La liquidazione del sistema della grande impresa
Per molti decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale la Fiat, l’Olivetti, la Pirelli, hanno costituito, nel bene e nel male, la punta avanzata del grande capitalismo italiano, sia a livello produttivo, che tecnologico, organizzativo, finanziario, che anche, infine, a quello in senso generale di tipo culturale. Vale la pena ricordare come tali gruppi, in particolare Fiat e Pirelli, siano anche state al cuore delle grande lotte operaie della fine degli anni sessanta e di quelle del decennio successivo.
Ma dobbiamo ormai constatare come la Olivetti abbia cessato da molto tempo di esistere, la Fiat sia sostanzialmente scappata verso altri lidi e forse sarà prima o poi assorbita dalla General Motors, mentre la Pirelli, dopo vicende molto tormentate durate diversi decenni, sia appena stata venduta ai cinesi.
Le storie ricordate appaiono essere il simbolo più evidente della ormai sostanziale liquidazione del sistema della grande impresa italiana. Oltre alle aziende che hanno chiuso i battenti, non appare necessario fare per i nostri lettori l’elenco, ampiamente noto, delle società cedute al capitale estero negli ultimi anni, elenco che appare molto lungo ed aperto ancora certamente a nuovi brillanti capitoli; non sarà certo il nostro amabile governo a porre degli ostacoli al fenomeno.
In tale fallimento epocale è difficile dire se le colpe maggiori stiano a livello del sistema imprenditoriale nazionale, di quello finanziario o di quello politico.
Le colpe dei padroni
A livello di sistema imprenditoriale, ricordiamo che nella storia d’Italia, come in quella europea, come ci ricordano alcuni storici, si sono verificati più volte dei “tradimenti della borghesia”. Il caso del crollo del sistema industriale del nostro paese, che in pochi anni, tra l’altro, ha perso il 25% della sua consistenza quantitativa, insieme ad una fuga quasi generalizzata dalle proprie responsabilità, oggi è uno di quelli.
Guardiamo soltanto ad alcuni aspetti relativi ai mali della nostra classe padronale. L’”accumulazione primitiva” del capitale nel nostro paese nel dopoguerra è stata fatta per una parte consistente attraverso la speculazione fondiaria ed immobiliare; si acquistava del terreno agricolo, si pagava qualcosa a qualche politico, si otteneva così facilmente la trasformazione in terreni edificabili ed il gioco era fatto. Comunque poi larga parte dei profitti, come mostrano i dati soprattutto in alcuni periodi, andavano in impieghi finanziari, o venivano spediti clandestinamente all’estero; restava relativamente poco per impieghi produttivi in patria. Molte imprese non sono state capaci così di reggere la concorrenza internazionale, rifugiandosi per sopravvivere in mercati protetti o praticando la collusione con i loro concorrenti. Di fronte ad altre imprese in vendita, poi, quasi mai hanno avuto il coraggio o la volontà di farsi avanti per rilevarle.
Un caso di scuola dei disastri della nostra classe imprenditoriale è stato quello di Marco Tronchetti Provera. Diventato grande capitalista per meriti solo matrimoniali, avendo a suo tempo sposato la figlia del padrone, si è trovato a prendere le redini del gruppo in una situazione difficile, quando il vecchio Lepoldo Pirelli aveva maldestramente, con il sostegno altrettanto maldestro di Mediobanca, cercato invano di acquisire la tedesca Continental.
Così il nuovo boss è stato costretto, per far quadrare i conti dell’operazione, a cedere una prima fetta dell’impero. Poi egli ha voluto perdere in proprio, inserendosi nell’operazione Telecom ed in quella del settore immobiliare attraverso la Prelios. Ne è uscito con le ossa rotte in entrambi i casi, contribuendo anche a mettere in gravi difficoltà la Telecom, riempiendola di debiti. E’ stato così progressivamente costretto a vendere tutti i gioielli di famiglia.
