Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a una ecatombe per la domanda aggregata italiana, complici la stagnazione salariale e le politiche di austerità. E questo spiega molto del declino italiano. Tutto ciò significa anche che il nostro Paese necessita di riforme sul "lato dell'offerta", ma ha soprattutto un disperato bisogno di nuove fonti di domanda.
Anche
nel 2013 assisteremo a una contrazione del Pil e l'Italia si confermerà
il fanalino di coda delle grandi economie europee. Il peggio è che, al
di là della crudezza del dato congiunturale, il Paese mostra una
tendenza strutturale, di lungo periodo, a realizzare performance
significativamente inferiori a quelle medie, già non entusiasmanti, dei
partner europei.
È infatti noto che l'Europa del dopo-Maastricht (il riferimento, qui e in seguito, è all'Unione europea a 15) ha mediamente messo a segno un tasso di crescita pari alla metà di quello statunitense (dove il Pil dal 1991 a oggi è aumentato in termini reali del 70%).
Ma il dato italiano è particolarmente sconsolante, poiché il nostro Paese è cresciuto in questi anni meno della metà della media europea e solo un quarto degli Stati Uniti. Addirittura, negli ultimi dieci anni - ça va sans dire, dopo l'introduzione dell'euro - il Prodotto interno lordo italiano è decresciuto in termini reali di alcuni decimi di punto.
Le responsabilità di questo declino, almeno ventennale, vengono spesso attribuite alle rigidità dei mercati, alla scarsa efficienza della pubblica amministrazione, agli oneri diretti e indiretti del debito pubblico, alla inadeguatezza del nostro ceto politico. E non si nega che vi sia del vero in queste tesi. Tuttavia, è importante riconoscere che il principale fattore del declino va rinvenuto nella bassa domanda, privata e pubblica, di beni e servizi.
Sul ruolo della domanda aggregata gli economisti litigano da decenni. Ma anche i sostenitori ortodossi della "legge" di Say - secondo cui la crescita si procura la nuova domanda - tendono ad ammettere che le variazioni della domanda hanno un impatto sull'attività economica, almeno nel breve. Secondo costoro, una contrazione della domanda, in un dato anno, determinerebbe una riduzione contenuta e limitata nel tempo del Pil, tornando l'economia ben presto a crescere sui livelli consentiti dal sistema di condizioni che regolano l'offerta. Invece, la letteratura di matrice keynesiana vede nella domanda la variabile-chiave nella determinazione dei livelli di attività dell'economia, non solo nel breve periodo.
Il caso italiano dovrebbe, però, mettere tutti d'accordo. Infatti, nel nostro Paese la stagnazione della domanda si è protratta sistematicamente per alcuni decenni. Qui non c'è analisi di breve periodo che tenga, come mostrano inequivocabilmente i dati Ameco.
E infatti dal 1991 a oggi la domanda aggregata statunitense è cresciuta dell'84% e la domanda europea di circa 24 punti percentuali in meno; ma è l'Italia che è rimasta letteralmente al palo, con una dinamica complessiva della domanda pari a meno della metà della media europea e addirittura a meno di un terzo di ciò che si è verificato oltre Atlantico (il dato italiano è il 25,8%).
Ancora una volta, è impressionante quanto si è verificato dopo l'introduzione dell'euro e poi con la crisi: dal 2002 a oggi, infatti, la domanda di beni e servizi nel nostro Paese è cresciuta dell'1,6%, dieci volte meno della media europea, dodici volte meno degli Stati Uniti.
L'analisi disaggregata mostra che, sebbene le nostre esportazioni non abbiano brillato, il principale problema è l'insufficienza della domanda interna. Nell'ultimo decennio l'Italia è il solo grande Paese europeo a registrare una dinamica della domanda interna complessivamente negativa (-1,6%), contro una crescita pari al 9% in Europa e al 15% negli Stati Uniti. Tra il 1991 e il 2012 la spesa pubblica italiana è aumentata poco (del 14%, contro valori che sfiorano il 40% nella media europea e appena un po' più bassi negli Stati Uniti). Nell'ultimo decennio i consumi sono cresciuti meno dell'1% contro valori undici volte superiori in Europa e 25 volte superiori negli Stati Uniti. Ancora più pesante il dato degli investimenti, che dal 2002 al 2012 si sono addirittura contratti del 21%, contro valori costanti in Europa, ma con punte di crescita del 12% in Germania e Francia.
Insomma, negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a una ecatombe per la domanda aggregata italiana, complici le politiche di austerità, la pesante eredità del debito, la stagnazione salariale. E questo spiega molto del declino italiano.
