Le primarie del Pd obbligano a riflettere. Prima di tutto
sulla infondatezza del ritornello secondo il quale gli italiani ne
avevano abbastanza della politica e dei suoi riti, sommo dei quali
sembrano le elezioni. Più di tre milioni di persone sono andati a
esprimere un parere su chi doveva essere il candidato sfidante della
sinistra, istituzionalmente non più che una raccomandazione, e per un
esito non scontato. Lo stesso fenomeno si era verificato in Francia,
dove si attendeva un vasto astensionismo alle presidenziali, mentre la
partecipazione è stata elevata. Se ai politici si deve rimproverare la
scarsa vicinanza alla popolazione, non è che giornalisti ne sentano
meglio il polso. La gente è ancora interessata alla politica, se ne
emoziona ancora, la premia o la punisce, e alcuni di noi si ostinano a
credere che se le si offrissero argomenti e ragionamenti più persuasivi
di quelli che le scodellano le tv, sarebbe pronta ad accoglierli.
Secondo oggetto di riflessione sono i risultati: il bacino
dell’ex Pci e delle sinistre, dal quale venivano i votanti, si è diviso
in tre culture. Culture, non personaggi. Bersani, il più noto, è
passato in testa, è prevedibile che vi resterà; ma si trova alla sua
sinistra e a destra due personaggi fra loro diversissimi e diversi anche
da lui. Certo non pacifici compagni di strada. Il più seguito, il
sindaco di Firenze Matteo Renzi, è una versione inedita del populismo di
sinistra in veste italica, anzi propriamente toscana; il populismo
classico raccoglie e indirizza a destra lembi di popolo lasciati a
margine dallo sviluppo, o furiosi per le scelte deludenti della
sinistra, gente insomma che ha di che lamentarsi, mentre quello di Renzi
è soprattutto un giovanilismo senza troppi interrogativi e senza
complessi: spostatevi, vecchi e incapaci, e fateci posto. Non me la
sento neanche di rimproverargli l’effetto che il giovanilismo fa a chi
si ricorda “Giovinezza giovinezza” da piccolo, perché il fascismo aveva
un carico di contenuti che Renzi non ha, salvo forse un certo disprezzo,
ai limiti del turpiloquio anch’esso toscano. Per il resto il renzismo
non vuol dire nulla, salvo una smania di cambiare il personale politico,
resa dubbia dall’essere tutti e inevitabilmente circondati da giovani
intelligenti e vecchi scemi o viceversa, praticamente in eguale misura.
Il solo movimento generazionale che ha scosso la società è stato il 68.
L’altro sfidante di Bersani, Nichi Vendola, è uscito terzo
con il 15 per cento dei voti, prova che una voglia di sinistra coerente
c’è. Se quel 15 percento si esprimesse anche su scala nazionale sarebbe
non poco. Ma che cosa occorre oggi per essere in grado di contare? Da
Rifondazione sono piovuti su Vendola molti fulmini, come se fosse in
partenza un traditore; ma bisogna ammettere che il piede messo dentro la
porta non garantisce di per sé quel quindici per cento del peso
politico che il governatore della Puglia si propone e del quale ha
bisogno per reggere.
E questo per due ragioni di fondo, che nelle primarie non
sono state troppo esplicitate. La prima è che la linea di Monti è un
blocco compatto, non facilmente emendabile neanche sotto aspetti minori;
la seconda è che non è chiaro se e quanto, una volta premier, Bersani
la vorrebbe emendare. Fra i guai prodotti da Berlusconi è che ha
permesso a molti di credere che un governo, liberato dalle sue
illegalità e sozzure, sarebbe andato ovviamente a sinistra sul piano
politico e su quello economico. Cosa niente affatto vera. Monti era
esente da questo ordine di pattume e appunto con lui una destra nuda e
cruda è uscita in tutto il suo, diciamo così, splendore. Monti è la
versione italiana di Angela Merkel, è più intelligente di Cameron, e il
suo progetto non presenta interstizi nei quali infilare un po’ di
ammorbidente ovatta. Far rimandare il rimborso del debito o ringoiare
l’art.18 non sono modeste varianti, e anche ammesso che Monti, magari da
presidente della repubblica, non vi si opponga, il muro che chi le
propone si troverà davanti è immediatamente l’Europa.
La schiera dei paesi del nord, quelli per intenderci
virtuosi, è quella che comanda. Se a Monti è stata risparmiata la
troika, cioè sentirsi le zampe dell’Europa monetaria direttamente
addosso, non sarà risparmiata certo a Bersani. Un vero cambiamento
d’indirizzo, almeno in senso keynesiano o socialdemocratico sul serio,
implicherebbe un’alleanza dei paesi del sud, sorretta da una solida
sinistra. Della quale non vedo traccia né in Portogallo, né in Spagna,
soltanto l’alternativa di Syriza in Grecia. E in Italia? La domanda può
essere espressa anche così: quanto è lontano Bersani dalla filosofia di
Monti e della Merkel? Bersani non come persona ma come Pd, come ex Pds,
come ex Pci – fin dove è andato nella mutazione subita ormai più di
venti anni fa? Una mutazione ideale, prima ancora che politica,
l’adesione all’inevitabilità del capitalismo e ormai anche l’incapacità
di opporsi almeno alla sua forma liberista. Questo è il problema che
Alberto Asor Rosa lascia in penombra. Contro il liberismo si sollevano,
ora come ora, soltanto alcuni singoli, vecchi o giovani, un sindacato, i
movimenti, le occupazioni, la collera della gente, ma i governi appena
insediati smettono di vederli e, se li vedono, gli scagliano addosso
polizia e manganelli.
Contro questa Europa sentiamo voci autorevoli, sia dagli
Stati Uniti, sia da noi; ma, ahimè, isolate. Siamo lontani da quella
lunga marcia all’interno delle istituzioni, fra le quali metto anche la
cultura “democratica” dominante, di cui parlava Rudi Dutschke. Ma questo
è il punto, già reso evidente dalla china rovinosa delle politiche
europee, per il resto tutto da reinventare, e che va molto oltre una
mera occupazione elettorale dei palazzi del potere.
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