domenica 5 ottobre 2014

Postdemocrazia e responsabilità della sinistra italiana Nicola Tanno intervista Stefano G. Azzarà

La crisi della democrazia italiana? Colpa della sinistra. Berlusconi? Solo l'interprete. Renzi? Ciò che D'Alema ha sempre sognato di essere. Un saggio politico e filosofico, che recupera la lotta di classe e va all'attacco dei postmodernisti di destra e di sinistra
 
foto-id568979-x800-y800È uscito da qualche settimana per Imprimatur Democrazia Cercasi. Dalla caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia di Stefano G. Azzarà. Si tratta di un’analisi che cerca nella storia (e negli errori) del Pci le radici del renzismo e che riabilita il percorso politico e culturale del ’900. Con Azzarà, allievo di Domenico Losurdo e profondo conoscitore di Nietzsche e del pensiero conservatore, abbiamo parlato del suo lavoro concentrandoci sulla parte più politica, inerente alla crisi della democrazia e della rappresentanza.
La crisi della democrazia in Italia – a tuo giudizio – non avviene col “berlusconismo”, anzi critichi la postura di chi ha gridato al fascismo durante gli anni del suo Governo. Scrivi piuttosto che essa prende luogo tra il 1989 – anno della caduta del Muro – e il 1993, quando in Italia prende piede il sistema elettorale maggioritario. In che forme questo avviene e perché il “berlusconismo” è stato solo un fenomeno successivo?
Democrazia moderna è sinonimo di equilibrio relativo nei rapporti di forza politico-sociali. Essa nasce quando, dopo la Seconda guerra mondiale e anche grazie all'organizzazione che erano state capaci di darsi, le classi subalterne acquisiscono una forza tale da conquistare il riconoscimento e di conseguenza l'inclusione nella cittadinanza. Da qui quella grande operazione di redistribuzione della ricchezza e del potere che ha caratterizzato i decenni fino agli anni Settanta.
Non che si fosse realizzato il socialismo, ovviamente: le classi dominanti restavano dominanti, quelle subalterne restavano subalterne; però esisteva una comparabilità delle forze in campo senza la quale non si può parlare di democrazia nel senso pieno del termine (includendo nella definizione di questo termine l'istruzione, la scuola, la sanità, ecc. ecc.). Di conseguenza, la democrazia comincia a finire quando questi rapporti di forza, dopo molti decenni di riequilibrio, tornano a squilibrarsi in maniera drastica. E questo avviene negli anni Settanta, quando all'apice dell'ascesa del movimento dei lavoratori il ciclo si inverte e le classi dominanti reagiscono, lungo alcuni percorsi – dalla scomposizione del ciclo produttivo alla delegittimazione dei partiti di massa – che ci riporteranno, nel deserto attuale, a scenari che anticipano un ritorno all'Ottocento.
Di queste tendenze restaurative, presenti in tutto il mondo occidentale, il berlusconismo è stato un inteprete e non la causa. Un interprete privilegiato, ovviamente, perché aveva dalla sua parte la ricchezza e i mezzi di comunicazione ed era particolarmente in sintonia con lo spirito dei tempi. La lotta ventennale contro Berlusconi è stata una lotta non già contro questi processi ma contro un competitore che contendeva alle sinistre la guida di questi processi stessi. Va oltretutto detto che, nell'interpretare il neoliberalismo, la sinistra è stata molto più efficace, nella pratica, del Cavaliere, il quale pensava soprattutto ai fatti propri. Le ferite più dolorose nella Costituzione e nella legislazione nazionale le ha lasciate proprio la sinistra. E in primo luogo la sinistra è responsabile di ciò che costituisce l'inizio della fine, sul piano istituzionale: la cancellazione del proporzionale e l'introduzione del maggioritario, nelle forme più o meno uninominali che si sono susseguite.
Nel tuo testo cerchi le radici del renzismo nella storia della sinistra italiana e arrivi a dire che Renzi non è affatto un estraneo a essa. Quali sono le radici politiche e culturali che conducono la sinistra verso i sentieri del liberismo e del liderismo?
