I professori Alesina e Giavazzi (sul Corriere della sera di lunedì 19
settembre) ci hanno impartito l'ennesima lezioncina riassumibile nella
trita formula secondo cui le tasse (depressive) fanno male, mentre i
tagli alla spesa pubblica (enfaticamente chiamati riforme) fanno bene.
Per cui l'erosione sino ai minimi termini del welfare, l'estinzione
delle provvidenze assistenziali, la drastica diminuzione delle pensioni e
il prolungamento dell'attività lavorativa non sono, per costoro, taglie
sulla povertà, ma tagli virtuosi di spese improduttive, gravami che
inceppano lo sviluppo. Naturalmente, sono misure che decurtano, oltre
la soglia della sopportabilità, reddito, servizi essenziali per i più
deboli. Ma, per un'imperscrutabile ragione, questi interventi che
peggiorano la vita di milioni di persone, sarebbero i benvenuti perché
portatori di effetti "strutturali", permanenti, tali cioè da guarire il
sistema dall'eccesso di spesa pubblica, quella socialmente solidale,
ritenuta, non si sa perché, ininfluente sulla dinamica dei consumi,
sulla domanda e perniciosa per la tanto invocata "crescita". I mentori
di questa immarcescibile fede iperliberista ci spiegano, una volta di
più, che «ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il
debito pubblico e il Pil». E tuttavia, da dove possa mai sortire una
ripresa di qualche sostanza se si colpiscono così pesantemente i consumi
popolari e si impoverisce un'intera nazione, è un dilemma che resta
insoluto. In realtà, non serve grattare il fondo del barile per capire
dove il duo bocconiano vada a parare. Basta proseguire ancora un poco
nella lettura dell'articoletto consegnato al quotidiano di via
Solferino. Che sulla tre quarti assesta la stoccata decisiva: «Molti
oggi auspicano un'altra tassa, la patrimoniale, che sarebbe nella
migliore delle ipotesi un'imposta inutile, nella peggiore fatale».
Ohibò! Inutile? Fatale? E sapete perché? «Perché - secondo
Alesina&Giavazzi - ridurre il debito senza rilanciare lo sviluppo
diffonderebbe la falsa impressione che le riforme non sono poi tanto
urgenti». Ma a quali riforme alludono i nostri illustri scienziati? Non
lo dicono apertamente, ma non è difficile intuirlo: alle sole che
appartengono al loro universo concettuale, quelle che rovesciano il
carico da novanta sul lavoro e sul già esangue sistema di protezione
sociale che fra stenti sopravvive nel nostro Paese. Un intervento
tributario capace di individuare gli immensi giacimenti di ricchezza
privata nascosta per tassarla, non "una tantum", ma in via permanente e
strutturale, non è considerato una "riforma" degna di tal nome, sebbene
proprio su queste fondamenta, oggi quasi divelte, dovrebbe poggiare il
patto sociale che unisce i cittadini in una comunità solidale. E sì che
si tratterebbe di una misura ancora relativa, diciamo così, parzialmente
risarcitoria, rispetto al dettato costituzionale che imporrebbe un
prelievo fiscale non solo proporzionale, ma progressivo. Ma i nostri
esimi economisti, in linea con una vulgata ideologica divenuta un mantra
anche per ampi settori del centrosinistra, pensano - ecco il punto -
che tassare i ricchi, e persino gli straricchi, significherebbe
penalizzare gli investimenti, quindi frenare la crescita e colpire
l'occupazione. Esattamente ciò che predica il credo reazionario del Tea
Party americano che, con questa identica argomentazione, si oppone alla
proposta di Barack Obama tesa a tassare un miliardario almeno come un
muratore, per finanziare un piano di investimenti infrastrutturali e di
rilancio dell'occupazione.
Di là dall'oceano è stato proprio tale Warren Buffett, il secondo uomo più ricco d'America dopo Bill Gates, a confutare il dogma della destra sulle presunte conseguenze anticrescita di una tassazione delle plusvalenze finanziarie. In una parola, anche i più ricchi fra i ricchi, sanno bene, in cuor loro, che nessun progetto di investimento industriale è stato mai varato o revocato per ragioni fiscali. Solo che pochi sono disposti ad ammetterlo. Soprattutto coloro che incarnano il capitalismo parassitario e usurario che così solide radici ha messo nel nostro Paese.
