mercoledì 21 settembre 2011

I veri "lacci e lacciuoli" sull'economia

di  Alessandro Avvisato

 

L'Italia dal punto di vista di un capitalista coerente appare come una terra di perdizione. Un paese membro del G8 e tra i fondatori dell'Unione Europea, è in mano ad una borghesia stracciona che continua a campare sulla rendita ed ha prodotto più “prenditori” che piccoli o grandi capitani d'industria. L'attuale capo del governo ha costruito su questo blocco sociale le sue fortune elettorali e personali. La crisi sta stanando tutti, ma l'intreccio degli interessi fa sì che trovino spazio anche commentatori e opinionisti abilissimi nel nascondere questa realtà ed a rovesciarla nel suo opposto.

Questi ultimi insistono nel dire che la crescita economica e sociale del paese è bloccata da “lacci e lacciuoli” e da privilegi che osteggiano la liberazione degli spiriti animali insiti della capacità imprenditoriale individuale. La crisi poi sollecita bruscamente tutta la società e quando occorre mettere mano alle soluzioni, i “prenditori” e i loro corifei tendono ad collocarsi nel ruolo delle vittime piuttosto che dei carnefici. Le urla contro la “patrimoniale” si sono sentite alte e diffuse.
Quando sentiamo tuonare contro i “lacci e lacciuoli” che ostacolano la crescita, abbiamo imparato che le soluzioni vanno sistematicamente a senso unico. Le rigidità da rimuovere diventano solo quelle sulla facilità nei licenziamenti (ed ecco l'art.8) o la scarsa flessibilità della forza lavoro (ed ecco le vari leggi Treu e Trenta). Oppure vengono additati come ostacolo la quantità dei lavoratori pubblici o il volume della spesa sociale impiegata per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti (più almeno 5 milioni di nuovi residenti provenienti da altri paesi) un sistema sanitario, previdenziale e scolastico appena degno di standard civili. Ministri di “bassa statura” e ministri ossessionati dagli anni Settanta lo riaffermano – collezionando anche pessime figure – in ogni occasione.
Ma non c'è solo questo. Alcuni giornalisti e nuovi demagoghi hanno fatto la loro fortuna fustigando le spese folli della casta e i costi della politica, indicando così all'opinione pubblica l'albero ma occultando oculatamente la foresta (alla quale i giornalisti non sono affatto estranei). 
E' vero, esistono le caste, ma queste coincidono solo parzialmente con il ceto politico. Uno sguardo portato più in profondità sulla struttura economica e sociale del paese rivela cose diverse e soprattutto assai più inquietanti.
La impietosa e dettagliata radiografia offertaci da Marco Panara su Affari e Finanza di lunedi 19 settembre (vedi anche http://www.contropiano.org/it/economia/item/3469-la-rendita-anticapitalista-la-ricchezza-italiana-che-non-produce-sviluppo ) ci dice invece che il principale ostacolo alla crescita economica e sociale del paese.... è la sua borghesia e le sue caratteristiche parassitarie.
La ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi” scrive Panara. Si tratta di una ricchezza molto superiore al Pil e al debito pubblico che ci viene rovesciato addosso come ricatto sul futuro. Il problema, ovviamente, è l'uso è la distribuzione di questa enorme ricchezza.Per capire perché questa immensa ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo il 57,8 percento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie”.

In sostanza, afferma Panara, questa ricchezza è immobile, immobilizzata, vincolata a produrre rendita. Non produce benessere perchè viene tassata molto meno che il lavoro, non produce neanche profitti perchè non viene investita nella produzione e nella tecnologia ma solo in rendita immobiliare e finanziaria. La quota di ricchezza che la borghesia stracciona del nostro paese destina alla produzione appare infatti irrisoria: solo il 4,9%. Eppure è su questa quota irrisoria (e sui lavoratori ad essa collegati) che si abbatte la maggior parte dell'imposizione fiscale e dei provvedimenti tesi a ridurre sempre di più il monte salari da destinare ai lavoratori.

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