Non serve utilizzare aggettivi roboanti per descrivere le dimensioni
dello sciopero generale che ieri ha fermato tutta l'Italia. Il fatto è
di una tale evidenza da rendere banale l'ingaggio di un qualsiasi
contenzioso al riguardo. E tuttavia è impossibile illudersi che il
governo più reazionario, più protervo e incompetente che la Repubblica
abbia mai avuto possa - sia pure di fronte ad una contestazione così
imponente - trarre la conclusione che occorre cambiare radicalmente
rotta, rovesciare il carattere antisociale della manovra, dismettere
l'attacco compulsivo ai diritti del lavoro, rinunciare alla difesa a
oltranza di rendite e privilegi, convertirsi ad una politica economica
sul serio attenta al bene comune. Questo non avverrà, non può avvenire,
perché la compagine che detiene il potere ne è intrinsecamente incapace:
per il fetido groviglio di interessi che rappresenta e per la madornale
povertà culturale e morale del suo personale politico.
Questo governo non cambierà indirizzo. Esso può e deve essere solo rovesciato, prima che trascini con sé nel baratro l'intero Paese. La persuasione che questa sia la sola strada utile per tentare di trarre l'Italia dal vicolo cieco in cui è stata cacciata sta divenendo percezione sempre più diffusa. Così stanno cadendo nel vuoto i tentativi di instillare paralizzante paura per le «catastrofiche consenguenze» che il conflitto sociale avrebbe su un'Italia posta sotto schiaffo dalla speculazione. Ci ha pateticamente provato Raffaele Bonanni a spacciare per buona la favoletta che fa dello sciopero «il colpo di grazia su un'Italia già malandata». Gli ha fatto ieri eco Vittorio Feltri, attingendo, senza nulla risparmiarsi, a tutto l'armamentario ottocentesco dei luoghi comuni reazionari. Il direttore de Il Giornale si è sostituito al Berlusconi d'annata nel lanciare strali contro i redivivi comunisti, contro un mondo del lavoro «ancorato a vecchi schemi proletari inconciliabili con la modernizzazione» (?!). Per poi paventare un ritorno agli «anni bui», ai vituperati anni Settanta «quando qualsiasi pretesto era buono per bloccare ogni attività nazionale e alimentare le speranze dei compagni di conquistare il Palazzo».
Già, gli anni Settanta. Quelli nei quali lotte operaie e popolari di un'intensità e continuità mai più ritrovate seppero regalare alla civiltà di questo Paese lo Statuto dei lavoratori, la soppressione delle gabbie salariali, l'indicizzazione dei salari al costo della vita, la legge di tutela delle lavoratrici madri, quella delle lavoranti a domicilio e quella volta a garantire l'inserimento lavorativo per le persone con handicap. E poi la riforma delle pensioni, della casa, della scuola. E ancora: il nuovo stato di famiglia, il divorzio e l'interruzione di gravidanza.
Furono quelli anni fecondi - malgrado la feroce opposizione delle classi dominanti che non lesinarono alcun mezzo, fino allo stragismo e al golpismo - nei quali l'Italia riprese nelle sue mani il filo rosso della Costituzione, rimasta per lunghi anni in sonno. Fino a che punto e con quali conseguenze quel percorso democratico sia stato rovesciato e quelle conquiste divelte è oggi sotto gli occhi di tutti.
Il liberismo, nella sua espressione più ingiusta, brutale e corrotta è divenuto l'ideologia dominante; la disuguaglianza ha raggiunto vertici sconosciuti nella modernità; il culto del mercato, che tutto trasforma in merce, è stato elevato a criterio regolativo della produzione e dei suoi fini, come dei rapporti fra gli esseri umani. E mentre il capitale, avvitato nella sua superfetazione finanziaria, divora forze produttive, natura, sovranità degli stati, democrazia, gli strati sociali che di un tale sconquasso sono i beneficiari, i loro centri di potere, i loro ideologhi, invitano i popoli, i lavoratori, a soccombere, a dissanguarsi per consentire la riproduzione di un modello che condanna l'intera umanità alla regressione e alla barbarie, spacciato per il solo possibile. Qui da noi, tuttavia, l'arrembaggio assume tratti e caratteristiche del tutto particolari.
