Ma davvero per la sinistra italiana sembra non ci sia altra soluzione
che stringersi attorno a Bersani e Vendola, o al massimo sperare in
Fabrizio Barca? Ma siamo proprio sicuri che, fuori da tutto questo,
s’incontrano solo residualità nostalgiche e agonizzanti o qualche
saccente velleità destinata a un’inesorabile irrilevanza?
Possibile che per l’esteso addensamento critico sparso in lungo e in
largo nel paese l’unica possibilità è fare un dispetto a Renzi o dare un
dispiacere a Napolitano, altrimenti non gli resta che rassegnarsi e
rinunciare?
Il risucchio politico che si è innescato all’indomani delle elezioni
di febbraio sembra stia progressivamente inghiottendo schiere di ignavi e
dubbiosi, prosciugando coscienze e inquietudini, neutralizzando
progetti e intenzioni. Con un Berlusconi indistruttibile e un Grillo
straripante, non resta che assemblare quel che c’è, piccolo o grande,
bello o brutto che sia, e resistere accucciati sugli spalti della
Fortezza Bastiani. Alternative non ce ne sono, spazio per altre
iniziative non se ne vede. Finito. Chiuso. Oggi è così che va, inutile
affannarsi a sinistra. Non resta che proclamare il proprio disarmo
unilaterale.
Quest’articolo potrebbe anche non proseguire oltre: se così fosse. Ma
così non è (o non del tutto), e dunque continuiamo a scrivere.
Per sostenere innanzitutto che è proprio sbagliato rispondere con
quest’informe arroccamento alla temperie che scuote e strapazza le
nostre sicurezze, ormai presunte e forse defunte. E per almeno due
ragioni. La prima è che ci si può rannicchiare quanto si vuole, ma se
l’azione politica non s’impegna a scardinare la gabbia finanziaria che
opprime città, paesi e continenti non si potrà offrire che qualche
diversivo alla crisi sociale ed economica. La seconda ragione è che
appare inutile consolidare il proprio blocco politico, se nel frattempo
il bipolarismo e i suoi protagonisti si vanno sgretolando a causa della
comparsa di altri aggregati che hanno disarticolato aree e perimetri.
Non si tratta di avanzare pedanterie analitiche per il solo gusto di
evidenziare le contraddizioni o sottolineare le critiche: o dolersi per
improvvise amnesie e precipitosi abbandoni. E’ che l’incalzare politico
non sembra voler concedere pause, costringendo tutti a dire e fare, qui e
ora e anche per un dopo sempre più sfuggente e imprevedibile.
Tra qualche settimana si voterà di nuovo per elezioni amministrative,
tra le quali, importantissime, quelle romane. Non sfugge a nessuno che
soprattutto nella capitale transiterà una prima verifica politica, si
misureranno proposte, credibilità e rapporti di forza. Ma prim’ancora di
chiedersi se reggerà la destra di Alemanno, si confermerà il Pd di
Zingaretti, si consoliderà il movimento cinquestelle, sembrerebbe più
utile immaginarsi un qualcosa che sfugga alla pigrizia politicista e
provi a scardinare una staticità di quadro politico più apparente che
reale.
Un qualcosa che contenga un progetto generale sulla città, su come
migliorarla, rigenerarla e rilanciarla, e che si caratterizzi per il suo
profilo indipendente, politicamente e culturalmente. Che sia insomma in
grado di esprimere qualità e competenza, in una felice autonomia,
lontana dai ricatti d’apparato, svincolata dai poteri oligarchici.
E a Roma un progetto di questo tipo è in cammino da tempo. Si chiama
Repubblica Romana. E’ fondata sul lavoro e ripudia la precarietà. E’
plurale e accogliente, inclusiva e solidale. Promuove le arti, le
scienze, le culture, così come il pensiero e i sentimenti, il piacere e
il benessere. Afferma il diritto all’abitare, alla salute, alla qualità
della vita. Sostiene le politiche di genere e i diritti delle donne.
Difende la bellezza e la natura, combatte la speculazione e
l’abusivismo. Rifiuta l’espansione urbanistica e riutilizza l’edilizia
esistente. Viaggia sui mezzi pubblici e preferisce andare su due ruote
anziché su quattro. Dichiara inalienabile il patrimonio pubblico e lo
riconsegna ai suoi legittimi proprietari, i cittadini e le cittadine.
Tutela i bisogni sociali e si batte contro le povertà. Definanzia le
grandi opere e investe sulla manutenzione di strade, parchi, scuole e
servizi. Favorisce l’autogoverno, l’autoproduzione e la cooperazione.
Garantisce le libertà, la democrazia e la partecipazione.
Al di là della suggestione storica di una stagione che ha segnato il
punto più alto nelle lotte di liberazione a Roma, Repubblica Romana è
una proposta politica che contiene una ragguardevole densità progettuale
e un accumulo di esperienza di governo territoriale. S’incentra intorno
alla battaglia di resistenza contro l’oppressione finanziaria, che sta
progressivamente strangolando le amministrazioni locali. La sua
principale rivendicazione è quella di congelare il debito comunale ed
esigere di decidere la propria politica economica.
Ma l’aspetto più interessante e originale di questo progetto
politico-elettorale è il percorso attraverso cui si è composto, il
metodo con cui si è via via consolidato. Repubblica Romana è sì una
lista elettorale di cittadinanza, ma vuol essere anche un processo
costituente. Ha progressivamente aggregato realtà ed esperienze tra le
più dinamiche e intelligenti sullo scenario cittadino. Soggettività
organizzate, semplicemente associate e anche singole che si sono
riconosciute in quell’urgenza di dar vita a una proposta diversa e
distante dall’attuale configurazione politica. Condividendo l’esigenza
di costruire un soggetto nuovo, nei contenuti come nelle forme, che si
sganci dalle pratiche subalterne e a volte parassitarie con cui
movimenti e associazioni hanno finora praticato la relazione politica. E
ciò non per smanie isolazioniste o impulsi separatisti, ma perché
consapevoli che l’attuale sistema dei partiti non è in grado di
sostenere le pratiche e gli obiettivi che si continuano a ritenere
necessari.
Custodite in una bacheca ai piani alti del Campidoglio, immobili e
anche un po’ sbiadite, sono conservate le bandiere della Repubblica
Romana del 1849. Non vedono l’ora di tornare a sventolare.
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