domenica 7 aprile 2013

Alba ci riprova di Roberto Musacchio


Alba ci riprova


Alba ci riprova. Il gruppo di intellettuali e di soggetti dei movimenti che aveva dato vita al manifesto per un soggetto politico nuovo per poi provare ad affrontare anche la sfida della rappresentanza con la proposta di Cambiare si può, torna sulla scena politica.
Lo fa con un appuntamento di discussione aperta, “Dopo il voto affrontiamo il nuovo mondo”, sabato 13 aprile a Firenze, al teatro Puccini, cui prenderanno parola tanti che di Alba sono parte e altrettanti che hanno accompagnato il progetto o che lo incontrano per l’occasione. E l’occasione è di quelle classiche e cioè il che fare dopo il voto che ha terremotato tante certezze e consegnato una fase che più incerta non si può.
Anzi, se si vuole prendere di petto subito gli aspetti più dolorosi, l’unica certezza è che una certa sinistra, quella diciamo così alternativa alle politiche di austerità, ha subito ancora una volta una cocente sconfitta. E questo naturalmente conta nella discussione. Che però, se non deve, anche qui per l’ennesima volta, rimuovere l’asprezza della realtà, deve però, se vuole provare ad essere produttiva, cercare di misurarsi con gli elementi più grandi e generali del quadro.
Comunque l’appuntamento si presenta come uno dei pochi che possa consentire una discussione aperta e trasversale, non pregiudicata dalle esigenze di sopravvivenza di vecchie appartenenze. Si può sperare che contribuisca ad evitare ciò che accadde dopo la sconfitta della sinistra arcobaleno, quando ciascuno si trincerò nei propri fortini, per altro squassati da nuove divisioni ,e mancò del tutto l’occasione di una riflessione comune.
Ora le ferite sono altrettanto profonde. Anche per chi aveva provato con “cambiare si può” a mettere in campo da subito anche sul terreno della rappresentanza quella che era stata una intuizione politica poi rivelatasi giusta. L’idea cioè che nello spazio politico italiano si andava consumando una crisi radicale dei soggetti partitici e degli assetti della seconda repubblica e che, contestualmente, venivano ormai al pettine i nodi di una costruzione europea, quella della austerità, che non teneva più.
Queste due intuizioni hanno poi trovato ampia conferma nel voto. Per la prima volta nell’epoca della seconda repubblica è stata sconfitta l’idea dominante della governabilità e si è determinata una rottura profonda negli assetti consolidati. Questo rende ancora più bruciante la sconfitta di quelle forze che lo avevano intuito ma che si sono mostrate incapaci di occupare uno spazio politico che è andato ad appannaggio del grillismo.
Si pagano gli errori antichi fatti, compresi quelli della dissennata gestione del dopo sconfitta dell’arcobaleno. A questi si sono sommati gli altri compiuti più recentemente e che hanno portato all’affossamento di una proposta politica come quella di cambiare si può che pure aveva suscitato nuove energie.
Manca naturalmente la controprova di come avrebbe retto il confronto elettorale quel tipo di impostazione invece del cartello di rivoluzione civile. Ma mi sembra di poter dire, anche alla luce dello squagliamento immediato di quel cartello e invece dal mantenersi in campo di alcuni propositi sopravvissuti dell’esperienza di cambiare si può, che almeno si sarebbe potuto con quest’ultima forse reggere meglio l’impatto.
Ma siccome il tema non è la recriminazione ma la comprensione, rispettosa anche dei punti di vista altrui, e l’andare avanti, se si può, proviamo a vedere come. Intanto approfondendo.
Già i materiali di questa prima fase del dopo voto offrono elementi importanti con cui provare a ripartire. Il voto stesso ha detto che l’idea di una gestione conservativa o puramente migliorativa dell’esistente non regge la prova dei fatti. Intendendo per prova dei fatti il consenso e lo spazio di manovra. La coalizione di Bersani nel mettere al centro della propria proposta il rispetto degli impegni europei ha convinto gli establishment ma non ha ottenuto quel consenso che pensava di avere. Anzi, il suo risultato è francamente minimo. Il mettere come primo degli 8 punti, ora, il provare a cambiare le politiche europee, segnala una crepa.
Ma il pensare che questo sia l’inizio di un cambio di collocazione e di rotta strategico mi parrebbe un gigantesco abbaglio politicista. La costruzione dell’Europa del dopo compromesso sociale, quella della crescita liberista, della finanziarizzazione, delle tecnocrazie, del pessimo compromesso franco-tedesco e al fine della austerità costituente, è un elemento troppo profondo per essere rimosso con facilità e senza una vera rottura. Basta pensare a come, dopo gli 8 punti di Bersani, gli europarlamentari del PD abbiano votato il two pack che dell’austerità è un’altra tappa.
Per giunta questa costruzione è profondamente intrecciata da un lato al cambio di segno del socialismo europeo che solo una lettura volutamente superficiale può circoscrivere a Blair e che invece riguarda purtroppo il complesso di questa esperienza storica.
