mercoledì 21 settembre 2011

Quando gli studenti occupano Wall Street

Che relazione c’è tra una SWAT team, squadra speciale anticrimine, e un uomo vestito da Gordon Gekko, che somiglia a Michael Douglas in Wall Street con la parrucca? O tra un esercizio di Yoga a Bowling Green Plaza, e un chitarrista stonato che canta “evitiamo la bancarotta delle banane”? Beh, le relazioni in verità sono tante, fatto sta che in queste ore sono tutte accampate alla fermata di Broad Street a New York. Da sabato i palazzi grigio scuro di Wall Street brulicano di sacchi a pelo, burro di arachidi e segni “Make yoga not war”. Colorato da artisti in fermento con tappetini da aerobica in mano, per quattro giorni oramai il lavoro di Wall Street è stato interrotto allegramente dagli stessi studenti che oggi si preparano a camminare in giacca e cravatta lungo il Financial District: “Dress corporate!”, è la parola d’ordine: “Confuse the Police!”.
L’appello Occupy Wall Street girava in rete da qualche tempo, ma la “Rivoluzione del 99%” è cominciata sabato: da sabato questo “movimento di resistenza senza leader” che rappresenta il 99% della popolazione mondiale, ha occupato il simbolo plumbeo dell’1% dei più ricchi al mondo. L’appello, diffuso inizialmente dal collettivo adbusters, una rete canadese di studenti, artisti e scrittori, è ora condiviso da tre generazioni di ventenni e settantenni che non hanno alcuna intenzione di andarsene: “All day, All week, Occupy Wall Street!”, dicono. Accampati a “Liberty Park”, dove la mattina si fa yoga e la sera arrivano a sorpresa pizze di solidarietà ordinate oltreoceano, gli autoconvocati del 99% crescono ogni giorno insieme al desiderio di continuare l’esperimento che dalla Spagna all’Egitto sta reinventando la democrazia.
Chi sono, dunque, questi artisti che girano per Wall Street vestiti di giacche e piume? C’è Mary Ellen Marino, 72 anni, che quest’anno ha ricominciato a lavorare full time per aiutare le figlie dopo che entrambe hanno perso la casa e il lavoro. Fithian, studente che tweetta gli aggiornamenti dal distretto finanziario mentre discute di rette universitarie. Matthew, papà di quarant’anni disoccupato e senza casa. Secondo David Graeber, si tratta in particolare di studenti che hanno dovuto contrarre alti debiti per permettersi un’istruzione e che ora non trovano via d’uscita dalla disoccupazione. “Sono in trappola”, mi spiega un amico al telefono: “tutti dicono che l’istruzione è un investimento sul futuro, però qui ne hanno fatto un business”.
Già qualche tempo addietro, quando i fratelli Ichino hanno cominciato con una certa insistenza a proporre di aumentare le rette studentesche in Italia, abbiamo parlato di debito studentesco. L’occasione era data non solo dal recente taglio del diritto allo studio per più del 90%, o  dall’interrogazione parlamentare che il 18 maggio proponeva di alzare le rette italiane ai livelli inglesi di 9 mila sterline l’anno. Il problema nasceva dal fatto che taluni economisti, per ottenere un risparmio nel debito pubblico, non hanno migliore idea che alzare le tasse universitarie, facendo così leva sulla buona fede delle famiglie per “nazionalizzarne” i risparmi. Ciò che non dicono, però, è che già altrove queste ricette hanno avuto conseguenze disastrose.
Negli Stati Uniti, i default studenteschi sono raddoppiati nell’ultimo anno. A fronte della cosiddetta eccellenza universitaria statunitense, nozione vuota utilizzata spesso per giustificare politiche di privatizzazione anche in Italia, vale forse la pena ricordare anche la povertà, l’iperlavoro e l’esasperazione degli studenti e i dottorandi nordamericani. Forse dovremmo menzionare con John Taylor Gatto gli effetti al Ritalin della scuola statunitense: le armi di istruzione di massa, oppure i casi come Michelle Bisutti, che ha visto il suo debito post-laurea passare da $250.000 a $555.000 per interessi passivi in pochi mesi. In generale, gli Stati Uniti vivono una tale crisi di disoccupazione e sottoccupazione che le bancarotte di pensionati e studenti stanno diventando emoraggie. Oggi un sesto del paese si nutre alle mense dei poveri, e mentre la povertà è sempre più dura e randagia, una recente inchiesta del The Atlantic ha mostrato che dal 1978 a oggi le rette universitarie sono aumentate del 900%. In alcuni college le rette arrivano addirittura a 40 o 50 mila dollari l’anno. Ecco che mentre i Robin Hood italiani sostengono che il prestito d’onore aiuterà i meno abbienti, in quanto i prestiti sono income contingent e li ripaga solo chi può, negli Stati Uniti è chiaro che di contingente non c’è nulla. Come ha dichiarato a giugno il portavoce del Ministero dell’Istruzione Glickman, la cosa più importante è: “vogliamo che i prestiti siano ripagati”.
Che relazione c’è, dunque, tra una SWAT team e le proteste a Wall Street? Bene, la mattina dell’8 giugno all’alba una squadra speciale anticrimine ha fatto irruzione nella casa di Kenneth Wright, giovane nero sposato e con figli, ammanettandolo dietro alla schiena davanti ai bimbi. Il Ministero dell’Educazione ha dovuto puntualizzare poi che il motivo dell’irruzione non era il debito della moglie: non chiediamo mandati di perquisizione contro i debitori, recitava la dichiarazione. Fatto sta che negli Stati Uniti l’episodio è diventato simbolo del tentativo di criminalizzare gli studenti in difficoltà economica. Altro che income contingency! Giunti alla soglia del trilione di dollari di debito, bisogna evitare una nuova dot.com. Costi quel che costi, anche al prezzo di “perseguitare gli ex studenti sino alla tomba.
Che cosa succede se gli studenti non pagano? Questa è una delle domande aperte in questi giorni a Liberty Park, dove l’ironia è l’unica strategia premeditata. Ecco che a fronte del debito e delle SWAT teams, gli studenti chiedono: “Hungry? Eat a banker!”. Poi con abiti in gessato blu e un cappio al collo al posto della cravatta vanno a fare yoga a Bowling Green Plaza. Non vogliamo stock exchanges, vogliamo human exchanges, dicono. “Non chiediamo nulla a Wall Street”, ha già fatto abbastanza, dice Melissa Holmes. Ci pensiamo noi a fare l’impossibile. We’re the 99%.

Blog | di Francesca Coin

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