mercoledì 24 aprile 2013

Dal postmoderno all’ipermoderno* Roberto Finelli

1. Che l’ideologia e la cultura del postmodernismo – quale cancellazione della realtà a favore dell’artefatto e dell’immateriale – stia definitivamente esaurendosi, dopo aver esercitato la sua egemonia per circa un quarantennio, comincia ad essere percezione diffusa, acquisita in termini di esperienza emotiva ed esistenziale, prima che riflessa in consapevolezza critica e teorica.
I miti della fine della storia e dei conflitti, del valore del frammento in opposizione alla totalità e al sistema, del primato del linguaggio e dell’interpretazione, della cancellazione della realtà ad opera del virtuale, sono crollati ad opera della realtà stessa e della sua lezione che ha intensificato la modernità del capitalismo nell’ipermodernità di un capitalismo globale che si propone come unica forma possibile di vita, pur nella dilatazione a «mondo» delle sue scissure, depredazioni e contraddizioni.
Nella sua versione ipermoderna, definita da una unificazione dura e terribile delle condizioni materiali di vita, ma spogliata dell’ideologia del progresso e di uno sviluppo sostenibile ed estendibile a tutti che lo accompagnava nella modernità, il capitalismo palesa oramai il fallimento di un’intera generazione di intellettuali.
Una generazione che ha osannato la raffinatezza dell’immagine e del virtuale rimuovendo lo svuotamento generalizzato che andava erodendo il vivere e il sentire degli individui, e preferito civettare con un «Altro» maiuscolo e metafisicamente inafferrabile piuttosto che indagare e circoscrivere criticamente quel soggetto impersonale ed altro che è costituito dall’astrazione del capitale, e che sempre più si affermava come il vero soggetto esclusivo dell’accadere storico e della totalità delle nostre esperienze personali.
Con la caduta del Muro di Berlino e del fordismo sovietico e con il trionfo dell’economia leggera e postfordista, delle nuove tecnologie informatiche, dell’investimento sempre più forte nel capitale finanziario, è stato facile, per l’intellettuale, stabilire che il pensiero non avrebbe potuto essere che ‘debole’, privo di centri e luoghi di senso gerarchicamente privilegiati. Ogni ricostruzione critica dei nessi sistemici e totalizzanti di una realtà tendenzialmente unitaria e globale doveva essere abbandonata in nome della decostruzione e della moltiplicazione differenzialista, di un’ermeneutica consegnata al multiversum e alla relativizzazione del senso, alla polisemia del significante, in un percorso mai concludibile che non solo si sottraeva ad ogni funzione identificante, ma che con l’identità lasciava cadere la necessità e la possibilità di scelte di campo e del conflitto.
Accanto e in opposizione all’intellettualità sofisticata e suntuosa dei pochi pastori del postmoderno, però, la rivoluzione informatica del capitale postfordista metteva in campo, come condizione di massa e dei più, la vera figura dell’intellettuale ipermoderno, condannato a un sapere non di radicamento e approfondimento ma di superficie, con un grado minimo e soffuso d’interdisciplinarità, con una destinazione lavorativa altamente variabile e fungibile, e proprio perciò capace di interagire con le macchine dell’informazione e interpretare/eseguire schede e disposizioni di lavoro più o meno formalizzate.
L’adesione dell’intellettualità colta e prevalentemente accademica al mito della grande potenza del linguaggio, dell’autorefenzialità della sfera comunicativa, della sua assenza di riferimento a qualsiasi realtà materiale ed extralinguistica, si è associata, con effetti storico-sociali assai maggiori, allo sviluppo di una forza-lavoro intellettuale e di massa, pronta a subire in modo passivo il rovescio di quel mito, ossia l’asservimento della propria mente ai programmi e ai comandi di lavoro depositati nella memoria artificiale ed alfa-numerica della macchina dell’informazione.
E non è un caso che in Italia questa concordia di opposti tra intellettualità dei pochi e intellettualità dei molti, volta alla produzione del nuovo lavoratore della conoscenza, si è concretizzata in una invereconda riforma dell’Università che, con l’appoggio se non con l’entusiasmo di buona parte dei docenti universitari, ha sottratto, soprattutto alla cultura umanistica, ogni profondità e coerenza di formazione, per dar luogo ad una mente ‘liquida e debole’, fatta di una congerie di nozioni, incapace di una interiorizzazione soggettiva dell’esperire, e pronta proprio per questo a dialogare in modo acritico e spersonalizzato con la tecnologia dell’informazione.

