giovedì 18 aprile 2013

Come s’è ridotto il centrosinistra di Matteo Pucciarelli, Micromega

Uno rischia di non dormirci la notte. Berlusconi tornato nel ruolo che gli compete, cioè futuro vincitore delle prossime elezioni. Centrosinistra tornato nel ruolo che gli compete, cioè in coma profondo. Cinque Stelle tornati nel ruolo che gli compete, cioè non lo so, prima non c’erano.
Ma per ricordare a noi stessi la gravità della situazione, occorre rimembrare, e rammentare ai vostri figli, come siamo arrivati a oggi. Soprattutto se torniamo con la memoria a quel giorno di novembre, con il Caimano tramortito, ricoperto di insulti a buon mercato, champagne per festeggiare la caduta che pareva definitiva. Sarebbe bastato poco per far vincere il “bene”. Cioè ritrovarsi come dirigenti del Pd uno qualsiasi tra i milioni di elettori del centrosinistra, notoriamente più intelligenti dei propri rappresentanti — almeno così credevo all’epoca. Che avrebbero messo i puntini sulle “i”: caro presidente, nessuna grande coalizione, si torna a votare. All’epoca, tra le altre cose, Grillo era considerato poco più che un fenomeno da baraccone. Avrebbe preso un degnissimo 6 o 7 per cento. I mesi di Monti e della premiata macelleria sociale non li avrebbe vissuti nessuno di noi. E al dottor spread si sarebbe risposto alzando la voce: la democrazia non resta in ostaggio di alcun mercato, al massimo è la politica — quella seria, quella coraggiosa — che impone le proprie regole al «mercato».
Ma va bene. Torniamo agli ultimi mesi. Il centrosinistra si appresta a vincere a mani basse, tanto che imposta la campagna elettorale sul compromesso con il personaggio probabilmente più detestato da gran parte degli italiani: Monti. Non un messaggio di speranza, di cambiamento, per dire: italiani, votateci, noi abbiamo un’idea, un sogno, un obiettivo. Macché. Tutti i giorni a sentire Vendola che non vuole Monti e Monti che non vuole Vendola, in pratica litigavano prima di cominciare. Insomma, come invogliare al (non) voto.
Il peggio deve arrivare, però. Perché le elezioni sono un disastro, e lo si sa. Ma la reazione è più disastrosa del disastro stesso. Dopo tre giorni in cui Bersani tenta di recuperare l’onore perduto (sempre se mai ci fosse stato da qualche parte), ecco la fronda inciucista interna che comincia a tessere la propria tela. D’Alema fa interviste, Veltroni scrive lettere: è il segnale che il gattopardismo trionferà anche stavolta. Il “bene del Paese”, “responsabilità”, “drammatica situazione”, “riforme istituzionali”: le inutili parole in codice per dire che tutto deve restare com’è, io sorreggo te e tu sorreggi me. Bersani però non molla la presa, si inventa due ottime elezioni a Camera e Senato (soprattutto alla Camera, Laura Boldrini) e tenta di convincere Napolitano a non essere Napolitano: cioè a osare, a rischiare un minimo. A essere coraggioso insomma. Figuriamoci.
Ora, eccoci ad oggi. Ci sarebbe solo un modo per salvare la baracca. Proporre un nome di cambiamento per il Quirinale. Utile per far fuori l’ineleggibile Berlusconi, per obbligare il M5S ad un sussulto di responsabilità, per far felice una volta nella loro vita i propri elettori che magari, alle prossime elezioni, troveranno un motivo per ridarti fiducia.
Invece no. Il cambiamento che lo stesso elettorato del centrosinistra chiede ai propri dirigenti, è costretto a chiederlo — finendo per pretenderlo — ai e dai Cinque Stelle. Noi elettori di sinistra rimasti ad aggrapparci ai loro splendidi nomi (salvo un paio): Rodotà, Zagrebelsky, Strada, Gabanelli e così via. Obbligati a sperare che i nomi proposti dal gruppo dirigente democratico non passino mai, ché già ci abbiamo i brividi: Amato, Marini, D’Alema, Finocchiaro.
Ogni volta sembra l’epilogo per questi politici di professione del centrosinistra che calcano la scena da venti o trenta anni con pessimi risultati, che costringono il proprio popolo a travasi di bile continui, sistematici; e viene il voltastomaco a leggere ciò che dicono, alle fumisterie che pronunciano, al vuoto pneumatico delle loro proposte.
È un incubo, sì, dove tutti i protagonisti lottano per far diventare più nero e più inquietante l’incubo. La scissione, i miserabili, Fioroni che scrive lettere pure lui, cattolici litigiosi, i socialdemocratici che in paragone tocca rimpiangere Saragat; e di nuovo, la scissione, i miserabili, le doppie poltrone, «il Pd che si scioglie dentro Sel» (la battuta più bella del mese) e Fabio Mussi che si oppone (questa non è una battuta), Ingroia vacante, il governo Monti sempre in carica e ci dicono che è meglio così. Aggrappati a Crimi che dorme. Non è vita, questa.
PS. Speriamo sempre di essere smentiti dai fatti

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