Purtroppo il grande manager esce ora ancora in piedi dall’operazione con i cinesi, perché ha ottenuto di restare amministratore delegato per qualche anno; siamo sicuri che da tale posizione egli difenderà gli interessi nazionali… quelle delle banche
A livello di sistema finanziario, vogliamo, tra l’altro, ricordare il ruolo nefasto avuto per diversi decenni dal gruppo Mediobanca, con il suo celebrato capo Cuccia, che governava sostanzialmente il mondo bancario; tale istituto ha operato per decenni, con i suoi grandi mezzi, non per aiutare a sviluppare e a modernizzare le nostre grandi imprese, ma soltanto per puntellare la presa delle grandi famiglie su di esse. Così è potuto succedere che la famiglia Pirelli, ad un certo punto, riuscisse a controllare il gruppo omonimo essendo proprietaria soltanto dello 0,7% del totale del suo capitale.
Più di recente le grandi banche, Intesa San Paolo e Unicredit, hanno investito 230 milioni di euro nella finanziaria che controlla la Pirelli, la Camfin, per permettere ancora una volta a Tronchetti Provera di tenere le redini dell’azienda con solo il 4% circa del capitale totale. E intanto mancano i soldi per finanziare le imprese piccole e medie meritevoli.
Per molti decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale la Fiat, l’Olivetti, la Pirelli, hanno costituito, nel bene e nel male, la punta avanzata del grande capitalismo italiano, sia a livello produttivo, che tecnologico, organizzativo, finanziario, che anche, infine, a quello in senso generale di tipo culturale. Vale la pena ricordare come tali gruppi, in particolare Fiat e Pirelli, siano anche state al cuore delle grande lotte operaie della fine degli anni sessanta e di quelle del decennio successivo.
Ma dobbiamo ormai constatare come la Olivetti abbia cessato da molto tempo di esistere, la Fiat sia sostanzialmente scappata verso altri lidi e forse sarà prima o poi assorbita dalla General Motors, mentre la Pirelli, dopo vicende molto tormentate durate diversi decenni, sia appena stata venduta ai cinesi.
Le storie ricordate appaiono essere il simbolo più evidente della ormai sostanziale liquidazione del sistema della grande impresa italiana. Oltre alle aziende che hanno chiuso i battenti, non appare necessario fare per i nostri lettori l’elenco, ampiamente noto, delle società cedute al capitale estero negli ultimi anni, elenco che appare molto lungo ed aperto ancora certamente a nuovi brillanti capitoli; non sarà certo il nostro amabile governo a porre degli ostacoli al fenomeno.
In tale fallimento epocale è difficile dire se le colpe maggiori stiano a livello del sistema imprenditoriale nazionale, di quello finanziario o di quello politico.
Le colpe dei padroni
A livello di sistema imprenditoriale, ricordiamo che nella storia d’Italia, come in quella europea, come ci ricordano alcuni storici, si sono verificati più volte dei “tradimenti della borghesia”. Il caso del crollo del sistema industriale del nostro paese, che in pochi anni, tra l’altro, ha perso il 25% della sua consistenza quantitativa, insieme ad una fuga quasi generalizzata dalle proprie responsabilità, oggi è uno di quelli.
Guardiamo soltanto ad alcuni aspetti relativi ai mali della nostra classe padronale. L’”accumulazione primitiva” del capitale nel nostro paese nel dopoguerra è stata fatta per una parte consistente attraverso la speculazione fondiaria ed immobiliare; si acquistava del terreno agricolo, si pagava qualcosa a qualche politico, si otteneva così facilmente la trasformazione in terreni edificabili ed il gioco era fatto. Comunque poi larga parte dei profitti, come mostrano i dati soprattutto in alcuni periodi, andavano in impieghi finanziari, o venivano spediti clandestinamente all’estero; restava relativamente poco per impieghi produttivi in patria. Molte imprese non sono state capaci così di reggere la concorrenza internazionale, rifugiandosi per sopravvivere in mercati protetti o praticando la collusione con i loro concorrenti. Di fronte ad altre imprese in vendita, poi, quasi mai hanno avuto il coraggio o la volontà di farsi avanti per rilevarle.