2.
Restituendo in modo drammatico pregnanza e valore alla durezza della realtà materiale, all’esasperazione e alla crisi dell’economico, oggi l’ipermodernità esautora l’ideologia postmodernista e ci esorta a considerare la produzione di linguaggio non più nella sua autonomia bensì come intrinsecamente connessa ad altre produzioni di socialità e ai loro statuti, non strutturati e ordinati linguisticamente.
Noi – e questo è il progetto culturale più proprio di «Consecutio temporum» – non vogliamo tornare al moderno. Non solo perché ciò sarebbe impossibile. Ma anche e soprattutto perché del postmoderno intendiamo accogliere tutto quanto ha esplorato e ci ha insegnato di nuovo e di prezioso: nel verso di una complicanza e arricchimento di prospettive, di innovamento di categorie interpretative, di messa in rilievo di nuove modalità della relazione umana, sia dal lato intersoggettivo che da quello intrapsichico ed emozionale. Vogliamo accogliere cioè tutto quanto il postmodernismo e il pensiero debole ci ha consegnato nella direzione di una nuova delineazione dell’umano, emancipata da quella bisognosità meramente materiale e da quell’antropologia della penuria in cui troppo spesso l’aveva confinata la cultura del moderno, con la sua predilezione per i grandi aggregati e una teoria della relazione fondamentalmente esaurita nella lotta e nella  contraddizione delle classi.
Pur nell’estremizzazione e nella forzatura della sua argomentazione di fondo sulla morte del soggetto, il postmodernismo costituisce un valido antidoto contro le facili presupposizioni mitologiche della vecchia antropologia marxista, col suo materialismo semplicistico e fusionale, l’autocelebrazione e autorassicurazione dell’umano, la sua propensione a proiettare solo nell’esteriorità del  nemico ogni pulsione negativa e distruttiva armata. Un antidoto per non tornare a una soggettività troppo ingenuamente presupposta e troppo semplicisticamente delineata nel suo facile transito, senza problema alcuno, dall’individuale al collettivo e dal pubblico al privato, quasi che la comunanza materiale ed economica –l’identità di classe, appunto– bastasse a risolvere in sé tutti i motivi e i temi di vita dell’individualità umana; quasi che i rapporti sociali −come ha suonato e preteso la celebre sesta tesi marxiana su Feuerbach , e a partire di lì tutta l’antropologia del marxismo storicistico, inclusa l’opera nobile di Antonio Gramsci− esaurissero veramente e fino in fondo l’esistenza dell’essere umano.
Dopo il tempo della liquidità e della moltiplicazione di piani, è giunto il tempo di tornare a valorizzare la funzione della sintesi, proprio perché a diventare sempre più sintetica è la capacità dell’economico di penetrare e pervadere ogni residuo spazio di vita, sostituire il rapporto quantificato e mediato dal denaro ad ogni altro tipo di relazione, dilatarsi e farsi mondo unificando l’intero genere umano a macchia di leopardo attraverso la violenza delle sue polarizzazioni.
Riproporre il valore della sintesi, sia per la vita del soggetto individuale che per il possibile ed auspicabile formarsi di una soggettività collettiva, implica però una capacità, teoretica e pratica, di stringere insieme identità e differenza, relazione con il proprio sé e relazione con l’altro di sé, conoscere e sentire, pensiero logico-discorsivo ed esistenzialità prelogica ed emozionale.