Caduto il Muro di Berlino, il gruppo dirigente del Pci prima e poi del PdS, in difficoltà per via dei grandi mutamenti intervenuti nella società negli anni Ottanta, pare vincere un terno al lotto: improvvisamente acquisisce potere e un ruolo politico di governo. E' un paradosso: il partito la cui storia era legata a quella delle classi lavoratrici, arriva nella stanza dei bottoni proprio quando queste classi sono schiantate da una sconfitta epocale e diventa l'esecutore testamentario della loro sconfitta. Una parte di quel gruppo dirigente, in un certo senso ancora consapevole della questione dei rapporti di forza, cercherà di gestire questa situazione per evitare danni maggiori; un'altra parte, figlia della stagione del riflusso e totalmente deculturata, vedrà addirittura la caduta del Muro come un'opportunità. Entrambe le parti si porranno l'obiettivo "riformistico" di governare i processi in atto, dando vita a un'identità ibrida fatta di nostalgia e al tempo stesso rampantismo, che non è mai approdata nel campo della socialdemocrazia. Ma la tendenza storica, la riscossa globale delle classi dominanti, era molto più forte di queste illusioni e saranno semmai loro ad essere piegati da quei processi, fino a mutare completamente pelle. Ha ragione oggi Renzi nel dire che D'Alema è invidioso perché all'epoca in cui voleva portare il blairismo in Italia non gli è riuscito di fare ciò che sta riuscendo a lui. Il centrosinistra ha privatizzato e deregolamentato a mani basse, a spese dei ceti medio-bassi. Ha stravolto la Costituzione con l'architettura di Maastricht e ha preparato il più grande furto nella storia del paese, quando nel giro di una notte, con l'introduzione dell'euro, è avvenuto un trasferimento di ricchezza gigantesco a danno dei lavoratori dipendenti.
Nel trentennale della morte di Berlinguer – in cui tutti hanno voluto appropriarsi della sua storia – quali sarebbero quelle “incertezze” che gli addebiti in “Democrazia Cercasi”? Non credi, come Lucio Magri, che nei suoi ultimi anni avesse messo in discussione il “compromesso storico” e che quindi stesse ridisegnando un PCI conflittuale? Avrebbe condotto anch’egli il Pci alla dissoluzione?
Quand'è che il finisce il ciclo ascendente delle classi subalterne e comincia invece la loro parabola discendente, conseguenza della controffensiva proprietaria? Avviene tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, ovvero subito dopo l'approvazione dello Statuto dei lavoratori e nel pieno dell'ultimo ciclo di lotte operaie espansive del dopoguerra. In un contesto complicatissimo – siamo nel ciclo di transizione 1968-77 – il Pci stenta ad accorgersi di questo cambiamento decisivo. E prosegue la tradizionale politica di dialogo tra forze popolari, che era già stata alla base della partecipazione del Pci ai governi del primissimo dopoguerra, sino a preparare il Compromesso storico. C'è però una differenza fondamentale: una cosa sono le politiche di alleanze in una fase di ascesa, quando sei in grado di aprire contraddizioni nel fronte altrui e di imporre compromessi progressivi. Una cosa completamente diversa sono le alleanze in una fase di ritirata, e soprattutto quando è completamente invertito il ciclo politico-sociale. In tal caso sono gli altri ad aprire contraddizioni nel nostro fronte, tanto più che i compromessi diventano inevitabilmente a perdere. È noto che Berlinguer imposta questa politica anche per il timore di una svolta autoritaria nel paese: è l'inizio di quella tattica di riduzione del danno che ha contribuito all'assorbimento delle spinte emancipative del '68 nell'alveo di una rivoluzione passiva e alla loro rifunzionalizzazione in chiave neoliberale e che è divenuta l'unico orizzonte strategico della sinistra, un orizzonte che ancora perdura. Solo che all'epoca questo errore era espressione di una tragedia; oggi invece è un errore che non rientra nemmeno nel genere letterario della farsa, che ha una sua nobiltà. In gran parte della sinistra non c'è la minima comprensione della diversità della fase politica in atto, del fatto che un'epoca è finita per sempre. Tant'è che invece di attrezzarsi per vent’anni di semiclandestinità, ancora in troppi pensano di potersi salvare e di ritornare nei giochi attraverso le alleanze. Tutto invece è cambiato, tutto ricomincia da zero, come se fossimo agli albori del movimento operaio.
Scrivi che in politica non esiste la categoria del “tradimento”. Tuttavia mi interessa quella della coerenza. Come è stato possibile che ragazzi cresciuti nella Fgci nonché centinaia di migliaia di militanti abbiano capovolto il proprio punto di vista praticamente su tutto? Credi che alla base ci sia semplicemente il “realismo subalterno” che ha pervaso la storia del Pci o c’è altro?
