L'Italia dal punto di vista di un capitalista coerente appare come una terra di perdizione. Un paese membro del G8 e tra i fondatori dell'Unione Europea, è in mano ad una borghesia stracciona che continua a campare sulla rendita ed ha prodotto più “prenditori” che piccoli o grandi capitani d'industria. L'attuale capo del governo ha costruito su questo blocco sociale le sue fortune elettorali e personali. La crisi sta stanando tutti, ma l'intreccio degli interessi fa sì che trovino spazio anche commentatori e opinionisti abilissimi nel nascondere questa realtà ed a rovesciarla nel suo opposto.
Questi ultimi
insistono nel dire che la crescita economica e sociale del paese è bloccata da
“lacci e lacciuoli” e da privilegi che osteggiano la liberazione degli spiriti
animali insiti della capacità imprenditoriale individuale. La crisi poi
sollecita bruscamente tutta la società e quando occorre mettere mano alle
soluzioni, i “prenditori” e i loro corifei tendono ad collocarsi nel ruolo
delle vittime piuttosto che dei carnefici. Le urla contro la “patrimoniale” si
sono sentite alte e diffuse.
Quando sentiamo
tuonare contro i “lacci e lacciuoli” che ostacolano la crescita, abbiamo
imparato che le soluzioni vanno sistematicamente a senso unico. Le rigidità da
rimuovere diventano solo quelle sulla facilità nei licenziamenti (ed ecco
l'art.8) o la scarsa flessibilità della forza lavoro (ed ecco le vari leggi
Treu e Trenta). Oppure vengono additati come ostacolo la quantità dei
lavoratori pubblici o il volume della spesa sociale impiegata per assicurare ad
un paese di 60 milioni di abitanti (più almeno 5 milioni di nuovi residenti
provenienti da altri paesi) un sistema sanitario, previdenziale e scolastico
appena degno di standard civili. Ministri di “bassa statura” e ministri
ossessionati dagli anni Settanta lo riaffermano – collezionando anche pessime
figure – in ogni occasione.
Ma non c'è solo
questo. Alcuni giornalisti e nuovi demagoghi hanno fatto la loro fortuna
fustigando le spese folli della casta e i costi della politica, indicando così
all'opinione pubblica l'albero ma occultando oculatamente la foresta (alla
quale i giornalisti non sono affatto estranei).
E' vero, esistono le caste, ma
queste coincidono solo parzialmente con il ceto politico. Uno sguardo portato
più in profondità sulla struttura economica e sociale del paese rivela cose
diverse e soprattutto assai più inquietanti.
La impietosa e
dettagliata radiografia offertaci da Marco Panara su Affari e Finanza di lunedi
19 settembre (vedi anche http://www.contropiano.org/it/economia/item/3469-la-rendita-anticapitalista-la-ricchezza-italiana-che-non-produce-sviluppo
) ci dice invece che il principale ostacolo alla crescita economica e sociale
del paese.... è la sua borghesia e le sue caratteristiche parassitarie.
“La ricchezza
lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi
di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza
netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi” scrive Panara. Si tratta di una
ricchezza molto superiore al Pil e al debito pubblico che ci viene rovesciato
addosso come ricatto sul futuro. Il problema, ovviamente, è l'uso è la
distribuzione di questa enorme ricchezza. “Per capire perché questa immensa
ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che
troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo
il 57,8 percento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di
valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti
(le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie”.
In sostanza,
afferma Panara, questa ricchezza è immobile, immobilizzata, vincolata a
produrre rendita. Non produce benessere perchè viene tassata molto meno che il
lavoro, non produce neanche profitti perchè non viene investita nella
produzione e nella tecnologia ma solo in rendita immobiliare e finanziaria. La
quota di ricchezza che la borghesia stracciona del nostro paese destina alla produzione
appare infatti irrisoria: solo il 4,9%. Eppure è su questa quota irrisoria (e
sui lavoratori ad essa collegati) che si abbatte la maggior parte
dell'imposizione fiscale e dei provvedimenti tesi a ridurre sempre di più il
monte salari da destinare ai lavoratori.
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