3.
Prima di cadere nella reificazione del linguaggio −nella ipostatizzazione della Negazione/Nulla− e dar luogo a una Scienza della logica metafisicizzata, Hegel aveva argomentato che il bisogno della filosofia nasce dalle scissioni e dalle contraddizioni della vita individuale e collettiva, e quindi dalle passioni e dai tormenti della storia. E che la riunificazione di queste scissure –ossia la produzione di quello che definì l’Assoluto– deve compiersi secondo le movenze e le vicende interiori di ciascuno degli opposti, che nella separatezza ostile e nell’esclusione dell’altro da sé non possono far altro che precipitare in una vita patologicamente sofferta ed esposta alla dissipazione della cattiva infinità. Dunque senza presupporre Assoluti e Fondamenti originari, che costringano la storia degli esseri umani nella gabbia di una filosofia della storia, ma appunto mettendo in campo una filosofia dell’unificazione che muova dall’intrinsecità degli opposti medesimi e non dalla violenza sintetica ed unificante di un Terzo. E che quell’unificazione può procedere, senza violenza né dominio dell’uno sull’altro o di un terzo unificatore, solo attraverso una quadruplicazione dei termini opposti, e a condizione che ciascuno dei due si faccia l’intero, riconoscendo che l’altro, anziché esterno ed opposto, è invece intrinseco e parte costitutiva della propria identità.
Per dire cioè che nello Hegel di Francoforte e di Jena è emersa, poi non sufficientemente sviluppata, una teoria dell’emancipazione che riusciva a vedere nelle pratiche complesse del ‘riconoscimento’ un’ipotesi di fuoriuscita dal nesso Rivoluzione francese-Terrore, ossia dal nesso pratica rivoluzionaria-azione violenta.
Per questa motivazione di fondo, di un processo di trasformazione storica senza violenza, «Consecutio temporum» continua a dedicare anche il suo numero quattro alla tematica del riconoscimento.
Il rilievo che questo paradigma, antropologico, sociale ed etico-politico, continua ad occupare in un modo che sembra ormai permanente nel dibattito attuale delle scienze umane, come l’abbondanza del materiale che è giunto alla nostra redazione, ci hanno esortato alla pubblicazione di un altro numero dedicato alla stessa tematica del precedente.
Abbiamo già indicato nel numero precedente (cfr. l’editoriale del numero 3) quanto la tematica del riconoscimento, sopratutto nell’ambito della tradizione del marxismo e della teoria critica della Scuola di Francoforte, abbia costituito l’esito di una necessità improrogabile di cambiamento di paradigma teorico. Di fronte all’antropologia della bisognosità solo materiale su cui si era fondata la filosofia sociale e politica del marxismo era infatti divenuto imprescindibile rivendicare la centralità nella costituzione del soggetto umano non solo dei bisogni corporei-materiali, ma anche di un desiderio di riconoscimento della più propria individualità che valesse per ciascuno a favorire e a garantire un’individuazione irriducibile ad ogni misura comune. Così l’etica del riconoscimento è nata, almeno in ambito francofortese, prima con Habermas e poi e sopratutto con Axel Honneth proprio per far uscire la tradizione del marxismo e del pensiero critico da un’antropologia arcaica, incapace di mettere a fuoco la determinazione relazionale del desiderio di essere riconosciuti, accolti e valorizzati nella più propria e irrepetibile individualità di esistenza. Un bisogno/desiderio, la cui rimozione, generata dalla miopia dello sguardo di Feuerbach e del giovane Marx verso l’icona hegeliana, avrebbe generato molte delle rigidità e dei disastri del marxismo teorico.
Affermare la legittimità e la centralità del desiderio di riconoscimento accanto all’istanza corporea e materialistica del bisogno non può significare però, per «Consecutio temporum», assentire alla radicalità di quel dualismo tra bisogno e desiderio la lezione di Kojève ha estratto dalla Fenomenologia di Hegel, e di lì ha consegnato a buona parte della cultura francese e contemporanea. Perché non ci è mai sembrato fecondo operare nell’ambito dell’antropologia filosofica e delle scienze umane in generale con quella distinzione cosi rigida tra desiderio di sé e desiderio dell’altro, tra corpo e mente, tra natura e cultura, tra individualità biologica e identità sociale, tra finito e infinito che il pensatore russo-francese ha tratto dalle pagine hegeliane dell’autocoscienza, con una lettura poco meditata e poco mediata alla luce delle altre sezioni dell’opera, in particolare di quelle argomentazioni che precedono e fondano la concettualizzazione della vita come infinita.
Da quella dicotomia kojeviana, che traeva ispirazione dalla guerra mossa dalla differenza ontologica di Heidegger contro la dialettica di Hegel e di Marx, sono derivate molte cose e molti pensieri, tutti iscritti in una comune diffusione e dilatazione del paradigma dualista: inconscio contro conscio, differenza contro identità, frammento contro totalità, evento contro storia. Fino a giungere a quella scissione lacaniana tra godimento e desiderio, tra soddisfazione del corpo ed esposizione all’Altro, che, oltre a richiudere il cerchio con l’iniziazione heideggeriana dell’ex-sistenza come relazione all’assolutamente Altro dell’Essere, sembra riproporre la spiritualità romantica della nostalgia e della ricerca infinita di un oggetto eternamente sfuggente e del permanente stato d’insoddisfazione che ne deriva.
Per «Consecutio temporum», invece, l’unica via proponibile appare essere quella, dialettica, della mediazione e del superamento dei dualismi e delle scissioni. In un recupero di tutti i piani nuovi ed originali che la cultura del Novecento, nelle sue diversissime voci, ha scoperto e indagato, ma appunto ricondotti ad un piano sistematico d’integrazione, in cui il riconoscimento attivo e passivo −e la trama dei vari istituti e modi della relazione che esso implica− non significhi denegazione od omologazione di un sé individuale, bensì la sua valorizzazione, nel perseguimento del suo più proprio progetto di vita, proprio attraverso la mediazione e la facilitazione messa in atto da un intero ambito antropologico-culturale e sociale.

*Editoriale del n. 4 di Consecutio Temporum

Nessun commento:

Posta un commento

Di la tua