C'è che la lotta di classe non si svolge soltanto sul terreno politico ed economico ma anche in quello culturale, dell'ideologia, delle forme di coscienza. Nel nostro stesso cervello si combatte in fondo una lotta di classe e non solo all'interno delle nostre organizzazioni di riferimento. La sconfitta delle classi subalterne è maturata nel corso di diversi decenni, è passata lungo molteplici percorsi paralleli e intrecciati ed è stata una sconfitta pressoché totale. Oggi le posizioni di partiti come Prc e PdCI, che pure non avrebbero nulla da perdere, sono più arretrate di quelle del vecchio Psdi di Cariglia o di Nicolazzi. Perché? Prc e Pdci hanno tradito? Non è così: con lo squilibrio crescente dei rapporti di forza di cui parlavo prima è avvenuto invece uno spropositato slittamento a destra dell'intero quadro politico - ma anche delle categorie con le quali leggiamo la realtà, dei significati diffusi, della mentalità dominante – e tutti i soggetti sono stati trascinati in questo smottamento, nessuno escluso. Ammettiamolo: cosa pagheremmo per avere un po' di socialdemocrazia? Percepirlo non è facile, perché la tradizione politica italiana si pregia di ispirarsi a un atteggiamento "realistico" che però, quando non è sorretto da un'analisi accurata e da una teoria forte, da una formazione politico-culturale solida, si rovescia in adesione spontaneista a ciò che è meramente "esistente", più che "reale". Bisogna poi tenere conto che, come nel gioco del calcio, nella lotta siamo almeno in due, se non di più, e che l'avversario o gli avversari sono oggi enormemente più forti di noi. È comprensibile che abbiamo finito per pensare il mondo con i pensieri che le classi dominanti ci hanno messo in testa, e a nominarlo con le loro parole. Si tratta, come dicevo prima, di fare oggi ciò che è stato fatto agli albori del movimento operaio. E questo anche sul piano dell'alfabetizzazione politica.
Eppure il PD non rinuncia alla retorica della sua storia per determinare l’arco delle forze politiche “responsabili” e di quelle “populiste”. A tal proposito hai parlato dell’“antifascistismo” come cosa ben diversa dall’antifascismo storico. Di che si tratta?
L'antifascistismo è cosa diversa dall'antifascismo. Mentre questo è un'esperienza politica precisa, legata a un fenomeno storico determinato e a un'analisi di questo fenomeno, l'antifascistismo è mera retorica declamatoria. E' un sottoprodotto della teoria del totalitarismo, in base alla quale la storia del Novecento è spiegata come la storia della lotta tra la democrazia liberale e due mostri egualmente totalitari, il nazifascismo e il comunismo, che tentano di stuprarla ma vengono sgominati dal Settimo cavalleggeri.
Non esiste nessun pericolo di fascismo in Italia perché non ce ne è bisogno: la televisione e la strumentalizzazione scientifica del desiderio basta e avanza. Agitarne lo spauracchio serve unicamente a legittimare le proprie nefandezze, ovvero a dire: qualunque cosa io faccia, qualunque legge approvi, qualunque attacco ai diritti del lavoro promuova, chiunque è contro di me è di per sé fascista, antidemocratico, autoritario; noi rappresentiamo il popolo, ovvero la democrazia. Ecco che fascista diventa chiunque non condivida il consenso neoliberale, le "regole del gioco" ovvero i contorni del monopartitismo competitivo e lo contesti pubblicamente. Persino un movimento come quello dei 5 Stelle, i quali semmai hanno assorbito gran parte delle frustrazioni sociali prevenendo lo sviluppo di movimenti di estrema destra, può essere dipinto come fascista.
Fausto Bertinotti ritiene che la sinistra anticapitalista dovrebbe apprendere dal liberalismo il rispetto per le libertà individuali visto che nel ’900 ha dimostrato di averne scarsa attenzione. Nel testo hai ribaltato questo ragionamento. In che modo?
Intanto, come ha fatto notare Domenico Losurdo, sembra che Bertinotti ignori completamente il dibattito tra Togliatti, Della Volpe e Bobbio, nel corso del quale il segretario comunista aveva ribadito come per i comunisti le libertà individuali fossero altrettanto importanti dei diritti economico-sociali. Aggiungerei che sembra ignorare lo stesso Marx, il quale considera le conquiste del liberalismo come un presupposto, come un punto di partenza del quale denunciare e oltrepassare i limiti, ovvero le clausole d'esclusione nei confronti dei lavoratori manuali o dei sottouomini delle colonie, in direzione di una universalizzazione della libertà. Infine, sembra ignorare anche Gramsci, il quale sosteneva che il programma liberale integrale è diventato il programma minimo dei socialisti.
