Un vecchio limite, forse ”il” limite della politica
costituita sta nel suo rifiuto di accettare le rotture della sua forma
di razionalità che provengono dalla politica sorgiva. Quando un
movimento irrompe sulla scena con una forza inattesa – anche se non
sempre imprevedibile – , la prima mossa istintiva e difensiva della
politica ufficiale consiste in un tentativo di assimilarselo piegandolo
al proprio linguaggio e alle proprie modalità, anche quando quel
linguaggio e quelle modalità sono precisamente l’obiettivo polemico del
conflitto che il movimento in questione scatena. E’ già accaduto in
Italia, per fare i due esempi più macroscopici, con il movimento del ’77
e con il femminismo radicale, in entrambi i casi con il risultato di un
non-dialogo. Accade di nuovo in questi giorni con il M5S, da parte del
Pd e non solo del Pd. E’ sorprendente come il partito di Bersani sia
passato d’un colpo da un atteggiamento di sostanziale sottovalutazione e
ostilità tenuto per tutta la campagna elettorale nei confronti della
creatura di Grillo («fascista digitale») all’apertura propositiva e
contrattuale del giorno dopo i risultati, condìta dall’appello alla
razionalità e al senso di responsabilità dei grillini – lo stesso
appello che si ritrova nei testi di intellettuali pubblicati da Repubblica
a sostegno del tentativo di Bersani. Come se facendo leva sui punti di
programma simili, o compatibili, fra il M5S e il Pd si potesse evitare
di confrontarsi con il punto ruvido e irriducibile del problema: il
fatto cioè che il M5S è un movimento destituente, in nessun modo
riconducibile a una logica costruttiva e programmatica. Il suo programma
non consiste nei punti che pure enumera, bensì nella determinazione di
far saltare, o quantomeno di inceppare gravemente, il funzionamento del
sistema: fra questo ragionamento e quello di Bersani e dei suoi
intellettuali di riferimento c’è per l’appunto un salto di razionalità.
Ma il Pd e la sua area non sono gli unici a essere
messi in difficoltà da questo salto. Sul M5S si oscilla ovunque fra
l’entusiasmo per la sua inattesa dirompenza e per la sua iperdemocratica
orizzontalità e il panico per i suoi tratti gerarchici, populisti e
millenaristi. Nel mezzo c’è l’incertezza agnostica di quante e quanti si
accontentano dell’evidenza dei fatti: se in tanti e tante, simili a noi
e di sinistra d.o.c, l’hanno votato, qualche buona ragione ci sarà; se
esprime la rabbia e la frustrazione sociale, per giunta incanalandola in
un percorso legalitario, meglio fidarsi che diffidarne. Con meno
agnosticismo e con la consueta euforia per tutto ciò che abbia un vago,
vaghissimo sapore di sovversivismo, altri, in area post-operaista – si
veda l’interessante discussione, peraltro non univoca, in corso su
uninomade.org – diffidano viceversa del marchio legalitario e
giustizialista del M5S, ma si leccano i baffi per l’ingovernabilità che
esso decreta, nonché per la composizione di classe moltitudinaria che lo
connoterebbe. E pazienza per i tratti risentiti, forcaioli, fascistoidi
e razzisti che pure evidentemente contiene (Gigi Roggero su
Uninomade.org: «quando mai una composizione di classe non si esprime
anche in forme ambigue, confuse e contraddittorie?»): la rivoluzione, si
sa, è una freccia che corre lineare e progressiva, le contraddizioni in
seno al popolo sono solo un incidente di percorso e durante il percorso
l’importante è fare fuori la sinistra storica.
In tanto oscillare da tutte le parti e da parte di
tutti, fa difetto la volontà e la capacità di vedere non i molti tratti,
ma il tratto dominante del M5S: la sua direzione di fondo, la sua
ideologia-guida, la sua ipotesi egemonica, nonché la sua genealogia
costitutiva. Ciò che, insomma, ne restituisce il senso aldilà delle sue
ambivalenze e aldilà degli elementi di ”somiglianza” con le
rivendicazioni, i punti di programma e le parole d’ordine dei partiti di
sinistra e dei movimenti antagonisti che in tanti – da Renzi a Bersani a
Vendola ai militanti dei movimenti suddetti – adesso scoprono.
L’analisi, assai critica, che del M5S propongono i Wu Ming è fra le
poche, insieme con quella di Giuliano Santoro in Un Grillo qualunque, a fornire dei lumi in questa direzione. Se ne sentirà qualche eco nei quattro punti di riflessione che propongo qui.