L'attacco al lavoro è infatti divenuto l'epicentro di uno scontro tutto politico, decisivo per il futuro del Paese.
Vi è stato chi come il Pd, ha criticato l'inserimento nel decreto governativo dell'articolo (quello che permette deroghe aziendali alla pressoché totalità del contratto nazionale di lavoro e dello Statuto dei lavoratori, a partire dal divieto di licenziare senza giusta causa) perché - si è detto - non c'entra niente con gli interventi necessari per fronteggiare la crisi.
Ovviamente, che licenziare ingiustamente o castrare la contrattazione non serva a risanare l'esposizione debitoria dell'Italia è cosa di un'evidenza solare. Quello che in Pd (e non solo esso) non afferra, ma di cui padroni e governo hanno perfetta consapevolezza, è che se tu scardini il carattere unificante del contratto nazionale, se attraverso la liberalizzazione dei licenziamenti fai del ricatto l'elemento costitutivo dei rapporti di lavoro, se colpisci al cuore lo stesso diritto di coalizione dei lavoratori e rendi così ancor più grande l'asimmetria di forze fra datore di lavoro e prestatore d'opera, fra padrone ed operaio, tutto poi diventa possibile. E' proprio questo annichilimento dei lavoratori, della loro unità di classe, della loro capacità di conflitto che apre un'autostrada a qualsiasi manomissione sociale, a qualsiasi attentato al sistema di protezione sociale, senza che il Paese ormai sfibrato trovi più le risorse per opporre un'efficace resistenza.
Ecco il grande tema aperto nel Paese.
Per questo il possente sciopero di ieri non deve rappresentare un episodio, una protesta in sé conclusa, una sorta di canto del cigno dopo il quale tirare i remi in barca.
Dalle cento piazze di ieri viene un segnale chiaro: non c'è rassegnazione, né senso di impotenza nella nostra gente; c'è, al contrario, voglia di combattere, unita alla richiesta pressante non di briglie, ma di una mano sicura che quella lotta sappia guidare senza paura. Ne tragga utile ispirazione la stessa Cgil, chiamata nei prossimi giorni ad una seria discussione interna che ci auguriamo capace di correggere la linea tracciata dall'accordo del 28 giugno, fatalmente foriera di ulteriori gravi cedimenti. Gli stessi che i sindacati complici oggi rivendicano come frontiera del nuovo, irridendo chi si batte per riconquistare un lavoro degno e per provare a scrivere un'altra storia.
Questo governo non cambierà indirizzo. Esso può e deve essere solo rovesciato, prima che trascini con sé nel baratro l'intero Paese. La persuasione che questa sia la sola strada utile per tentare di trarre l'Italia dal vicolo cieco in cui è stata cacciata sta divenendo percezione sempre più diffusa. Così stanno cadendo nel vuoto i tentativi di instillare paralizzante paura per le «catastrofiche consenguenze» che il conflitto sociale avrebbe su un'Italia posta sotto schiaffo dalla speculazione. Ci ha pateticamente provato Raffaele Bonanni a spacciare per buona la favoletta che fa dello sciopero «il colpo di grazia su un'Italia già malandata». Gli ha fatto ieri eco Vittorio Feltri, attingendo, senza nulla risparmiarsi, a tutto l'armamentario ottocentesco dei luoghi comuni reazionari. Il direttore de Il Giornale si è sostituito al Berlusconi d'annata nel lanciare strali contro i redivivi comunisti, contro un mondo del lavoro «ancorato a vecchi schemi proletari inconciliabili con la modernizzazione» (?!). Per poi paventare un ritorno agli «anni bui», ai vituperati anni Settanta «quando qualsiasi pretesto era buono per bloccare ogni attività nazionale e alimentare le speranze dei compagni di conquistare il Palazzo».
