Lo
scenario che le elezioni politiche del 24-25 febbraio ci hanno lasciato
è quanto di più confuso e surreale si potesse immaginare. Dopo un anno e
mezzo di governo Monti, in cui qualsiasi nefandezza è stata
giustificata con le necessità della crisi finanziaria, ora che c'è un
nuovo parlamento, in linea teorica ben più sensibile del precedente
rispetto ai temi sociali ed economici, questi sono completamente spariti
dalla scena, coperti dal folklore parlamentare, da assurdi dibattiti
sul fatto se le indennità dei presidenti delle camere vadano tagliate
del 30 o del 50% e da alchimie politiche sulla formazione del governo
che non hanno niente di invidiare alla poco gloriosa epoca del
pentapartito.
Anche i pochi elementi positivi di questo primo scorcio di legislatura, come l'elezione a capo dei due rami del parlamento di due persone come Laura Boldrini e Pietro Grasso, rischiano di ridursi ad aperture apprezzabili ma cosmetiche, che lasciano ancora fuori dal parlamento le vertenze reali, i mille drammi e conflitti quotidiani che attraversano questo paese, la realtà di un'emergenza economica che viene tirata fuori a orologeria per giustificare qualsiasi macelleria sociale da parte dei governi e nel frattempo continua lentamente ad erodere le condizioni di vita di milioni di cittadini.
Ciò che succederà nelle prossime ore e nei prossimi giorni aiuterà a chiarire alcuni elementi di questo panorama, dato che non tutti gli scenari, chiaramente sono uguali: se veramente si formasse un "governo di cambiamento" sostenuto da centrosinistra e Movimento 5 Stelle, un'alleanza spuria e stretta nella tensione tra la necessità di guardare alle parti più attive della società per trovare una ragione sociale e l'incapacità strutturale a rappresentarle, si aprirebbero sicuramente prospettive più interessanti per i movimenti, in termini di apertura del dibattito politico e costruzione di una dialettica vera tra battaglie sociali e politica, di riconquista di uno spazio di possibilità per vertenze sociali vittoriose, di messa in contraddizione di entrambi gli schieramenti sul nodo della fedeltà ai diktat europei, rispetto a quello che succederebbe con un nuovo "governissimo", inevitabilmente costruito sulla continuità con Monti, sull'immobilismo politico e sulla macelleria sociale.
Ma in ogni caso non è sul piano parlamentare che si può togliere il volante dalle mani del "pilota automatico" di cui ha parlato Mario Draghi, quel sistema di regole, pressioni e condizionamenti che impone l'austerity come stella polare a prescindere da chi sia al governo. Il dibattito politico è prigioniero di tre illusioni: quella berlusconiana, secondo cui all'austerity tedesca si può contrapporre l'arcitaliana arte di arrangiarsi, il tentativo di elemosinare un po' di credito in più e tirare a campare scaricando sull'odiato stato il peso del debito, rubacchiando qua e là, truccando i conti; quella grillina, secondo cui gli interessi sociali e le prospettive politiche contrapposte sono state superate dalla logica al tempo stesso individualista e organicista della rete, in cui ognuno vale uno e tutti lavoreremmo insieme per il bene comune, se non ci fosse una casta di corrotti a impedircelo; quella democratica, secondo cui la "non vittoria" elettorale è solo un incidente di percorso, dovuto alla legge elettorale, a un leader non abbastanza carismatico o al destino cinico e baro, ed è invece ancora possibile mettere in campo una proposta politica che tenga insieme la necessità inderogabile di politiche redistributive con l'obbedienza cieca di diktat di Francoforte, nel nome del "salvare la baracca" dai populismi contrapposti.
Tre grandi illusioni basate su uno stesso meccanismo, cioè l'idea di un'Italia unita e pacificata, di una concordia sociale in cui si è tutti sulla stessa barca, di uno schieramento compatto contro Il Nemico che ognuno identifica come capro espiatorio per non affrontare i nodi della crisi: la Germania e i comunisti per Berlusconi, i politici corrotti per Grillo, il populismo irresponsabile per Bersani. Ognuno si inventa il proprio Saladino contro cui lanciare l'ennesima crociata, unendo dietro agli scudi di una finta contrapposizione tutta politicista pezzi di società profondamente diversi, divisi, frammentati, privi di un qualsiasi progetto di società. Quelle in campo sono identità tutte politiche, nel senso più deteriore del termine, costruite sulla macerie di una società in cui di identità collettive in grado di far guardare oltre l'orizzonte individuale non c'è traccia.