C'è però un altro aspetto che spesso viene rimosso perché considerato scandaloso. L'individualismo liberale è in realtà un mito. Per lungo tempo, per i liberali non tutti gli uomini sono degni di essere considerati individui. Certo, l'individuo ha un bagaglio di libertà imperscrittibili: ma chi è effettivamente individuo, uomo? Oggi rimuoviamo questo fatto perché il liberalismo democratico che abbiamo conosciuto aveva abbandonato queste posizioni. Ma il liberalismo si è evoluto e si è distaccato dalla contiguità con il conservatorismo, con il quale ha stretto un blocco di alleanza sempre più rigido a partire almeno dal 1848, solo perché incalzato e per lungo tempo sconfitto dalle tendenze socialiste e rivoluzionarie. Il liberalismo democratico è dunque esso stesso in gran parte figlio della tradizione rivoluzionaria. E anche il suo individualismo lo è. La controprova sta nel fatto che una volta venuta meno la pressione del movimento socialista, il liberalismo è tornato su posizioni ottocentesche o persino pre-ottocentesche non solo per quanto riguarda le posizioni economico-sociali, non solo per i suoi progetti istituzionali, ma anche nei riguardi dei diritti individuali. Pensiamo alla diffusione del securitarismo in Europa, al trattamento dei migranti, ecc. ecc. (negli Stati Uniti, un paese nel quale da sempre le carceri traboccano di afro-americani, di individualismo non è mai stato il caso di parlare, se con tale termine si deve intendere una aspirazione universalistica).
A venticinque anni dalla caduta del Muro, la sinistra preferisce dimenticare e guardare oltre il ’900. Chi non dimentica, invece, appare la destra che, pur in assenza di una seria alternativa anticapitalista, continua in ogni modo a raccontarci, a modo suo, la storia del comunismo. Come te lo spieghi?
L'altra sera il Tg2 dava notizia dei 60 anni dell'ex calciatore Marco Tardelli con un servizio di "ricostruzione storica" nel quale si celebrava la caduta del Muro di Berlino e la vittoria dell'Occidente sul totalitarismo comunista. E' la dimostrazione che si tratta di un momento fondativo, costitutivo dell'autocoscienza neoliberale odierna. Ma pensa qualcosa di diverso il PD? Pensa qualcosa di diverso Vendola? Dove finisce dunque la destra e dove comincia la sinistra, oggi? Io ritengo che la distinzione tra destra e sinistra abbia ancora un senso ma che questi termini vadano profondamente ridefiniti e che vada ridefinito anche il campo della sinistra: oggi esso è estremamente sottile, ed è esso stesso lambito e invaso dalla destra.
In ogni caso è chiaro che la destra ha un rapporto migliore con la propria storia, anche perché – particolare di non poco conto – ha vinto; e questo è un elemento importante della sua attuale egemonia. La ricostruzione liberale della storia del Novecento, sintetizzata nella teoria del totalitarismo, infatti, è da tempo patrimonio comune anche della "sinistra" ufficiale, sia nella variante moderata che in quella radicale.
La mia impressione è che il ciclo 1968-77 abbia molto a che fare con tutto ciò. È in quegli anni che si diffonde l'atteggiamento postmoderno nei confronti della storia. Perché la catastrofe del Novecento? Non era forse il progetto emancipativo moderno, per via della sua presunzione universalistica, intrinsecamente sbagliato? Non è il primato della ragione inevitabilmente totalitario, visto che si tratta di mettere le braghe al mondo e di imporre alla realtà un decorso artificiale anche a costo di prenderla a martellate se si ribella? Non è meglio concentrarsi sulle libertà individuali, sganciando la libertà di ciascuno da quella di tutti e spostandola dal terreno politico a quello della vita privata? Da qui la denuncia dell'idea di progresso e del prometeismo moderno, del quale il marxismo e il capitalismo sono solo due varianti intercambiabili (un'idea del vecchio Heidegger, a guardar bene). Se questo o quello pari sono, però, in fondo meglio vivere sotto il capitalismo, perché almeno ci si diverte di più.
Invece la destra conosce bene le differenze, tant'è che non le dimentica. Anche di fronte all'ascesa di aree del mondo che un giorno potrebbero mettere in discussione l'organizzazione capitalistica della società, la destra sa benissimo che deve imporre anzitutto la propria egemonia culturale, la propria visione del mondo. Deve cioè diffondere l'ideologia naturalistica secondo la quale c'è stata storia ma ormai non ce n'è più, questa è l'unica realtà possibile e non si fuoriesce da questo orizzonte. La sinistra, purtroppo, sembra essere d'accordo e di questo assetto si propone al limite di edulcorare le contraddizioni con un po' di ecologia e di diritti civili. L'idea stessa di una fuoriuscita è impensabile.
Come si può capire, dobbiamo ricominciare pressoché da zero.

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