L’exploit del M5S non è l’uscita dalla Seconda
Repubblica: ne è piuttosto il frutto maturo, e forse l’ultimo atto. Del
ventennio berlusconiano e del suo epilogo nell’anno montiano, Grillo,
Casaleggio & Co. ereditano tre fattori cruciali:
-la ”grande
narrazione” etico-politica della contrapposizione fra una società civile
onesta e una casta corrotta;
-la scomposizione neoliberista del lavoro
fordista nelle ”competenze” postfordiste;
-la ”compensazione” della crisi
della rappresentanza politica con la rappresentazione mediatica
(televisiva nel caso di Berlusconi, di rete nel caso di Grillo) e con
una leadership personalizzata, accentrata e fortemente «attoriale».
1- Cominciamo dal primo. La contrapposizione fra società
degli onesti e casta dei corrotti è una favola, forse ”la” favola, che
ci accompagna fin dai primi anni Novanta. Come tutte le favole fa leva
sull’immaginario popolare e su un ineccepibile dato di realtà, la rabbia
montante contro i privilegi, la corruzione e soprattutto l’inerzia e
l’impotenza del ceto politico. Il che non toglie tuttavia che resti una
favola, auto-consolatoria e depistante. Ai tempi di Tangentopoli, che
era un sistema di corruzione basato sullo scambio di favori e mazzette
fra politici e imprenditori, servì a scaricare tutte le colpe sui
politici assolvendo gli imprenditori; se ne giovò Silvio Berlusconi, che
scese in campo presentandosi come imprenditore estraneo al Palazzo e
per ciò stesso brava e affidabile persona. In seguito, durante il lungo
regno del Cavaliere, la favola è servita da un lato a non vedere, sotto
il postulato della società degli onesti, l’illegalità diffusa in cui
l’illegalità permanente di Berlusconi ha trovato consenso e
rispecchiamento; dall’altro lato a delegittimare, all’insegna del ”sono
tutti uguali” o nella variante dell’inciucio, qualunque e sia pur
timido tentativo del centrosinistra di andare o di consolidarsi al
governo. Più di recente, nella versione firmata per il Corriere della Sera da
Rizzo e Stella nel loro famoso libro, è servita a scavare come e meglio
della vecchia talpa la buca della delegittimazione della politica tout
court e dell’avvento al governo dei tecnici bocconiani. Adesso, nella
versione grillina, la favola raccoglie la rabbia dei ceti sociali
massacrati dalla crisi, e la lenisce non indirizzandola dove andrebbe
indirizzata, contro la fissazione neoliberista e rigorista europea, ma
prescrivendole una ricetta semplice semplice: fuori loro, i castali
corrotti per definizione, dentro noi, i cittadini comuni (o gli uomini
qualunque) onesti per definizione. Si suole vedere in questo la matrice
antipolitica del M5S. Ma fin qui, ad essere precisi, saremmo solo dentro
una pulsione fortemente antipartitocratica, pienamente comprensibile
visto lo stato in cui si sono ridotti i partiti. La vera matrice
antipolitica è più nascosta, e sta nel secondo fattore.
2– Oltre che corrotta, la casta è per definizione
incompetente: per il M5S il professionismo politico è, senza eccezioni,
un trucco che copre l’incapacità di fare alcunché. I cittadini invece
sanno quello che fanno e sono in grado di mettere le loro competenze al
servizio del bene comune. L’abbiamo sentito nel rito di
autopresentazione dei parlamentari grillini: faccio l’agricoltore e
vorrei occuparmi di bioagricoltura, insegno e vorrei occuparmi di scuola
e università, faccio l’infermiere e vorrei occuparmi di sanità. La
cuoca di Lenin poteva e doveva imparare a governare lo Stato; la cuoca
di Grillo non deve imparare niente, è pronta a insediarsi al ministero
dell’alimentazione. Ora, si può vedere in questa galleria delle
competenze la prova provata della composizione di classe avanzata del
M5S – secondo le interpretazioni euforiche di cui sopra ”trainata” da
net workers, lavoratori della conoscenza, precariato di prima
generazione, proletariati disoccupati – nonché la faccia potenzialmente
sovversiva del dispositivo biocapitalistico di messa al lavoro e di
valorizzazione delle skill. Ma ci si può anche vedere una
composizione interclassista trainata dal ceto medio impoverito e
declassato dalla crisi (uno strato sociale che non ha mai portato bene
alla causa né della democrazia né della rivoluzione); l’estensione alla
politica dell’ideologia neoliberista del fai-da-te; e soprattutto il
rovescio casereccio e velleitario della tecnicizzazione della politica
già sperimentata con i bocconiani al governo. Se le competenze sono
immediatamente politiche, se i mestieri si fanno immediatamente governo,
non abbiamo liquidato il professionismo autoreferenziale e incompetente
dell’odiata casta: abbiamo liquidato la politica come linguaggio
autonomo, come terzo simbolico, come sede della mediazione fra
specialismi, interessi e corporazioni. Non è la casta a essere
rottamata, né i partiti, ma la politica tout court.
