Alba ci riprova. Il gruppo di intellettuali e di soggetti dei
movimenti che aveva dato vita al manifesto per un soggetto politico
nuovo per poi provare ad affrontare anche la sfida della rappresentanza
con la proposta di Cambiare si può, torna sulla scena politica.
Lo fa con un appuntamento di discussione aperta, “Dopo il voto
affrontiamo il nuovo mondo”, sabato 13 aprile a Firenze, al teatro
Puccini, cui prenderanno parola tanti che di Alba sono parte e
altrettanti che hanno accompagnato il progetto o che lo incontrano per
l’occasione. E l’occasione è di quelle classiche e cioè il che fare dopo
il voto che ha terremotato tante certezze e consegnato una fase che più
incerta non si può.
Anzi, se si vuole prendere di petto subito gli aspetti più dolorosi,
l’unica certezza è che una certa sinistra, quella diciamo così
alternativa alle politiche di austerità, ha subito ancora una volta una
cocente sconfitta. E questo naturalmente conta nella discussione. Che
però, se non deve, anche qui per l’ennesima volta, rimuovere l’asprezza
della realtà, deve però, se vuole provare ad essere produttiva, cercare
di misurarsi con gli elementi più grandi e generali del quadro.
Comunque l’appuntamento si presenta come uno dei pochi che possa
consentire una discussione aperta e trasversale, non pregiudicata dalle
esigenze di sopravvivenza di vecchie appartenenze. Si può sperare che
contribuisca ad evitare ciò che accadde dopo la sconfitta della sinistra
arcobaleno, quando ciascuno si trincerò nei propri fortini, per altro
squassati da nuove divisioni ,e mancò del tutto l’occasione di una
riflessione comune.
Ora le ferite sono altrettanto profonde. Anche per chi aveva provato
con “cambiare si può” a mettere in campo da subito anche sul terreno
della rappresentanza quella che era stata una intuizione politica poi
rivelatasi giusta. L’idea cioè che nello spazio politico italiano si
andava consumando una crisi radicale dei soggetti partitici e degli
assetti della seconda repubblica e che, contestualmente, venivano ormai
al pettine i nodi di una costruzione europea, quella della austerità,
che non teneva più.
Queste due intuizioni hanno poi trovato ampia conferma nel voto. Per
la prima volta nell’epoca della seconda repubblica è stata sconfitta
l’idea dominante della governabilità e si è determinata una rottura
profonda negli assetti consolidati. Questo rende ancora più bruciante la
sconfitta di quelle forze che lo avevano intuito ma che si sono
mostrate incapaci di occupare uno spazio politico che è andato ad
appannaggio del grillismo.
Si pagano gli errori antichi fatti, compresi quelli della dissennata
gestione del dopo sconfitta dell’arcobaleno. A questi si sono sommati
gli altri compiuti più recentemente e che hanno portato all’affossamento
di una proposta politica come quella di cambiare si può che pure aveva
suscitato nuove energie.
Manca naturalmente la controprova di come avrebbe retto il confronto
elettorale quel tipo di impostazione invece del cartello di rivoluzione
civile. Ma mi sembra di poter dire, anche alla luce dello squagliamento
immediato di quel cartello e invece dal mantenersi in campo di alcuni
propositi sopravvissuti dell’esperienza di cambiare si può, che almeno
si sarebbe potuto con quest’ultima forse reggere meglio l’impatto.
Ma siccome il tema non è la recriminazione ma la comprensione,
rispettosa anche dei punti di vista altrui, e l’andare avanti, se si
può, proviamo a vedere come. Intanto approfondendo.
Già i materiali di questa prima fase del dopo voto offrono elementi
importanti con cui provare a ripartire. Il voto stesso ha detto che
l’idea di una gestione conservativa o puramente migliorativa
dell’esistente non regge la prova dei fatti. Intendendo per prova dei
fatti il consenso e lo spazio di manovra. La coalizione di Bersani nel
mettere al centro della propria proposta il rispetto degli impegni
europei ha convinto gli establishment ma non ha ottenuto quel consenso
che pensava di avere. Anzi, il suo risultato è francamente minimo. Il
mettere come primo degli 8 punti, ora, il provare a cambiare le
politiche europee, segnala una crepa.
Ma il pensare che questo sia l’inizio di un cambio di collocazione e
di rotta strategico mi parrebbe un gigantesco abbaglio politicista. La
costruzione dell’Europa del dopo compromesso sociale, quella della
crescita liberista, della finanziarizzazione, delle tecnocrazie, del
pessimo compromesso franco-tedesco e al fine della austerità
costituente, è un elemento troppo profondo per essere rimosso con
facilità e senza una vera rottura. Basta pensare a come, dopo gli 8
punti di Bersani, gli europarlamentari del PD abbiano votato il two pack
che dell’austerità è un’altra tappa.
Per giunta questa costruzione è profondamente intrecciata da un lato
al cambio di segno del socialismo europeo che solo una lettura
volutamente superficiale può circoscrivere a Blair e che invece riguarda
purtroppo il complesso di questa esperienza storica.