La sconfitta della sinistra, se non si vuole restare prigionieri delle dinamiche dei simboli e delle alleanze, va letta da questo punto di vista, come rottura dei legami di identificazione tra soggetto sociale e soggetto politico. Se dopo 5 anni come quelli tra il 2008 e il 2013, densi di mobilitazioni e vertenze tutt'altro che minoritarie, come la straordinaria vittoria dei referendum di giugno 2011 dimostra, gli unici soggetti politici che si pongono in qualche modo in continuità con quelle esperienze si fermano al 2,3 e al 3,2%, è evidente che quel legame è saltato. E l'indubbia affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle denota un fenomeno ben preciso: si è esaurita la spinta propulsiva del PCI, sulla cui eredità ideologica e sulla cui base elettorale tutti i partiti della sinistra continuavano a campare a 20 anni dalla Bolognina. Finora, la volatilità elettorale era stata soprattutto esterna a quel campo: si trattava di allagarlo più o meno al centro, di tenerne insieme i pezzi organizzati, di evitarne un'eccessiva dispersione nell'astensione. Oggi, per la prima volta, un soggetto che non ha niente a che vedere con quella storia, come quello creato da Beppe Grillo, porta a casa milioni di voti in quell'area. Oggi non è più possibile, come ha fatto la sinistra negli ultimi 20 anni, andare avanti per inerzia. Quel capitolo è chiuso, ne va aperto un altro, e non su base ideologica. Credere che basti agitare il no all'austerity e al fiscal compact, come se si trattasse di concetti con una significato univoco e riconosciuto, per costruire un'alternativa, è un'altra illusione. Qualsiasi proposta politica, in questa situazione, non può che partire da un legame profondo con le condizioni materiali delle persone, con le vertenze sociali che ne scaturiscono e con il protagonismo di chi le anima, senza mediazioni rappresentative.
Per questo, se intendiamo sbloccare la situazione e aprire una fase diversa, è necessario darsi da fare per rompere queste illusioni, far saltare questa finta concordia sociale, mostrare le fratture reali che attraversano la nostra società. È necessario, per uscire da questo stallo, un po' di puro e sano "spirito di scissione", recuperando il senso gramsciano di quest'espressione, quello di "progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica", di processo collettivo di riconoscimento della propria parzialità all'interno della società, di constatazione della condivisione di questa condizione con tanti altri, e, di conseguenza, di attivazione per il cambiamento. Una sinistra al 2 o al 3%, in una fase densa di stravolgimenti sociali come quella che stiamo vivendo, è una sinistra senza popolo, una sinistra che non gioca alcun ruolo in quegli stravolgimenti, una sinistra ridotta a corrente d'opinione. E allora forse, più che preoccuparci di ricostruire la sinistra, dovremmo preoccuparci di ricostruire il popolo. Dobbiamo recuperare la consapevolezza che, per riaprire qualsiasi orizzonte di possibilità per il cambiamento, serve attivare una parte di società, costruire al suo interno meccanismi di identificazione e reciproco riconoscimento e mobilitarla. Serve un processo di soggettivazione forte, in grado di suonare la sveglia, di costruire appartenenze collettive lungo fratture ben diverse e più rilevanti di quelle, illusorie, su cui si svolge il dibattito politico.
Se è il tempo della soggettivazione sociale e non della rappresentazione ideologica, allora per noi, per quel sempre più vasto mondo di studenti e lavoratori, indipendenti e subordinati, immigrati ed emigranti, che vive per motivi generazionali una condizione sociale di precarietà, è necessario ripartire da quello striscione che abbiamo mostrato in piazza Montecitorio il giorno dell'insediamento del nuovo parlamento, quando indicavamo nel 38,7% di disoccupazione giovanile l'unica vera maggioranza di questo paese. Dire di essere il 99% sul piano ideologico non sposta di una virgola i rapporti di forza, se non diciamo con forza, sul piano della soggettivazione sociale, "we are 38,7%", noi siamo un pezzo della società di questo paese, che vive una condizione sempre più drammatica, quella dello sfruttamento travestito da flessiblità, dello smantellamento dei sistemi di welfare, dell'assenza di prospettive di vita diverse dall'emigrazione forzata, e che sa di avere in sé la potenzialità del cambiamento, dell'innovazione, della costruzione di un futuro diverso per tutti e per tutte.
