sabato 1 dicembre 2012

Produttività, quando l’ideologia si mangia i fatti di Stefano Perri, Il Manifesto

Il dato più eclatante è la bassa produttività. Il dato più eclatante è la bassa produttività del capitale. I dati Istat mettono in chiaro la volontà di scaricare tutto sulla flessibilità del lavoro
La vicenda dell’accordo sulla produttività del lavoro, sottoscritta da Cisl e Uil e non dalla Cgil è l’ultima tappa del percorso che negli ultimi decenni ha visto progressivamente erosi i diritti dei lavoratori. Il lavoro torna ad essere considerato una merce pura e semplice, appendice del capitale, sussunto, direbbe Marx, alle sue esigenze di valorizzazione. Nel merito, nel Manifesto l’accordo è stato criticato efficacemente, ad esempio da Paolo Pini, mostrando come possa condurre a risultati del tutto opposti rispetto agli obiettivi dichiarati di incentivare una ripresa della crescita della produttività del lavoro e della competitività.
Vorrei sottolineare che ancora una volta si conferma come la «tecnica» che pretende di imporre soluzioni dettate dai fatti, sia in realtà una ideologia che si afferma a prescindere dai fatti e che copre una lotta di classe alla rovescia, guidata dagli interessi di una minoranza dominante che vuole farci credere che questi suoi interessi coincidano semplicemente con gli interessi generali.
Che la tecnica intesa come riallineamento alle pretese leggi oggettive e immodificabili della economia sia una copertura ideologica è spesso svelato dai dati elaborati da istituti di statistica al di sopra ogni sospetto: ci è stato detto che la riforma delle pensioni era necessaria per salvaguardare gli interessi delle giovani generazioni, e gli istituti di statistica già certificano gli effetti negativi di quella riforma sull’occupazione giovanile; ci è stato detto che la riforma dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori era necessaria per ridare flessibilità ad un mercato del lavoro più rigido dei nostri partner-concorrenti europei, mentre la stessa Ocse certificava che l’indice di rigidità della protezione del lavoro a tempo indeterminato in Italia era già più bassa di quella della maggioranza dei paesi europei e della media Ocse.
A smentire l’impianto ideologico sulla flessibilità del lavoro a senso unico che sorregge il patto per la produttività interviene il report del 21 novembre dell’Istat «misure di produttività». I dati sono elaborati secondo la più ortodossa teoria neoclassica, ma non per questo nascondono cose interessanti su cui anche i «tecnici» dovrebbero fermarsi a riflettere.
Scopriamo che la produttività oraria del lavoro è cresciuta tra il 1992 e il 2011 dello 0,9 annuo. Una crescita bassa, ma per lo meno positiva. Se poi ci fermiamo in questa analisi al 2008, cioè prima che nell’anno successivo la crisi facesse sentire tutti i suoi effetti negativi anche sulle stime della produttività, e dividiamo gli anni in due fasi distinte, notiamo che la produttività del lavoro è cresciuta in media più velocemente dal 1993 al 2003 per rallentare dal 2003 al 2008. E’ proprio un caso che la diminuzione della dinamica si manifesti con il massimo della crescita del precariato, cioè della crescita degli occupati a tempo determinato sull’occupazione totale che raggiunge un picco proprio nel 2008?
E’ significativo che mentre la produttività nell’industria cresce costantemente sopra la media totale, il settore che più ha frenato la dinamica della produttività del lavoro è quello delle attività professionali, con valori negativi che hanno limitato la crescita della produttività totale del -0,1% e del -0,4% nei due periodi. Non risulta che il patto per la produttività interessi questo settore e possa incentivare un rovesciamento di questa tendenza negativa.
Ma il dato più eclatante è quello sull’andamento della cosiddetta «produttività del capitale», cioè del rapporto tra valore aggiunto e l’input di capitale. Questa produttività è variata ad un tasso medio annuo del -0,7 nel periodo tra il 1993 e il 2003 del -0,5 tra il 2003 e il 2008. Se la produttività del capitale ha un andamento negativo consistente, non sarebbe il caso di affrontare il problema della competitività in un ottica meno unilaterale? Ai tempi in cui la lotta di classe era combattuta da entrambe le parti si sarebbe colta questa occasione per rilanciare la palla nel campo avversario e si sarebbe risposto: «ma preoccupatevi piuttosto alla produttività del vostro capitale. Perché non provate a fare bene il vostro mestiere?» I tempi sono cambiati e i punti di riferimento della sinistra (o del centro-sinistra) sembra siano diventati molto più ecumenici. Bisogna comunque ammettere che non si può parlare di produttività del lavoro e del capitale come fossero cose del tutto separate tra loro. Come si apprende dal report dell’Istat la crescita, sia pure debole, della produttività del lavoro è per circa la metà imputabile alla crescita dell’intensità di capitale, cioè della quantità di capitale per unità di lavoro.
La diminuzione della cosiddetta produttività del capitale non significa altro che il capitale è cresciuto più di quanto non sia cresciuto il valore aggiunto (in definitiva il Pil). Sembrerebbe quasi, a prima vista, che il capitale sia cresciuto «tropp», che cioè si sia investito troppo rispetto alle possibilità di crescita del reddito. Ma, come attestato dalla stessa Istat, contemporaneamente, nei due decenni e anche precedentemente, il tasso di accumulazione del capitale è sceso costantemente, cioè il capitale è cresciuto sempre meno. Da questo punto di vista si può quindi affermare che il reddito è cresciuto poco perché si è investito poco, ma poiché il reddito cresce in modo insufficiente si investe ancor meno. La verità, però, è che oggi non conta solo il livello degli investimenti, ma anche e soprattutto la loro qualità: in altre parole i dati ci dicono che si è investito male. Prova ne sia che, come attestato dal report dell’Istat, gli investimenti nell’information and comunication technology, che dovrebbero rappresentare la forma moderna dell’innovazione e stimolare la crescita, si sono rivelati ancor meno produttivi degli investimenti in generale.
Occorre quindi comprendere che insistere solo sulla flessibilità, intesa come affidamento alla mano invisibile del mercato, che dovrebbe condurre alla migliore allocazione possibile delle risorse, con la conseguenza, come giustamente previsto dalla Cgil, di abbassare ancora i salari reali, non ci fa affatto uscire dal circolo vizioso in cui siamo caduti. Ciò di cui abbiamo bisogno sono «buoni» investimenti, che possono essere incentivati da una «buona» politica (economica). E’ il momento delle scelte, se si vuole evitare il declino. Quanto e come investire, non solo per far ripartire uno sviluppo puramente quantitativo, ma per modificare qualitativamente il modello di sviluppo e di specializzazione e per aumentare il benessere e non solo i livelli di consumo di tutti noi. Che le due cose non siano separate lo dimostra, per chi sappia leggere dietro i dati, lo stesso report dell’Istat sulla produttività.

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