Un caso di scuola dei disastri della nostra classe imprenditoriale è stato quello di Marco Tronchetti Provera. Diventato grande capitalista per meriti solo matrimoniali, avendo a suo tempo sposato la figlia del padrone, si è trovato a prendere le redini del gruppo in una situazione difficile, quando il vecchio Lepoldo Pirelli aveva maldestramente, con il sostegno altrettanto maldestro di Mediobanca, cercato invano di acquisire la tedesca Continental.
Così il nuovo boss è stato costretto, per far quadrare i conti dell’operazione, a cedere una prima fetta dell’impero. Poi egli ha voluto perdere in proprio, inserendosi nell’operazione Telecom ed in quella del settore immobiliare attraverso la Prelios. Ne è uscito con le ossa rotte in entrambi i casi, contribuendo anche a mettere in gravi difficoltà la Telecom, riempiendola di debiti. E’ stato così progressivamente costretto a vendere tutti i gioielli di famiglia.
Purtroppo il grande manager esce ora ancora in piedi dall’operazione con i cinesi, perché ha ottenuto di restare amministratore delegato per qualche anno; siamo sicuri che da tale posizione egli difenderà gli interessi nazionali… quelle delle banche
A livello di sistema finanziario, vogliamo, tra l’altro, ricordare il ruolo nefasto avuto per diversi decenni dal gruppo Mediobanca, con il suo celebrato capo Cuccia, che governava sostanzialmente il mondo bancario; tale istituto ha operato per decenni, con i suoi grandi mezzi, non per aiutare a sviluppare e a modernizzare le nostre grandi imprese, ma soltanto per puntellare la presa delle grandi famiglie su di esse. Così è potuto succedere che la famiglia Pirelli, ad un certo punto, riuscisse a controllare il gruppo omonimo essendo proprietaria soltanto dello 0,7% del totale del suo capitale.
Più di recente le grandi banche, Intesa San Paolo e Unicredit, hanno investito 230 milioni di euro nella finanziaria che controlla la Pirelli, la Camfin, per permettere ancora una volta a Tronchetti Provera di tenere le redini dell’azienda con solo il 4% circa del capitale totale. E intanto mancano i soldi per finanziare le imprese piccole e medie meritevoli.
E quelle del governo
A livello di intervento pubblico, infine, i successivi governi hanno del tutto trascurato di intervenire con delle strategie lungimiranti di sostegno al settore industriale; in compenso mentre hanno rifiutato a suo tempo di sostenere i processi di sviluppo di Olivetti nel settore tecnologico, sono invece prontamente intervenuti per salvare le fabbriche di panettoni in difficoltà; essi hanno regalato per molti anni alla Fiat enormi quantità di denaro pubblico, non esigendo nulla in cambio, neanche quando il gruppo ha deciso di cambiare paese.
A partire poi dagli anni novanta si è articolato un massiccio programma di privatizzazioni che ha portato delle nostre grandi imprese che investivano, facevano ricerca, accrescevano l’occupazione, a ridurre del tutto tali attività e a contribuire così ad impoverire il paese.
Esso si rifiuta oggi di articolare una qualsiasi strategia di risposta alla fuga all’estero del controllo delle nostre imprese. C’è alla base un oltranzismo ideologico neoliberista. Ma mentre, ad esempio, in Gran Bretagna, toccata dallo stesso virus, ad un ingresso massiccio dei capitali stranieri nelle imprese locali corrisponde un altrettanto massiccio livello di investimenti delle imprese locali all’estero, da noi non c’è assolutamente alcuna reciprocità.