Per non disperdere questa potenzialità, questo pezzo di società si deve riconoscere, identificare e attivare, deve farsi soggetto sociale e generazionale, rifuggire ogni tentazione giovanilista e iniziare a prendersi sul serio. La campagna "Voglio restare" ha convocato per il prossimo 21 aprile un incontro nazionale a Roma. Si tratta di un'ottima occasione per fare un passo in avanti in questo percorso. Partire da tutto quello che è stato fatto in questi mesi, dai comitati nati nei territori, dalle persone aggregate intorno alle proposte che si sono andate via via delineando, e rilanciarlo con una determinazione all'altezza dei tempi che stiamo vivendo. Se nel novembre scorso ci siamo detti che dovevamo "cambiare il paese per non dover cambiare paese", oggi dobbiamo dirci che per cambiare questo paese dobbiamo identificare chi deve fare cosa, dobbiamo ricoscerci come piattaforma avanzata al servizio del cambiamento generale, come pezzo non autosufficiente che guadagna la propria centralità mettendosi a disposizione di un processo più ampio, di un processo di soggettivazione sociale, generazionale e politica che parta dalla condizione precaria e che sappia indicare una via d'uscita.
Si tratta di un processo di soggettivazione sociale e generazionale proprio in nome dello spirito di scissione di cui sopra, del bisogno di ripartire da temi reali e materiali, di ricomporre sul piano sociale ciò che la politica, o meglio una sua degenerazione opportunista, ha diviso. Ma dev'essere un processo che indichi una prospettiva politica, se non vogliamo rimanere prigionieri della sindrome di Peter Pan, del rivendicazionismo fine a se stessa, dello stereotipo dei bamboccioni che non sanno che chiedere. Se vogliamo essere presi sul serio, dobbiamo iniziare a prenderci sul serio, accompagnando all'azione vertenziale e rivendicativa una presa di responsabilità generale, tutta politica, facendo a tutto il paese una proposta di cambiamento basata sul protagonismo della nostra generazione e sulle idee che sarà in grado di produrre.
Soggettivazione, infatti, non significa corporativismo. Sarebbe controproducente creare, come spesso si è visto fare, intorno ad alcune aree del precariato, come il lavoro cognitivo autonomo, un sentimento di aristocrazia e lontananza dalle dinamiche del conflitto capitale-lavoro, insistendo sulla natura "indipendente" della propria condizione, come se davvero si potesse essere indipendenti e non subordinati in un mercato del lavoro, come se le contraddizioni di questo sistema non riguardassero anche chi non ha un contratto di tipo tradizionale, come se ci si potesse chiamare fuori dai conflitti sociali ed economici che strutturano la nostra società in cambio di un reddito. La battaglia per il riconoscimento della dignità del lavoro indipendente e per la costruzione di un nuovo welfare universale ha senso solo se si accompagna a quella per l'eliminazione della precarietà nei rapporti subordinati e per il loro riconoscimento come tali, senza scorciatoie o stratagemmi.
Superare il rivendicazionismo e occuparsi di politica significa non delegare nulla, non fare sconti a nessuno, affrontare fino i fondi i nodi del nostro tempo. Significa chiedersi perché la nostra generazione è sacrificata, significa allargare lo sguardo ai meccanismi dell'austerity europea e della globalizzazione neoliberista, significa identificare i responsabili e organizzarsi per invertire la rotta. Partendo dalla nostra condizione sociale e generazionale, dobbiamo essere in grado di riconquistarci uno spazio di mobilitazione, come stanno facendo i nostri compagni di Juventud Sin Futuro in Spagna, senza presunzioni di autosufficienza ma mettendo invece il nostro percorso, le nostre idee, le nostre energie al servizio di una mobilitazione generale, ampia, partecipata, non ideologica, in grado di riempire le piazze e il dibattito politico con l'energia viva delle nostre esperienze quotidiane.
Ricostruire la democrazia di questo paese, mai stata così in crisi, è un compito che semplicemente non può essere realizzato senza di noi, senza quella fetta demografica che, il 24 e 25 febbraio, ha messo per la prima volta in minoranza i partiti tradizionali e rischia di restare imprigionata nell'illusione del ribellismo ultraparlamentarista grillino. Solo un risveglio di partecipazione, una presa di parola pubblica e generalizzata, un massiccio processo di socializzazione e ripoliticizzazione può far saltare lo stallo e riaprire i giochi. Solo noi siamo in grado di cambiare questo paese, se e quando inizieremo a prenderci sul serio e a organizzarci di conseguenza, invadendo e aprendo contraddizioni in tutti gli spazi a nostra disposizione, dalle piazze ai partiti, dalle università ai sindacati, leggendo nelle nostre condizioni di vita quotidiane tutta la cieca ingiustizia del sistema economico in cui viviamo, e mettendoci al lavoro per costruire un futuro radicalmente diverso, per noi e per tutti.