Tutto ciò significa che il nostro Paese necessita di riforme che riguardano il lato dell'offerta, ma ha soprattutto un disperato bisogno di nuove fonti di domanda per le merci e i servizi realizzati dalle nostre imprese. Può darsi anche che l'austerità abbia effetti limitativi sulla domanda e sul Prodotto interno lordo solo nel breve periodo. Ma, come amava dire il caro vecchio Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti.
È infatti noto che l'Europa del dopo-Maastricht (il riferimento, qui e in seguito, è all'Unione europea a 15) ha mediamente messo a segno un tasso di crescita pari alla metà di quello statunitense (dove il Pil dal 1991 a oggi è aumentato in termini reali del 70%).
Ma il dato italiano è particolarmente sconsolante, poiché il nostro Paese è cresciuto in questi anni meno della metà della media europea e solo un quarto degli Stati Uniti. Addirittura, negli ultimi dieci anni - ça va sans dire, dopo l'introduzione dell'euro - il Prodotto interno lordo italiano è decresciuto in termini reali di alcuni decimi di punto.
Le responsabilità di questo declino, almeno ventennale, vengono spesso attribuite alle rigidità dei mercati, alla scarsa efficienza della pubblica amministrazione, agli oneri diretti e indiretti del debito pubblico, alla inadeguatezza del nostro ceto politico. E non si nega che vi sia del vero in queste tesi. Tuttavia, è importante riconoscere che il principale fattore del declino va rinvenuto nella bassa domanda, privata e pubblica, di beni e servizi.
Sul ruolo della domanda aggregata gli economisti litigano da decenni. Ma anche i sostenitori ortodossi della "legge" di Say - secondo cui la crescita si procura la nuova domanda - tendono ad ammettere che le variazioni della domanda hanno un impatto sull'attività economica, almeno nel breve. Secondo costoro, una contrazione della domanda, in un dato anno, determinerebbe una riduzione contenuta e limitata nel tempo del Pil, tornando l'economia ben presto a crescere sui livelli consentiti dal sistema di condizioni che regolano l'offerta. Invece, la letteratura di matrice keynesiana vede nella domanda la variabile-chiave nella determinazione dei livelli di attività dell'economia, non solo nel breve periodo.
Il caso italiano dovrebbe, però, mettere tutti d'accordo. Infatti, nel nostro Paese la stagnazione della domanda si è protratta sistematicamente per alcuni decenni. Qui non c'è analisi di breve periodo che tenga, come mostrano inequivocabilmente i dati Ameco.
E infatti dal 1991 a oggi la domanda aggregata statunitense è cresciuta dell'84% e la domanda europea di circa 24 punti percentuali in meno; ma è l'Italia che è rimasta letteralmente al palo, con una dinamica complessiva della domanda pari a meno della metà della media europea e addirittura a meno di un terzo di ciò che si è verificato oltre Atlantico (il dato italiano è il 25,8%).
Ancora una volta, è impressionante quanto si è verificato dopo l'introduzione dell'euro e poi con la crisi: dal 2002 a oggi, infatti, la domanda di beni e servizi nel nostro Paese è cresciuta dell'1,6%, dieci volte meno della media europea, dodici volte meno degli Stati Uniti.
L'analisi disaggregata mostra che, sebbene le nostre esportazioni non abbiano brillato, il principale problema è l'insufficienza della domanda interna. Nell'ultimo decennio l'Italia è il solo grande Paese europeo a registrare una dinamica della domanda interna complessivamente negativa (-1,6%), contro una crescita pari al 9% in Europa e al 15% negli Stati Uniti. Tra il 1991 e il 2012 la spesa pubblica italiana è aumentata poco (del 14%, contro valori che sfiorano il 40% nella media europea e appena un po' più bassi negli Stati Uniti). Nell'ultimo decennio i consumi sono cresciuti meno dell'1% contro valori undici volte superiori in Europa e 25 volte superiori negli Stati Uniti. Ancora più pesante il dato degli investimenti, che dal 2002 al 2012 si sono addirittura contratti del 21%, contro valori costanti in Europa, ma con punte di crescita del 12% in Germania e Francia.
Insomma, negli ultimi vent'anni abbiamo assistito a una ecatombe per la domanda aggregata italiana, complici le politiche di austerità, la pesante eredità del debito, la stagnazione salariale. E questo spiega molto del declino italiano.
Tutto ciò significa che il nostro Paese necessita di riforme che riguardano il lato dell'offerta, ma ha soprattutto un disperato bisogno di nuove fonti di domanda per le merci e i servizi realizzati dalle nostre imprese. Può darsi anche che l'austerità abbia effetti limitativi sulla domanda e sul Prodotto interno lordo solo nel breve periodo. Ma, come amava dire il caro vecchio Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti.
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