E dall’altro lato è altrettanto profondamente intrecciata con la
nascita stessa del PD, col prodismo per parlare anche di un aspetto
nobile. Il PD come espressione precisamente di quella cultura della
governabilità, o meglio dire della governance, che ha sostituito l’idea
della democrazia partecipativa, socialmente connotata e trasformativa. E
in cui il massimo del “riformismo” è sussunto dall’idea delle “buone
pratiche” e cioè alla fin fine le pratiche buone per la governance.
Per giunta questa natura profonda del PD, non riguarda solamente i
gruppi dirigenti. Sarebbe ormai ora di provare a fare una analisi del
corpo reale e del magma culturale che si ritrova all’interno dei confini
della coalizione del PD, delle sue culture e delle sue espressioni. La
“governance della governance”, per usare un gioco di parole che vuol
dare l’immagine di ciò che governa il vissuto di quel corpo politico,
lascia però affiorare costantemente pulsioni che sono a volte assai
simili a quelle grilline, anche quando esprimono la critica più radicale
ai 5 stelle. E nella governance della governance il moderatismo pseudo
europeista (chiamo così la sussunzione in una idea di Europa che si fa
alibi e fa male alla costruzione dell’Europa stessa) si avvale di
materiali fideistici propri di vecchie ortodossie. Diciamo che i
“marxisti per Tabacci” sono stati una felice rappresentazione di
qualcosa che c’è.
Naturalmente questa durezza di analisi , la stessa che penso di dover
usare per noi e per me stesso,non vuole essere liquidatoria o
irrispettosa, nè sottacere o sottovalutare ciò che di altro si muove.
Vuole solo evitare la rimozione opportunista dei problemi e gli inutili
diplomatismi.
Di fatto questa costruzione ha sostanzialmente subito tutta la
gestione della fase messa in campo da quello che Draghi ha chiamato il
pilota automatico. E che ha valide propaggini italiane. Questo vale per
tutto il periodo che va dal Governo Monti ad oggi. E che ha determinato
prima la sussunzione nel profilo costituente che questo governo ha avuto
e poi la non comprensione dell’esplodere del fenomeno Grillo. Che
corrisponde precisamente all’esplodere della governance per quello che
è stata fin qui. Oltrechè, naturalmente, ad una trasformazione profonda
del corpo sociale con l’emergere di una nuova dimensione di
cittadinanza individualizzata corrispondente anche a nuove figure
prodotte dalle trasformazioni del lavoro e della produzione.
Sta di fatto che la reazione oscilla tra le blandizie e le minacce
rivolte a Grillo. Entrambe sostanzialmente subalterne e probabilmente
inefficaci.
Per giunta si palesa ormai incombente il rischio di una vera e
propria crisi istituzionale. Il modo assurdo con cui si è edificata la
seconda repubblica, e cioè con strappi ripetuti all’impianto
costituzionale, dettati dalle pulsioni alla governance e a rendere la
rappresentanza e il Parlamento servili ad essa, e allo pseudo
europeismo, ha prodotto vulnus sempre più profondi, per altro unici in
Europa visto che in nessun altro Paese si è realizzata una così totale
subordinazione della rappresentanza al governo. Quella sorta di
presidenzialismo di fatto che stiamo vivendo ne è solo un aspetto.
Altri, forse ancora più gravi, sono nella totale incertezza della natura
della rappresentanza, delle sue responsabilità e delle sue libertà.
Crisi e ribaltoni sono stati la quotidianità dell’era del maggioritario.
Con l’impossibilità per altro di condividere il giudizio sulla natura
delle scelte visto che ciò che per l’uno è ribaltone per l’altro è
assunzione di responsabilità, ciò che per l’uno è libertà per l’altro è
tradimento per altro con metri di giudizio che cambiano a seconda della
collocazione del momento.
Naturalmente tutto ciò non assolve le nostre responsabilità. Dico
nostre, cioè di chi pensava di poter contribuire a far si che in Italia
vi fosse una sinistra dotata di autonomia politica culturale rispetto a
tutto ciò. Sono talmente convinto che esse siano grandi che penso che
qualsiasi ripartenza chieda a uno come me che ha avuto responsabilità,
di non riproporsi né come figura apicale né come rappresentanza. Quello
che però credo dovremo salvare è quella straordinaria capacità di
militanza che ancora ha portato tante e tanti dall’Italia a partecipare
ancora in questi giorni al bellissimo forum mondiale di Tunisi, dove per
altro, cosa che mi ha colpito, non c’erano che un paio di parlamentari
italiani. Ecco, il militante vorrei continuare a farlo. E vedere se
siamo in grado di rifondare un percorso condiviso, che magari intrecci
elementi territoriali con quelli della battaglia decisiva per un’altra
Europa. Che non insegua il politicismo della crisi degli assetti ma
provi a rovesciare i termini a partire dall’agire gli elementi di
rottura indispensabili. Il no al fiscal compact. Il no alla TAV. Il si
al reddito di cittadinanza. Il bisogno di un ritorno al valore
progressivo e innovativo della Costituzione come base per individuare il
nuovo Presidente della Repubblica e fare una nuova legge elettorale
proporzionale. E per invadere con questi anche un Parlamento da cui si è
esclusi. Alba, a Firenze, mi pare un’occasione per parlarne.
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