Anche i pochi elementi positivi di questo primo scorcio di legislatura, come l'elezione a capo dei due rami del parlamento di due persone come Laura Boldrini e Pietro Grasso, rischiano di ridursi ad aperture apprezzabili ma cosmetiche, che lasciano ancora fuori dal parlamento le vertenze reali, i mille drammi e conflitti quotidiani che attraversano questo paese, la realtà di un'emergenza economica che viene tirata fuori a orologeria per giustificare qualsiasi macelleria sociale da parte dei governi e nel frattempo continua lentamente ad erodere le condizioni di vita di milioni di cittadini.
Ciò che succederà nelle prossime ore e nei prossimi giorni aiuterà a chiarire alcuni elementi di questo panorama, dato che non tutti gli scenari, chiaramente sono uguali: se veramente si formasse un "governo di cambiamento" sostenuto da centrosinistra e Movimento 5 Stelle, un'alleanza spuria e stretta nella tensione tra la necessità di guardare alle parti più attive della società per trovare una ragione sociale e l'incapacità strutturale a rappresentarle, si aprirebbero sicuramente prospettive più interessanti per i movimenti, in termini di apertura del dibattito politico e costruzione di una dialettica vera tra battaglie sociali e politica, di riconquista di uno spazio di possibilità per vertenze sociali vittoriose, di messa in contraddizione di entrambi gli schieramenti sul nodo della fedeltà ai diktat europei, rispetto a quello che succederebbe con un nuovo "governissimo", inevitabilmente costruito sulla continuità con Monti, sull'immobilismo politico e sulla macelleria sociale.
Ma in ogni caso non è sul piano parlamentare che si può togliere il volante dalle mani del "pilota automatico" di cui ha parlato Mario Draghi, quel sistema di regole, pressioni e condizionamenti che impone l'austerity come stella polare a prescindere da chi sia al governo. Il dibattito politico è prigioniero di tre illusioni: quella berlusconiana, secondo cui all'austerity tedesca si può contrapporre l'arcitaliana arte di arrangiarsi, il tentativo di elemosinare un po' di credito in più e tirare a campare scaricando sull'odiato stato il peso del debito, rubacchiando qua e là, truccando i conti; quella grillina, secondo cui gli interessi sociali e le prospettive politiche contrapposte sono state superate dalla logica al tempo stesso individualista e organicista della rete, in cui ognuno vale uno e tutti lavoreremmo insieme per il bene comune, se non ci fosse una casta di corrotti a impedircelo; quella democratica, secondo cui la "non vittoria" elettorale è solo un incidente di percorso, dovuto alla legge elettorale, a un leader non abbastanza carismatico o al destino cinico e baro, ed è invece ancora possibile mettere in campo una proposta politica che tenga insieme la necessità inderogabile di politiche redistributive con l'obbedienza cieca di diktat di Francoforte, nel nome del "salvare la baracca" dai populismi contrapposti.
Tre grandi illusioni basate su uno stesso meccanismo, cioè l'idea di un'Italia unita e pacificata, di una concordia sociale in cui si è tutti sulla stessa barca, di uno schieramento compatto contro Il Nemico che ognuno identifica come capro espiatorio per non affrontare i nodi della crisi: la Germania e i comunisti per Berlusconi, i politici corrotti per Grillo, il populismo irresponsabile per Bersani. Ognuno si inventa il proprio Saladino contro cui lanciare l'ennesima crociata, unendo dietro agli scudi di una finta contrapposizione tutta politicista pezzi di società profondamente diversi, divisi, frammentati, privi di un qualsiasi progetto di società. Quelle in campo sono identità tutte politiche, nel senso più deteriore del termine, costruite sulla macerie di una società in cui di identità collettive in grado di far guardare oltre l'orizzonte individuale non c'è traccia.
