso un nuovo
concorso. Dopo questa fase, si prevede che l’accesso al lavoro
scolastico avvenga solo per concorso dopo un indirizzo universitario
specificamente orientato alla didattica. Se attuata fino in fondo
questa misura potrebbe tagliare il nodo gordiano del precariato che
da decenni costituisce uno dei motivi di più grave disagio per
lavoratori e studenti: un risultato auspicabile tanto per i diritti
dei lavoratori quanto per l’efficacia della didattica.
Emergono però diversi
dubbi, a cominciare dalle effettive disponibilità finanziarie; vi
sono poi le proteste degli abilitati che non rientrano nelle
graduatorie a esaurimento (e che la riforma non considera “precari”
perché hanno pochi giorni di lavoro), che rischiano di essere
esclusi per sempre o di dover ripetere il concorso.
Perplessità suscitano
anche le condizioni dell’assunzione: i nuovi insegnanti dovranno
accettare una mobilità anche fuori provincia o regione, vi sarà una
certa flessibilità tra classi di concorso affini, mentre una parte
dei docenti potranno essere impiegati in ruoli extracurricolari (per
le singoli scuole o per reti di scuole) legati alla riorganizzazione
del profilo docente; inoltre l’organico stabile dovrà provvedere
anche alla sostituzione dei docenti assenti.
Funzione e carriera
dei docenti, presidi manager
Al centro del progetto
della “buona scuola” c’è il ridisegno della funzione docente
nell’ambito della revisione gestionale degli istituti. Tutto ruota
attorno alla valorizzazione del “merito”, una delle parole
magiche, assieme a “riforme”, del renzismo, con un valore
simbolico direttamente proporzionale alla sua genericità. Andiamo
per ordine. L’aggiornamento dei docenti sarà obbligatorio e
permanente, definito a livello di istituto e realizzato da agenzie di
vario tipo. All’interno degli istituti i docenti più propositivi
faranno da “innovatori naturali”. Le attività di aggiornamento e
di innovazione daranno diritto a crediti didattici, formativi e
professionali, riportati in un portfolio personale
che sarà pubblico e on-line. Coordinerà il tutto un nucleo di
valutazione interno (con un membro esterno), in cui spicca la figura
del “docente mentore” (ancora il deleterio lessico renziano),
scelto tra coloro che avranno ottenuto scatti di merito per tre
trienni consecutivi. La progressione degli stipendi, infatti, sarà
collegata al portfolio: gli scatti triennnali (pari a 60 euro netti)
saranno attribuiti ai soli docenti che avranno ottenuto più crediti
ovvero ai 2/3 del corpo insegnante di ciascuna scuola. Tale
discriminazione programmatica è giustificata con il fine di rendere
più omogenea la qualità dell’intero sistema, poiché favorirebbe
lo spostamento degli insegnanti migliori verso le scuole con gli
indici di innovazione più bassi, dove avrebbero più chance di
progresso di carriera.
E’ chiara la volontà
di aggiungere alla competizione fra istituti per attrarre iscritti,
che da anni causa assurde dispersioni di energie e risorse, quella
tra i docenti, introducendo figure che lungi dal migliorare la
didattica moltiplicheranno procedure burocratiche e lotte per
l’accaparramento delle sempre più scarse risorse che, come
dimostra il blocco del contratti degli statali, non c’è alcuna
intenzione di aumentare.
Lo stesso vale per il
rilancio dell’autonomia, per cui si prevede di collegare
l’attribuzione del Fondo per il miglioramento dell’offerta
formativa (Mof ) ai risultati del “Piano triennale di
miglioramento” di cui ogni scuola si dovrà dotare. Su questa base
i dirigenti scolastici potranno scegliere direttamente i professori
ritenuti più idonei, attingendo ad un “Registro nazionale dei
docenti”. Il maggiore potere discrezionale attribuito ai presidi
dovrebbe essere controbilanciato da una ridefinizione della loro
figura professionale come “promotori della didattica”, ma
l’ipotesi di reclutare i futuri nuovi presidi con un corso-concorso
presso la scuola nazionale di amministrazione sembra contraddire
questo indirizzo. In sostanza la facoltà di assunzione (e quindi di
licenziamento/trasferimento?) incrementerà ulteriormente
un’impropria concorrenza, con possibile importazione
dall’università di sistemi di cordate e camarille.
Musica e arte,
coding e impresa
Poco rilevanti appaiono
le innovazioni disciplinari. Non che l’estensione dell’educazione
musicale e della storia dell’arte non siano segnali positivi. Il
fatto è che in assenza di una ridefinizione generale di programmi e
indirizzi, si tratta di misure contingenti, probabilmente necessarie
per creare qualche cattedra in più per assorbire i precari. Il
proposito di implementare lingua straniera, economia, e
programmazione informatica (coding) sembra riportare al famoso
slogan berlusconiano delle famose tre I. Altrettanto nebuloso è il
proposito di incrementare la relazione con le imprese, attraverso
l’estensione dell’alternanza scuola-lavoro, le esperienze di
co-progettazione, il rafforzamento dei poli tecnico- professionali:
tutte formule che, anche tralasciando l’assenza di qualsiasi
distinzione tra scuola e impresa, possono funzionano solo in
territori con forti tessuti produttivi, non nel deserto economico e
sociale che circonda le scuole in tante aree del paese.
Le risorse
Il capitolo sulle finanze
conferma il quadro fin qui esposto. Nessun cenno al ripristino delle
risorse tagliate in precedenza (gli 8 miliardi della Gelmini), mentre
i fondi per l’offerta formativa (800 milioni tra 2014 e 2020)
saranno allocati “in modo premiale”, cosicché è facile
prevedere che le ampie disparità socio-territoriali già esistenti
non potranno che allargarsi.
Risorse aggiuntive
dovrebbero provenire dalle agevolazioni fiscali concesse ai
finanziamenti privati. Non manca la lode del crowd funding, in
realtà copertura anglofona della diffusissima pratica che costringe
i genitori ad acquistare materiali di consumo che le scuole non sono
più in grado di fornire. Si ribadisce insomma l’abdicazione del
principio della scuola come servizio pubblico che lo Stato deve
garantire comunque, sostituito da un malinteso criterio di efficienza
che nella migliore delle ipotesi avrà un puro significato contabile,
nella peggiore incrementerà pratiche clientelari e abusi di potere.
Consultare versus
contrattare
Il 15 settembre tutti i
ministri hanno partecipato all’inizio dell’anno scolastico. Renzi
era a Palermo, dove ha visitato la scuola “don Pino Puglisi”, ma
ha rifiutato di incontrare una delegazione dei precari che lo
contestavano. E’ la stessa logica che ispira la consultazione che
precederà, tra settembre e novembre di quest’anno, il varo della
riforma. Si distribuiranno “kit per le assemblee” degli studenti
e dei docenti, ma intanto si finge di ignorare che i principali punti
in discussione – dalle modalità di assunzione alla carriera
docente - sono di pertinenza del contratto nazionale di lavoro.
Insomma, selfie con
tutti, trattative con nessuno. Bella lezione, prof. Renzi.
Stefano De Cenzo - Roberto Monicchia
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