E dall’altro lato è altrettanto profondamente intrecciata con la nascita stessa del PD, col prodismo per parlare anche di un aspetto nobile. Il PD come espressione precisamente di quella cultura della governabilità, o meglio dire della governance, che ha sostituito l’idea della democrazia partecipativa, socialmente connotata e trasformativa. E in cui il massimo del “riformismo” è sussunto dall’idea delle “buone pratiche” e cioè alla fin fine le pratiche buone per la governance.
Per giunta questa natura profonda del PD, non riguarda solamente i gruppi dirigenti. Sarebbe ormai ora di provare a fare una analisi del corpo reale e del magma culturale che si ritrova all’interno dei confini della coalizione del PD, delle sue culture e delle sue espressioni. La “governance della governance”, per usare un gioco di parole che vuol dare l’immagine di ciò che governa il vissuto di quel corpo politico, lascia però affiorare costantemente pulsioni che sono a volte assai simili a quelle grilline, anche quando esprimono la critica più radicale ai 5 stelle. E nella governance della governance il moderatismo pseudo europeista (chiamo così la sussunzione in una idea di Europa che si fa alibi e fa male alla costruzione dell’Europa stessa)  si avvale di materiali fideistici propri di vecchie ortodossie. Diciamo che i “marxisti per Tabacci” sono stati una felice rappresentazione di qualcosa che c’è.
Naturalmente questa durezza di analisi , la stessa che penso di dover usare per noi e per me stesso,non vuole essere liquidatoria o irrispettosa, nè sottacere o sottovalutare ciò che di altro si muove. Vuole solo evitare la rimozione opportunista dei problemi e gli inutili diplomatismi.
Di fatto questa costruzione ha sostanzialmente subito tutta la gestione della fase messa in campo da quello che Draghi ha chiamato il pilota automatico. E che ha valide propaggini italiane. Questo vale per tutto il periodo che va dal Governo Monti ad oggi. E che ha determinato prima la sussunzione nel profilo costituente che questo governo ha avuto e poi la non comprensione dell’esplodere del fenomeno Grillo. Che corrisponde precisamente all’esplodere della governance per quello che è  stata fin qui. Oltrechè, naturalmente, ad una trasformazione profonda del corpo sociale con l’emergere di una nuova dimensione di cittadinanza individualizzata corrispondente anche a nuove figure prodotte dalle trasformazioni del lavoro e della produzione.
Sta di fatto che la reazione oscilla tra le blandizie e le minacce rivolte a Grillo. Entrambe sostanzialmente subalterne e probabilmente inefficaci.
Per giunta si palesa ormai incombente il rischio di una vera e propria crisi istituzionale. Il modo assurdo con cui si è edificata la seconda repubblica, e cioè con strappi ripetuti all’impianto costituzionale, dettati dalle pulsioni alla governance e a rendere la rappresentanza e il Parlamento servili ad essa, e allo pseudo europeismo, ha prodotto vulnus sempre più profondi, per altro unici in Europa visto che in nessun altro Paese si è realizzata una così totale subordinazione della  rappresentanza al governo. Quella sorta di presidenzialismo di fatto che stiamo vivendo ne è solo un aspetto. Altri, forse ancora più gravi, sono nella totale incertezza della natura della rappresentanza, delle sue responsabilità e delle sue libertà. Crisi e ribaltoni sono stati la quotidianità dell’era del maggioritario. Con l’impossibilità per altro di condividere il giudizio sulla natura delle scelte visto che ciò che per l’uno è ribaltone per l’altro è assunzione di responsabilità, ciò che per l’uno è libertà per l’altro è tradimento per altro con metri di giudizio che cambiano a seconda della collocazione del momento.
Naturalmente tutto ciò non assolve le nostre responsabilità. Dico nostre, cioè di chi pensava di poter contribuire a far si che in Italia vi fosse una sinistra dotata di autonomia politica culturale rispetto a tutto ciò. Sono talmente convinto che esse siano grandi che penso che qualsiasi ripartenza  chieda a uno come me che ha avuto responsabilità, di non riproporsi né come figura apicale né come rappresentanza. Quello che però credo dovremo salvare è quella straordinaria capacità di militanza che ancora ha portato tante e tanti dall’Italia a partecipare ancora in questi giorni al bellissimo forum mondiale di Tunisi, dove per altro, cosa che mi ha colpito, non c’erano che un paio di parlamentari italiani. Ecco, il militante vorrei continuare a farlo. E vedere se siamo in grado di rifondare un percorso condiviso, che magari intrecci elementi territoriali con quelli della battaglia decisiva per un’altra Europa. Che non insegua il politicismo della crisi degli assetti ma provi a rovesciare i termini a partire dall’agire gli elementi di rottura indispensabili. Il no al fiscal compact. Il no alla TAV. Il si al reddito di cittadinanza. Il bisogno di un ritorno al valore progressivo e innovativo della Costituzione come base per individuare il nuovo Presidente della Repubblica e fare una nuova legge elettorale proporzionale. E per invadere con questi anche un Parlamento da cui si è esclusi. Alba, a Firenze, mi pare un’occasione per parlarne.

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