La sconfitta della sinistra, se non si vuole restare prigionieri delle dinamiche dei simboli e delle alleanze, va letta da questo punto di vista, come rottura dei legami di identificazione tra soggetto sociale e soggetto politico. Se dopo 5 anni come quelli tra il 2008 e il 2013, densi di mobilitazioni e vertenze tutt'altro che minoritarie, come la straordinaria vittoria dei referendum di giugno 2011 dimostra, gli unici soggetti politici che si pongono in qualche modo in continuità con quelle esperienze si fermano al 2,3 e al 3,2%, è evidente che quel legame è saltato. E l'indubbia affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle denota un fenomeno ben preciso: si è esaurita la spinta propulsiva del PCI, sulla cui eredità ideologica e sulla cui base elettorale tutti i partiti della sinistra continuavano a campare a 20 anni dalla Bolognina. Finora, la volatilità elettorale era stata soprattutto esterna a quel campo: si trattava di allagarlo più o meno al centro, di tenerne insieme i pezzi organizzati, di evitarne un'eccessiva dispersione nell'astensione. Oggi, per la prima volta, un soggetto che non ha niente a che vedere con quella storia, come quello creato da Beppe Grillo, porta a casa milioni di voti in quell'area. Oggi non è più possibile, come ha fatto la sinistra negli ultimi 20 anni, andare avanti per inerzia. Quel capitolo è chiuso, ne va aperto un altro, e non su base ideologica. Credere che basti agitare il no all'austerity e al fiscal compact, come se si trattasse di concetti con una significato univoco e riconosciuto, per costruire un'alternativa, è un'altra illusione. Qualsiasi proposta politica, in questa situazione, non può che partire da un legame profondo con le condizioni materiali delle persone, con le vertenze sociali che ne scaturiscono e con il protagonismo di chi le anima, senza mediazioni rappresentative.
Per questo, se intendiamo sbloccare la situazione e aprire una fase diversa, è necessario darsi da fare per rompere queste illusioni, far saltare questa finta concordia sociale, mostrare le fratture reali che attraversano la nostra società. È necessario, per uscire da questo stallo, un po' di puro e sano "spirito di scissione", recuperando il senso gramsciano di quest'espressione, quello di "progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica", di processo collettivo di riconoscimento della propria parzialità all'interno della società, di constatazione della condivisione di questa condizione con tanti altri, e, di conseguenza, di attivazione per il cambiamento. Una sinistra al 2 o al 3%, in una fase densa di stravolgimenti sociali come quella che stiamo vivendo, è una sinistra senza popolo, una sinistra che non gioca alcun ruolo in quegli stravolgimenti, una sinistra ridotta a corrente d'opinione. E allora forse, più che preoccuparci di ricostruire la sinistra, dovremmo preoccuparci di ricostruire il popolo. Dobbiamo recuperare la consapevolezza che, per riaprire qualsiasi orizzonte di possibilità per il cambiamento, serve attivare una parte di società, costruire al suo interno meccanismi di identificazione e reciproco riconoscimento e mobilitarla. Serve un processo di soggettivazione forte, in grado di suonare la sveglia, di costruire appartenenze collettive lungo fratture ben diverse e più rilevanti di quelle, illusorie, su cui si svolge il dibattito politico.
Se è il tempo della soggettivazione sociale e non della rappresentazione ideologica, allora per noi, per quel sempre più vasto mondo di studenti e lavoratori, indipendenti e subordinati, immigrati ed emigranti, che vive per motivi generazionali una condizione sociale di precarietà, è necessario ripartire da quello striscione che abbiamo mostrato in piazza Montecitorio il giorno dell'insediamento del nuovo parlamento, quando indicavamo nel 38,7% di disoccupazione giovanile l'unica vera maggioranza di questo paese. Dire di essere il 99% sul piano ideologico non sposta di una virgola i rapporti di forza, se non diciamo con forza, sul piano della soggettivazione sociale, "we are 38,7%", noi siamo un pezzo della società di questo paese, che vive una condizione sempre più drammatica, quella dello sfruttamento travestito da flessiblità, dello smantellamento dei sistemi di welfare, dell'assenza di prospettive di vita diverse dall'emigrazione forzata, e che sa di avere in sé la potenzialità del cambiamento, dell'innovazione, della costruzione di un futuro diverso per tutti e per tutte.