3- Il terzo fattore che dalla Seconda Repubblica
trasloca nel M5S è il rapporto fra crisi della rappresentanza politica e
uso della rappresentazione mediatica. Ciò che Berlusconi ha realizzato
attraverso la tv, Grillo lo realizza attraverso la Rete, anzi attraverso
un uso sapientemente integrato della televisione e di Internet. Su
questo, e sulla concezione orizzontale e neutra della Rete smentita
dalla sua gestione gerarchica e accentrata da parte del tandem
Grillo-Casaleggio, è stato già detto e scritto tutto. Vale la pena però
di ricordare che la Rete oggi come la tv nel passaggio dalla prima alla
seconda Repubblica non funzionano solo come un ”mezzo” di conquista
della scena politica e di costruzione del consenso: oggi come allora,
fra rappresentanza politica e rappresentazione mediatica c’è un rapporto
di concorrenza nella ridefinizione delle forme della politica. Fra il
’92 e il ’94, la televisione (tutta, non solo quella berlusconiana)
anticipò con i suoi format (tv-verità, duelli, politica-spettacolo,
infoteinment etc.) il cambiamento delle forme della politica
(personalizzazione, leaderismo, bipolarizzazione, maggioritario), nonché
del regime del dicibile/indicibile e del vero/falso. Oggi l’uso
grillino della Rete evoca e mette in scena l’illusione di una forma di
democrazia diretta e partecipata, in cui ”uno vale uno” ma uno (o due,
tutt’e due maschi s’intende) decide su tutti e per tutti, in cui
l’indignazione si scioglie con la stessa facilità con cui si esprime, in
cui le relazioni lasciano il posto alla connessione. E in cui la
pretesa di verità si sposta dal verbo televisivo alla trasparenza di
Internet. Paradosso non ultimo, questa democrazia diretta coincide con
la democrazia elettorale: non contesta le istituzioni della
rappresentanza ma le occupa per destituirle. E’ questo il superamento
della democrazia rappresentativa che ci attende, e nel quale dovrebbe
riconoscersi la critica della rappresentanza dei movimenti che si sono
succeduti dal Sessantotto in poi, femminismo compreso?
4 – Quando le cose che abbiamo desiderato si
presentano con un segno rovesciato rispetto a quello che avevamo
pensato, c’è poco da cantare vittoria e molto da riflettere,
autocriticamente, sul nostro deficit di capacità egemonica. Per questo
non mi convincono i salti di gioia per la composizione di classe, la
critica della rappresentanza, la democrazia diretta e gli effetti di
ingovernabilità del M5S. Che esso incorpori punti programmatici e
istanze dei movimenti non significa che noi nei movimenti radicali
avevamo visto giusto e che Grillo lavora per facilitarci il compito:
significa che noi non abbiamo saputo dare a questi punti e a queste
istanze una carica egemonica, e che su questo deficit si è infilata la
loro trascrizione grillina. Anche questo è già successo, con la
trascrizione berlusconiana neoliberista delle istanze di libertà del ’68
e del femminismo, e sappiamo com’è andata a finire: per dirne una, con
la libertà delle donne di vendersi al mercato del sesso e al mercatino
del bunga bunga. Forse è più adeguato puntare sul seguente ossimoro:
prendere sul serio l’elemento comico del personaggio Grillo. Forse la
sua vera forza destituente sta qui, nel portare all’estremo paradossi e
parossismi in cui la politica tradizionale e la democrazia
rappresentativa si sono infilate da sole. Si chiama pratica della
parodia, e non è poi tanto strano che sia l’unica efficace contro una
politica ridottasi alla parodia di se stessa.
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