L’operazione in atto
Qualche cenno all’operazione di cessione in se. Il destino dell’impresa Pirelli, in mancanza anche di un intervento pubblico di qualche rilievo, era segnato da tempo; essa opera infatti in un mercato sempre più competitivo e globalizzato, detenendo relativamente deboli quote di mercato e senza risorse finanziarie per avviare una politica di sviluppo aggressivo. Senza entrare nel merito dei complessi dettagli tecnici dell’operazione, va sottolineato che quella dell’impresa che si è fatta avanti per acquisire l’azienda milanese, la ChemChina, potrebbe alla fine risultare una scelta positiva. I cinesi si distinguono normalmente, tra gli investitori esteri, per essere dei padroni abbastanza responsabili e comunque essi potrebbero essere in grado di rilanciare anche fortemente le attività del gruppo inserendolo in particolare nel vastissimo mercato cinese, come è avvenuto in altri casi del genere.
Da un altro punto di vista, si tratta del più grande investimento cinese nel nostro paese. C’è da credere che nella nostra attuale situazione tale primato sarà presto facilmente battuto.
Resta l’amaro in bocca per questo continuo stillicidio di attività il cui controllo esce fuori dal perimetro nazionale ed ubbidisce a logiche che prima o poi potrebbero venire in conflitto con gli interessi del paese e dei lavoratori.
A livello di intervento pubblico, infine, i successivi governi hanno del tutto trascurato di intervenire con delle strategie lungimiranti di sostegno al settore industriale; in compenso mentre hanno rifiutato a suo tempo di sostenere i processi di sviluppo di Olivetti nel settore tecnologico, sono invece prontamente intervenuti per salvare le fabbriche di panettoni in difficoltà; essi hanno regalato per molti anni alla Fiat enormi quantità di denaro pubblico, non esigendo nulla in cambio, neanche quando il gruppo ha deciso di cambiare paese.
A partire poi dagli anni novanta si è articolato un massiccio programma di privatizzazioni che ha portato delle nostre grandi imprese che investivano, facevano ricerca, accrescevano l’occupazione, a ridurre del tutto tali attività e a contribuire così ad impoverire il paese.
Esso si rifiuta oggi di articolare una qualsiasi strategia di risposta alla fuga all’estero del controllo delle nostre imprese. C’è alla base un oltranzismo ideologico neoliberista. Ma mentre, ad esempio, in Gran Bretagna, toccata dallo stesso virus, ad un ingresso massiccio dei capitali stranieri nelle imprese locali corrisponde un altrettanto massiccio livello di investimenti delle imprese locali all’estero, da noi non c’è assolutamente alcuna reciprocità.
L’operazione in atto
Qualche cenno all’operazione di cessione in se. Il destino dell’impresa Pirelli, in mancanza anche di un intervento pubblico di qualche rilievo, era segnato da tempo; essa opera infatti in un mercato sempre più competitivo e globalizzato, detenendo relativamente deboli quote di mercato e senza risorse finanziarie per avviare una politica di sviluppo aggressivo. Senza entrare nel merito dei complessi dettagli tecnici dell’operazione, va sottolineato che quella dell’impresa che si è fatta avanti per acquisire l’azienda milanese, la ChemChina, potrebbe alla fine risultare una scelta positiva. I cinesi si distinguono normalmente, tra gli investitori esteri, per essere dei padroni abbastanza responsabili e comunque essi potrebbero essere in grado di rilanciare anche fortemente le attività del gruppo inserendolo in particolare nel vastissimo mercato cinese, come è avvenuto in altri casi del genere.
Da un altro punto di vista, si tratta del più grande investimento cinese nel nostro paese. C’è da credere che nella nostra attuale situazione tale primato sarà presto facilmente battuto.
Resta l’amaro in bocca per questo continuo stillicidio di attività il cui controllo esce fuori dal perimetro nazionale ed ubbidisce a logiche che prima o poi potrebbero venire in conflitto con gli interessi del paese e dei lavoratori.
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