sabato 4 gennaio 2014

I Khmer rossi di Serge Latouche di Sebastiano Isaia

Per Serge Latouche, «La civiltà occidentale, così come la conosciamo da tre secoli, è molto diversa dalle altre. Si tratta infatti di una società della crescita, cioè di un’organizzazione umana completamente dominata dalla sua economia. E quest’ultima per rimanere in equilibrio, ha una sola via, la fuga in avanti, come un ciclista che, se smette di pedalare, cade a terra. Quando manca la crescita, nella società dei consumi si blocca tutto» (Incontri di un “obiettore di crescita”, Jaca Book, 2013).
Il Capitalismo è in primo luogo e fondamentalmente una società dominata dalla ricerca del massimo profitto possibile, e a causa di ciò la sua struttura economico-sociale deve necessariamente subire periodiche rivoluzioni. È la bronzea legge del profitto che sottopone l’economia a continui mutamenti tecnologici e organizzativi, che sposta sempre in avanti i confini del mercato, trasformando la vita stessa degli individui, ridotti, se mi è concesso dire, a risorse economicamente sensibili, in una merce. L’«immane raccolta di merci» di cui parlò una volta Marx per definire la ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, oggi, nell’epoca della bio-merce (l’individuo come merce che produce merci e che consuma merci: insomma, come merce perfetta) e della sussunzione totalitaria del lavoro sotto il dominio del Capitale, suona perfino riduttiva.
Il corpo stesso degli individui è, infatti, diventato una «immane raccolta di merci», una verde prateria in continua espansione a disposizione del cavallo capitalistico (il Capitale non conosce un limite fisico, ma anzi esso crea sempre di nuovo spazio su cui scorrazzare), un laboratorio che fa la gioia e la fortuna di chi per mestiere inventa nuovi bisogni, nuovi desideri, nuove “utopie”, nuovi sogni, nuove necessità.
Ma che fa anche la gioia e la fortuna di chi si guadagna il pane aggiustando l’anima strapazzata di un «capitale umano» a sempre più alta «composizione organica».
È la tetragona legge di cui sopra che fa del rapporto sociale peculiare di questa epoca storica (Capitale-Lavoro) una disumana e disumanizzante relazione di dominio e di sfruttamento.  In questo senso è verissimo che quella capitalistica è  «un’organizzazione [dis]umana completamente dominata dalla sua economia». Il Capitale come potenza sociale astratta e impersonale che domina anche gli stessi agenti del capitale, i capitalisti, è una realtà che viene in evidenza soprattutto nei momenti di crisi economica, la quale impatta sulla società alla stregua di una catastrofe naturale: inaspettata, violenta, incontrollabile, dolorosa.
Definire il Capitalismo a partire dai concetti di crescita e di consumo, come fa Latouche, è dunque profondamente sbagliato: infatti, è quando manca la crescita dei profitti che nella società basata sulla valorizzazione degli investimenti «si blocca tutto». Il motore dell’economia capitalistica non è il consumo, ma il profitto: è il saggio del profitto che regola, in ultima analisi, l’andamento del ciclo economico, che espande o contrae gli investimenti produttivi, che espande o contrae il mercato finanziario, speculazione inclusa.
Per questo è semplicemente chimerico affermare che bisogna uscire dalla società dei consumi, quando si tratta piuttosto di uscire dalla società dei profitti, ossia dal Capitalismo tout court. D’altra parte, non ci si può attendere altro da un intellettuale che alla Conferenza all’Università di Roma del 7 novembre 2012 ha proposto all’Italia la seguente ricetta per venire fuori dalla crisi: «Frugalità e riaffermazione della supremazia della piccola impresa, che ha rappresentato per cinquanta anni il tessuto connettivo del Paese, la sua peculiarità».
«Accusarci di andare a caccia di chimere è profondamente ingiusto» (p. 54): così risponde il guru francese della decrescita a chi gli rimprovera uno scarso senso della realtà. Contro l’ideologia del TINA (There Is No Alternative), Latouche sostiene il carattere realistico della decrescita. Sulla sostanza chimerica e reazionaria dell’opzione decrescista sostenuta dal Francese rimando a Capitalismo e termodinamica. L’entropia (forse) ci salverà.
Oltre che con i sostenitori del TINA, Latouche se la prende anche con chi lo attacca da “sinistra”, proponendo una «nostalgia rivoluzionaria [che] resta prigioniera di una visione manichea della realtà ereditata dalla sinistra marxista, col suo schema di una lotta di classe ridotta all’antagonismo borghesia/proletariato. Sfortunatamente le cose non sono così semplici. Che ci siano conflitti di interessi irriducibili, non saremo certamente noi a negarlo. Che una rivoluzione sia necessaria, è altrettanto evidente. Tuttavia, questa rivoluzione come la si farà? Contro chi? E contro cosa? Visto che siamo tutti vittime, chi più chi meno, contagiati dal virus produttivista e consumista, bisognerà prevedere lo sterminio del popolo al dettaglio in nome del popolo nel suo insieme, secondo l’equazione matematica del terrore formulata da Benjamin Constant e riattualizzata dai Khmer Rossi?» (Incontri di…). Quanto sostiene Latouche la dice lunga, tra l’altro, sull’idea di “marxismo” che egli ha in testa. I Khmer rossi rappresentano il migliore cavallo di battaglia di Latouche nella sua polemica con i “marxisti”: «Tutti i tentativi di modificare radicalmente l’immaginario, di cambiarlo forzatamente, hanno avuto risultati terrificanti, come ha dimostrato l’esperienza dei Khmer Rossi in Cambogia» (Decolonizzare l’immaginario). Interpretare in chiave anticapitalistica la mostruosa esperienza dei maoisti cambogiani è semplicemente ridicolo.