Già, gli anni Settanta. Quelli nei quali lotte operaie e popolari di un'intensità e continuità mai più ritrovate seppero regalare alla civiltà di questo Paese lo Statuto dei lavoratori, la soppressione delle gabbie salariali, l'indicizzazione dei salari al costo della vita, la legge di tutela delle lavoratrici madri, quella delle lavoranti a domicilio e quella volta a garantire l'inserimento lavorativo per le persone con handicap. E poi la riforma delle pensioni, della casa, della scuola. E ancora: il nuovo stato di famiglia, il divorzio e l'interruzione di gravidanza.
Furono quelli anni fecondi - malgrado la feroce opposizione delle classi dominanti che non lesinarono alcun mezzo, fino allo stragismo e al golpismo - nei quali l'Italia riprese nelle sue mani il filo rosso della Costituzione, rimasta per lunghi anni in sonno. Fino a che punto e con quali conseguenze quel percorso democratico sia stato rovesciato e quelle conquiste divelte è oggi sotto gli occhi di tutti.
Il liberismo, nella sua espressione più ingiusta, brutale e corrotta è divenuto l'ideologia dominante; la disuguaglianza ha raggiunto vertici sconosciuti nella modernità; il culto del mercato, che tutto trasforma in merce, è stato elevato a criterio regolativo della produzione e dei suoi fini, come dei rapporti fra gli esseri umani. E mentre il capitale, avvitato nella sua superfetazione finanziaria, divora forze produttive, natura, sovranità degli stati, democrazia, gli strati sociali che di un tale sconquasso sono i beneficiari, i loro centri di potere, i loro ideologhi, invitano i popoli, i lavoratori, a soccombere, a dissanguarsi per consentire la riproduzione di un modello che condanna l'intera umanità alla regressione e alla barbarie, spacciato per il solo possibile. Qui da noi, tuttavia, l'arrembaggio assume tratti e caratteristiche del tutto particolari.
L'attacco al lavoro è infatti divenuto l'epicentro di uno scontro tutto politico, decisivo per il futuro del Paese.
Vi è stato chi come il Pd, ha criticato l'inserimento nel decreto governativo dell'articolo (quello che permette deroghe aziendali alla pressoché totalità del contratto nazionale di lavoro e dello Statuto dei lavoratori, a partire dal divieto di licenziare senza giusta causa) perché - si è detto - non c'entra niente con gli interventi necessari per fronteggiare la crisi.
Ovviamente, che licenziare ingiustamente o castrare la contrattazione non serva a risanare l'esposizione debitoria dell'Italia è cosa di un'evidenza solare. Quello che in Pd (e non solo esso) non afferra, ma di cui padroni e governo hanno perfetta consapevolezza, è che se tu scardini il carattere unificante del contratto nazionale, se attraverso la liberalizzazione dei licenziamenti fai del ricatto l'elemento costitutivo dei rapporti di lavoro, se colpisci al cuore lo stesso diritto di coalizione dei lavoratori e rendi così ancor più grande l'asimmetria di forze fra datore di lavoro e prestatore d'opera, fra padrone ed operaio, tutto poi diventa possibile. E' proprio questo annichilimento dei lavoratori, della loro unità di classe, della loro capacità di conflitto che apre un'autostrada a qualsiasi manomissione sociale, a qualsiasi attentato al sistema di protezione sociale, senza che il Paese ormai sfibrato trovi più le risorse per opporre un'efficace resistenza.
Ecco il grande tema aperto nel Paese.
Per questo il possente sciopero di ieri non deve rappresentare un episodio, una protesta in sé conclusa, una sorta di canto del cigno dopo il quale tirare i remi in barca.
Dalle cento piazze di ieri viene un segnale chiaro: non c'è rassegnazione, né senso di impotenza nella nostra gente; c'è, al contrario, voglia di combattere, unita alla richiesta pressante non di briglie, ma di una mano sicura che quella lotta sappia guidare senza paura. Ne tragga utile ispirazione la stessa Cgil, chiamata nei prossimi giorni ad una seria discussione interna che ci auguriamo capace di correggere la linea tracciata dall'accordo del 28 giugno, fatalmente foriera di ulteriori gravi cedimenti. Gli stessi che i sindacati complici oggi rivendicano come frontiera del nuovo, irridendo chi si batte per riconquistare un lavoro degno e per provare a scrivere un'altra storia.
Dino Greco, Liberazione
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua