Non pochi a sinistra pensano che la crisi stia avendo lo sbocco
peggiore. Quel che esce dalla debolezza del Pd e dalla sorda
indisponibilità del M5s può solo destare amarezza in chi per un momento
aveva intravisto uno scenario non privo di promesse.
Il centrodestra vince nel dopo-partita quel che il popolo sovrano aveva negato nelle urne.
La crisi del Pd. Un tempo sarebbe stato impensabile per un partito bruciare il segretario e poi vedere in pista il vice. Oggi, si procede come se fosse un normale avvicendamento. In realtà, lo ha spiegato Bersani stesso, nell’ultima direzione Pd, parlando di personalizzazione estrema, anarchismo, feudalesimo.Tutto vero. Ma non lo sapevamo già?
Il copione di queste settimane si scrive da almeno un ventennio. Dal ciclone dei primi anni novanta non si è mai inteso uscire ripulendo, ammodernando e rafforzando i partiti come strumenti indispensabili di una democrazia davvero partecipata. Sono state invece cercate vie alternative, che in particolare conducessero alla legittimazione popolare degli esecutivi. Non sfugge a nessuno come elezioni formalmente o sostanzialmente dirette e premi di maggioranza abbiano tolto significato alla rappresentanza politica e abbiano svilito la funzione delle assemblee rappresentative, un tempo naturale palestra per i partiti e per la formazione del ceto politico. È un paradosso che da tante parti si lamenti l’esito elettorale in Senato, e assai poco si noti che la governabilità alla Camera viene assicurata da una legge elettorale in forte odore di incostituzionalità. Una legge che ha tradotto un pugno di voti di vantaggio per la coalizione vincente in un vasto margine di seggi, espungendo al tempo stesso dall’assemblea forze pur sempre significative. Come se bastassero i numeri per governare un paese. Chi e cosa rappresenta davvero un’assemblea così costruita?
Qui vediamo un cedimento culturale della sinistra. Ha avuto per lungo tempo nel suo dna la centralità delle assemblee e della rappresentanza politica. Alla fine, non ha saputo difendersi. In questo paese, la destra ha vinto, prima che nei voti, imponendo una cultura politica che buona parte della sinistra ha finito con l’accettare. Con una variante che ne aggrava gli effetti negativi. L’investimento sulle autonomie fatto nel corso degli anni novanta nella illusione di rilegittimare il sistema politico ha – anche per alcuni macroscopici errori fatti nella riforma del titolo V della Costituzione – indebolito lo Stato, che appare oggi forte solo per lo schermo dato dalla crisi della finanza pubblica. Con una perversa sinergia tra localismo e personalizzazione, sono nate repubblichette regionali i cui primi attori sono sindaci e governatori. Le vittime di questa evoluzione sono stati i partiti nazionali e i loro gruppi dirigenti. Non possiamo meravigliarci se oggi siamo circondati da cacicchi.
Ma tutto questo Bersani non lo sapeva? Certamente sì. La sua stessa elezione a segretario è avvenuta con il sostegno di una galassia di potentati locali. Identica vicenda per gli altri componenti del gruppo dirigente. Ciascuno ha il suo seguito in periferia, e il partito è infine una sommatoria dei seguaci di questo o di quello. Era poi evidente che scegliere le primarie per gruppi dirigenti e ceto politico avrebbe inevitabilmente scatenato il conflitto interno tra fazioni e accresciuto il localismo e la frammentazione. Più ancora, la primaria aperta nega qualsiasi concetto di partito organizzato. Perché dovrebbe un iscritto impegnarsi quotidianamente se non sa quanto il suo voto varrà nei momenti decisivi della vita del partito? Nulla è stato fatto per prevenire o evitare il disastro, e niente accade per caso.
Ora, il centrodestra già alza la posta per lucrare sulla vittoria. Se si forma il governo, è probabile un remake di vecchi film, anzitutto sulle «necessarie» riforme. Come se i venti anni trascorsi e l’ultimo turno elettorale non mostrassero che l’ingegneria istituzionale non garantisce buon governo e buona politica, in specie se volta ad avere un uomo solo al comando e un obbediente parco buoi nell’assemblea che vorrebbe dirsi rappresentativa. Risentiremo invece il mantra del rafforzamento di governo e premier, della legge elettorale che garantisca la governabilità, del senato regionale. Mentre avremmo bisogno di ricostruire partiti veri, di combattere la frammentazione localistica, di svelenire il sistema politico togliendo la droga del maggioritario.
Questo paese chiede con forza eguaglianza, diritti, solidarietà. Per questo, ha certo bisogno di un governo forte. Ma non di un governo reso forte con i deboli, e debole con i forti.
La crisi del Pd. Un tempo sarebbe stato impensabile per un partito bruciare il segretario e poi vedere in pista il vice. Oggi, si procede come se fosse un normale avvicendamento. In realtà, lo ha spiegato Bersani stesso, nell’ultima direzione Pd, parlando di personalizzazione estrema, anarchismo, feudalesimo.Tutto vero. Ma non lo sapevamo già?
Il copione di queste settimane si scrive da almeno un ventennio. Dal ciclone dei primi anni novanta non si è mai inteso uscire ripulendo, ammodernando e rafforzando i partiti come strumenti indispensabili di una democrazia davvero partecipata. Sono state invece cercate vie alternative, che in particolare conducessero alla legittimazione popolare degli esecutivi. Non sfugge a nessuno come elezioni formalmente o sostanzialmente dirette e premi di maggioranza abbiano tolto significato alla rappresentanza politica e abbiano svilito la funzione delle assemblee rappresentative, un tempo naturale palestra per i partiti e per la formazione del ceto politico. È un paradosso che da tante parti si lamenti l’esito elettorale in Senato, e assai poco si noti che la governabilità alla Camera viene assicurata da una legge elettorale in forte odore di incostituzionalità. Una legge che ha tradotto un pugno di voti di vantaggio per la coalizione vincente in un vasto margine di seggi, espungendo al tempo stesso dall’assemblea forze pur sempre significative. Come se bastassero i numeri per governare un paese. Chi e cosa rappresenta davvero un’assemblea così costruita?
Qui vediamo un cedimento culturale della sinistra. Ha avuto per lungo tempo nel suo dna la centralità delle assemblee e della rappresentanza politica. Alla fine, non ha saputo difendersi. In questo paese, la destra ha vinto, prima che nei voti, imponendo una cultura politica che buona parte della sinistra ha finito con l’accettare. Con una variante che ne aggrava gli effetti negativi. L’investimento sulle autonomie fatto nel corso degli anni novanta nella illusione di rilegittimare il sistema politico ha – anche per alcuni macroscopici errori fatti nella riforma del titolo V della Costituzione – indebolito lo Stato, che appare oggi forte solo per lo schermo dato dalla crisi della finanza pubblica. Con una perversa sinergia tra localismo e personalizzazione, sono nate repubblichette regionali i cui primi attori sono sindaci e governatori. Le vittime di questa evoluzione sono stati i partiti nazionali e i loro gruppi dirigenti. Non possiamo meravigliarci se oggi siamo circondati da cacicchi.
Ma tutto questo Bersani non lo sapeva? Certamente sì. La sua stessa elezione a segretario è avvenuta con il sostegno di una galassia di potentati locali. Identica vicenda per gli altri componenti del gruppo dirigente. Ciascuno ha il suo seguito in periferia, e il partito è infine una sommatoria dei seguaci di questo o di quello. Era poi evidente che scegliere le primarie per gruppi dirigenti e ceto politico avrebbe inevitabilmente scatenato il conflitto interno tra fazioni e accresciuto il localismo e la frammentazione. Più ancora, la primaria aperta nega qualsiasi concetto di partito organizzato. Perché dovrebbe un iscritto impegnarsi quotidianamente se non sa quanto il suo voto varrà nei momenti decisivi della vita del partito? Nulla è stato fatto per prevenire o evitare il disastro, e niente accade per caso.
Ora, il centrodestra già alza la posta per lucrare sulla vittoria. Se si forma il governo, è probabile un remake di vecchi film, anzitutto sulle «necessarie» riforme. Come se i venti anni trascorsi e l’ultimo turno elettorale non mostrassero che l’ingegneria istituzionale non garantisce buon governo e buona politica, in specie se volta ad avere un uomo solo al comando e un obbediente parco buoi nell’assemblea che vorrebbe dirsi rappresentativa. Risentiremo invece il mantra del rafforzamento di governo e premier, della legge elettorale che garantisca la governabilità, del senato regionale. Mentre avremmo bisogno di ricostruire partiti veri, di combattere la frammentazione localistica, di svelenire il sistema politico togliendo la droga del maggioritario.
Questo paese chiede con forza eguaglianza, diritti, solidarietà. Per questo, ha certo bisogno di un governo forte. Ma non di un governo reso forte con i deboli, e debole con i forti.
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