Per non disperdere questa potenzialità, questo pezzo di società si deve riconoscere, identificare e attivare, deve farsi soggetto sociale e generazionale, rifuggire ogni tentazione giovanilista e iniziare a prendersi sul serio. La campagna "Voglio restare" ha convocato per il prossimo 21 aprile un incontro nazionale a Roma. Si tratta di un'ottima occasione per fare un passo in avanti in questo percorso. Partire da tutto quello che è stato fatto in questi mesi, dai comitati nati nei territori, dalle persone aggregate intorno alle proposte che si sono andate via via delineando, e rilanciarlo con una determinazione all'altezza dei tempi che stiamo vivendo. Se nel novembre scorso ci siamo detti che dovevamo "cambiare il paese per non dover cambiare paese", oggi dobbiamo dirci che per cambiare questo paese dobbiamo identificare chi deve fare cosa, dobbiamo ricoscerci come piattaforma avanzata al servizio del cambiamento generale, come pezzo non autosufficiente che guadagna la propria centralità mettendosi a disposizione di un processo più ampio, di un processo di soggettivazione sociale, generazionale e politica che parta dalla condizione precaria e che sappia indicare una via d'uscita.
Si tratta di un processo di soggettivazione sociale e generazionale proprio in nome dello spirito di scissione di cui sopra, del bisogno di ripartire da temi reali e materiali, di ricomporre sul piano sociale ciò che la politica, o meglio una sua degenerazione opportunista, ha diviso. Ma dev'essere un processo che indichi una prospettiva politica, se non vogliamo rimanere prigionieri della sindrome di Peter Pan, del rivendicazionismo fine a se stessa, dello stereotipo dei bamboccioni che non sanno che chiedere. Se vogliamo essere presi sul serio, dobbiamo iniziare a prenderci sul serio, accompagnando all'azione vertenziale e rivendicativa una presa di responsabilità generale, tutta politica, facendo a tutto il paese una proposta di cambiamento basata sul protagonismo della nostra generazione e sulle idee che sarà in grado di produrre.
Soggettivazione, infatti, non significa corporativismo. Sarebbe controproducente creare, come spesso si è visto fare, intorno ad alcune aree del precariato, come il lavoro cognitivo autonomo, un sentimento di aristocrazia e lontananza dalle dinamiche del conflitto capitale-lavoro, insistendo sulla natura "indipendente" della propria condizione, come se davvero si potesse essere indipendenti e non subordinati in un mercato del lavoro, come se le contraddizioni di questo sistema non riguardassero anche chi non ha un contratto di tipo tradizionale, come se ci si potesse chiamare fuori dai conflitti sociali ed economici che strutturano la nostra società in cambio di un reddito. La battaglia per il riconoscimento della dignità del lavoro indipendente e per la costruzione di un nuovo welfare universale ha senso solo se si accompagna a quella per l'eliminazione della precarietà nei rapporti subordinati e per il loro riconoscimento come tali, senza scorciatoie o stratagemmi.
Superare il rivendicazionismo e occuparsi di politica significa non delegare nulla, non fare sconti a nessuno, affrontare fino i fondi i nodi del nostro tempo. Significa chiedersi perché la nostra generazione è sacrificata, significa allargare lo sguardo ai meccanismi dell'austerity europea e della globalizzazione neoliberista, significa identificare i responsabili e organizzarsi per invertire la rotta. Partendo dalla nostra condizione sociale e generazionale, dobbiamo essere in grado di riconquistarci uno spazio di mobilitazione, come stanno facendo i nostri compagni di Juventud Sin Futuro in Spagna, senza presunzioni di autosufficienza ma mettendo invece il nostro percorso, le nostre idee, le nostre energie al servizio di una mobilitazione generale, ampia, partecipata, non ideologica, in grado di riempire le piazze e il dibattito politico con l'energia viva delle nostre esperienze quotidiane.
Ricostruire la democrazia di questo paese, mai stata così in crisi, è un compito che semplicemente non può essere realizzato senza di noi, senza quella fetta demografica che, il 24 e 25 febbraio, ha messo per la prima volta in minoranza i partiti tradizionali e rischia di restare imprigionata nell'illusione del ribellismo ultraparlamentarista grillino. Solo un risveglio di partecipazione, una presa di parola pubblica e generalizzata, un massiccio processo di socializzazione e ripoliticizzazione può far saltare lo stallo e riaprire i giochi. Solo noi siamo in grado di cambiare questo paese, se e quando inizieremo a prenderci sul serio e a organizzarci di conseguenza, invadendo e aprendo contraddizioni in tutti gli spazi a nostra disposizione, dalle piazze ai partiti, dalle università ai sindacati, leggendo nelle nostre condizioni di vita quotidiane tutta la cieca ingiustizia del sistema economico in cui viviamo, e mettendoci al lavoro per costruire un futuro radicalmente diverso, per noi e per tutti.
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