Come sa chi ha la bontà di leggere le mie modeste cose, a mio avviso lo stalinismo, non importa se con caratteristiche russe, cinesi o cambogiane, è l’esatto opposto di quella concezione rivoluzionaria del mondo che Marx si sforzò di elaborare e praticare. L’intellettuale francese può certamente avere la meglio su gran parte dei militanti “marxisti” oggi in circolazione, in genere eredi di quel “comunismo” che ha gettato nel più assoluto discredito l’idea stessa di una emancipazione rivoluzionaria delle classi dominate e dell’intera umanità; ma nei confronti dell’autentico punto di vista critico-rivoluzionario (che, detto en passant, non ha bisogno di definirsi con un nome), egli appalesa tutta la sua inconsistenza dottrinaria e politica, tutto il suo infantilismo “filosofico”.
Alla base del genocidio cambogiano degli anni Settanta non ci fu, come crede lo sprovveduto Latouche, una coerente quanto feroce utopia anticapitalistica, ma un retaggio storico fatto di oppressioni e violenze coloniali, di sfruttamento imperialistico, di nazionalismo frustrato, di odio sociale tra campagna e città, di estrema miseria urbana e rurale, di corruzione endemica e capillare, di vendette sociali e personali lungamente coltivate. Tutte queste magagne sfociarono nella parossistica chiusura nazionalista-contadina dei Khmer Rossi, i quali si proposero di sradicare con la forza dal corpo sociale cambogiano ogni inclinazione benevola nei confronti del «corrotto occidente capitalistico». Una versione particolarmente estremista del maoismo (caldeggiata soprattutto dalla moglie di Mao) costituì il miserabile fondamento ideologico dell’ultranazionalismo Khmer, la cui sanguinosa esperienza rappresenta un capitolo del Libro Nero del Capitalismo.
I giacobini pensarono che fosse possibile cambiare la «cattiva natura dell’uomo» attraverso un mero sforzo di volontà, mediante una illuministica rivoluzione culturale, senza cioè modificare radicalmente le cause storico-sociali di quella natura. «Essi stavano sul filo d’una grande contraddizione, e chiamarono in loro aiuto il filo della ghigliottina … Essi credevano nella forza assoluta dell’idea, della “verité”. E ritenevano che nessuna ecatombe umana sarebbe stata troppo grande per costruire il piedistallo a questa “verité”» (Trotsky, Giacobinismo e socialdemocrazia). Raddrizzare l’«albero storto» dell’individuo, anche a costo di spezzarlo, è stato da sempre il sogno degli idealisti eticamente motivati di tutte le tendenze politiche e filosofiche. La «rivoluzione antropologica» a rapporti sociali invariati è la classica via per l’inferno lastricata di eccellenti intenzioni.
Per questo quando sento parlare molti fautori particolarmente zelanti della «decrescita felice» circa l’urgenza di «cambiare radicalmente i nostri pessimi valori, i nostri cattivi stili di vita, le nostre cattive abitudini», non posso fare a meno di inquietarmi. La mano corre istintivamente al collo, quasi in un gesto di rassicurazione…
I militanti del punto di vista umano hanno capito che per liberarci «dal virus produttivista e consumista»; per modificare radicalmente il nostro «immaginario» alienato e reificato, occorre superare il vigente rapporto sociale che tutto sfrutta, consuma, mercifica, inquina e disumanizza. Per mutuare Marx, Latouche vuole emancipare l’uomo «dal virus produttivista e consumista» solo «affinché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante», mentre si tratta di gettare via la catena capitalistica e cogliere i fiori vivi della Comunità Umana, oggi sempre più possibile e, al contempo, sempre più negata. È in questa presa di coscienza che, a mio avviso, si deve individuare la sola «rivoluzione culturale» in grado di ripristinare il Tempo della Speranza.
È vero: anche in questa epoca dominata dalla totalitaria legge del profitto si danno all’uomo delle alternative; la cattiva dimensione di una vita non-ancora-umana non necessariamente è un destino insuperabile. È altresì vero che l’”alternativa” proposta ormai da parecchi anni da Latouche non esce neanche di un solo millimetro da quella maligna dimensione, né sembra avere una concreta possibilità di implementazione nel quadro stesso del vigente assetto sociale. Ai miei occhi certe utopie (come la mia, ad esempio) appaiono molto più concrete e realistiche di molte chimere riformiste informate dalla concezione dei piccoli passi, ossia dall’illusione che attraverso piccole ma concrete conquiste sociali l’umanità può affrancarsi dal Moloch capitalistico.  Perlomeno la mia utopia cerca di fare i conti fino in fondo con il Dominio sociale come esso è secondo la sua intima natura, e non come «potrebbe e dovrebbe essere» in base a criteri economici, filosofici, etici e politici quantomeno discutibili e certamente ideologici. Il realismo (dei “conservatori” e dei “rivoluzionari”) non ci salverà, questo è, come si dice, poco ma sicuro.

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