In un chiarissimo articolo su la Repubblica di lunedì, Marco Panara mette in fila alcuni dati di una stupefacente eloquenza che gli ideologi della Bocconi dovrebbero mandare a memoria. Quei dati rivelano che la ricchezza lorda (media, of course) della famiglia italiana vale quasi diecimila miliardi di euro, quasi sei volte il pil e quattro volte e mezzo il debito pubblico. Eppure, questa immensa ricchezza privata (superiore, in percentuale, a quella del Regno Unito, della Francia, del Giappone, della Germania, degli Stati Uniti), in gran parte concentrata nelle mani dei detentori del capitale e dei fruitori delle rendite e accumulata grazie ad una crescente sfruttamento del lavoro e ad una mastodontica evasione fiscale, non produce crescita. Perché? Semplicemente perché non è stata reinvestita, se non in modestissima quota, nell'apparato produttivo.
Quasi il 40 percento di quella enorme massa di denaro è finita in attività finanziarie, speculative, mentre l'altra parte, sino a raggiungere il totale, è stata "patrimonializzata" (fra immobili di lusso, mobili di antiquariato, yacht, quadri, gioielli e così via). L'investimento in beni produttivi vale invece 380 miliardi: «Pochissimo - chiosa Panara - per un Paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l'imprenditoria nel sangue».
Insomma, c'è un universo di imprese sottocapitalizzate, dove il concetto di rischio industriale è ormai un reperto archeologico consegnato ai testi di economia classica. Imprese «i cui proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende. E infatti loro sono ricchi e le aziende povere».
Ora, il punto è che il nostro perverso sistema fiscale ha concentrato il prelievo sul lavoro e sull'attività di impresa, mentre le imposte sul capitale e sul patrimonio valgono - come illustrano i dati della Banca d'Italia - lo 0,2 percento. E' dunque fatale che, nelle condizioni date, il denaro si spinga dove la remunerazione è più forte. Incredibilmente più forte.
Sarebbe un esercizio di comune buon senso concludere che è necessario decidersi a puntare sul lavoro, piuttosto che sulla rendita, rovesciando le priorità del nostro sistema fiscale e occupandoci, finalmente, più che della produttività del lavoro, di quella del capitale. Per liberarci anche di una politica di classe mascalzonescamente contrabbandata per scienza economica.
Di là dall'oceano è stato proprio tale Warren Buffett, il secondo uomo più ricco d'America dopo Bill Gates, a confutare il dogma della destra sulle presunte conseguenze anticrescita di una tassazione delle plusvalenze finanziarie. In una parola, anche i più ricchi fra i ricchi, sanno bene, in cuor loro, che nessun progetto di investimento industriale è stato mai varato o revocato per ragioni fiscali. Solo che pochi sono disposti ad ammetterlo. Soprattutto coloro che incarnano il capitalismo parassitario e usurario che così solide radici ha messo nel nostro Paese.
In un chiarissimo articolo su la Repubblica di lunedì, Marco Panara mette in fila alcuni dati di una stupefacente eloquenza che gli ideologi della Bocconi dovrebbero mandare a memoria. Quei dati rivelano che la ricchezza lorda (media, of course) della famiglia italiana vale quasi diecimila miliardi di euro, quasi sei volte il pil e quattro volte e mezzo il debito pubblico. Eppure, questa immensa ricchezza privata (superiore, in percentuale, a quella del Regno Unito, della Francia, del Giappone, della Germania, degli Stati Uniti), in gran parte concentrata nelle mani dei detentori del capitale e dei fruitori delle rendite e accumulata grazie ad una crescente sfruttamento del lavoro e ad una mastodontica evasione fiscale, non produce crescita. Perché? Semplicemente perché non è stata reinvestita, se non in modestissima quota, nell'apparato produttivo.
Quasi il 40 percento di quella enorme massa di denaro è finita in attività finanziarie, speculative, mentre l'altra parte, sino a raggiungere il totale, è stata "patrimonializzata" (fra immobili di lusso, mobili di antiquariato, yacht, quadri, gioielli e così via). L'investimento in beni produttivi vale invece 380 miliardi: «Pochissimo - chiosa Panara - per un Paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l'imprenditoria nel sangue».
Insomma, c'è un universo di imprese sottocapitalizzate, dove il concetto di rischio industriale è ormai un reperto archeologico consegnato ai testi di economia classica. Imprese «i cui proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende. E infatti loro sono ricchi e le aziende povere».
Ora, il punto è che il nostro perverso sistema fiscale ha concentrato il prelievo sul lavoro e sull'attività di impresa, mentre le imposte sul capitale e sul patrimonio valgono - come illustrano i dati della Banca d'Italia - lo 0,2 percento. E' dunque fatale che, nelle condizioni date, il denaro si spinga dove la remunerazione è più forte. Incredibilmente più forte.
Sarebbe un esercizio di comune buon senso concludere che è necessario decidersi a puntare sul lavoro, piuttosto che sulla rendita, rovesciando le priorità del nostro sistema fiscale e occupandoci, finalmente, più che della produttività del lavoro, di quella del capitale. Per liberarci anche di una politica di classe mascalzonescamente contrabbandata per scienza economica.
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