E’ un sabato del mese di marzo, intorno alle 13.30. Sono, con mio
marito, al mercato di via Sannio, ben noto a Roma per la vendita di
abiti nuovi e usati, e per essere frequentato da una clientela
molteplice per fasce di età e condizione sociale.
Mentre percorro con lui una delle corsie verso l’uscita, una scena
inaspettata ci colpisce come una frusta. Un tipo tarchiato, dall’aria
eccitata, lancia insulti razzisti contro un giovane di bell’aspetto (di
origine bangladese, poi capiremo), che sta davanti al banco di abiti
maschili nuovi presso cui lavora: silenzioso, immobile, imbarazzato. Il
tipo – egli stesso venditore, probabilmente titolare, del banco accanto –
gli urla ripetutamente, in romanesco: “Scimmia, tornatene nella
foresta!”.
Un gruppo di uomini gli sta intorno, come lui a mangiare qualcosa.
Alcuni sghignazzano, uno obietta: “Che stai a dì? Pure in Bangladesh ci
hanno i grattacieli!”. Tutti ridono, divertiti dalla nobile tenzone. Dei
clienti che passano, nessuno interviene.
Mi avvicino e grido al tarchiato di smetterla. Mi risponde, con tono
minaccioso, che è libero di dire e fare ciò che vuole. Noi due
ribattiamo che sta pronunciando ingiurie razziste, quindi punibili per
legge, e minacciamo di chiamare i vigili urbani. Lui, per niente
intimorito, si mette a sciorinare quasi l’intero repertorio di cliché
razzisti: “Ce stanno a rubà tutto: case, lavoro, donne…”; “Ahò, se
questi nun li cacciamo, i figli nostri hanno da fà i schiavi loro!”.
Mentre noi gli strilliamo che sta dicendo fregnacce da ignorante,
alcuni della sua cerchia lo giustificano: “E’ il suo modo di scherzare.
Lo fa ogni giorno…”. Mi giro verso il giovane bangladese, muto e
imbarazzato, incrocio il suo sguardo, mi avvicino. Lui spezza il
silenzio per mormorarmi, in un italiano quasi impeccabile: “Grazie,
signora, ma lasci stare. Se no, per me è peggio, dopo”.
Ci allontaniamo di poco. Quando ci voltiamo, il razzista ha quasi
finito di mangiare il suo panino. In modo ostentato spezzetta ciò che ne
è rimasto e lancia i tocchi contro i piedi della sua vittima,
gridandogli: “Tiè, magna, scimmia!”. Il bangladese non reagisce. Ci
dirigiamo verso l’uscita, voltandoci un paio di volte per gridare di
nuovo allo scalmanato di smetterla. Per tutta risposta, lui lancia con
forza la bottiglia da cui ha bevuto, piena a metà d’acqua minerale,
contro le gambe della sua vittima. La quale, pur con i pantaloni
bagnati, resta immobile dinanzi al banco, e in silenzio.
Mentre usciamo, uno del mercato, seduto su una sedia al limite tra la
corsia e il marciapiede, ci avverte sottovoce: “Lasciatelo stà, quello,
è pericoloso. E’ fascista, come tutta la sua famiglia”.
E’ l’unico a censurare quel comportamento, ma si è guardato bene
dall’intervenire in difesa della vittima. Anche lui ci lavora, in quel
mercato. Non potrebbe più se si schierasse apertamente contro “quello”.
Continuare a lavorare lì sarebbe ancor più impossibile per il giovane
bangladese, se mai osasse ribellarsi. Possiamo immaginare quale sia la
sua vita: un lavoro al nero, senza alcuna garanzia, al servizio di un
proprietario italiano che esige il massimo; probabilmente una famiglia
da mantenere in patria; l’umiliazione quotidiana e la necessità di
sopportare quel gioco sadico senza reagire.
Impotenti ci sentiamo anche noi, che pure siamo in posizione quanto
meno pari a quella del suo persecutore. Qualunque cosa facessimo di più
efficace, sarebbe pretesto per una pesante ritorsione nei suoi
confronti.
La scena cui abbiamo assistito deve essere una sorta di copione
perverso che si ripete ogni giorno, durante la pausa per il pranzo:
quando i clienti son pochi e c’è un po’ di tempo per svagarsi. E’
un’esibizione di sadismo, tanto più eccitante per il fatto che la
vittima, a causa della sua oggettiva impotenza, è costretta a recitare
la parte del masochista. Tanto più esaltante per il fatto di avere
intorno un coro compiacente che mostra di divertirsi. Anche quando uno
del coro contraddice il primo attore –“Pure in Bangladesh ci hanno i
grattacieli!” – è sempre all’interno del copione prestabilito.
Su piccola scala è una rappresentazione perfetta della dialettica razzista. Come nell’antisemitismo più classico, l’altro,
pur se bianco, istruito, gentile, è comunque l’incarnazione di una
minaccia (“Ci rubano tutto: case, lavoro, donne”) e di un complotto (“I
figli nostri faranno i loro schiavi”). Proprio perché superiore al
locutore razzista per istruzione e buona educazione, l’altro deve essere inferiorizzato come scimmia (che a sua volta è stata svalutata e degradata).
La dialettica razzista non è cosa che riguardi solo il carnefice e la
vittima, né solo il contesto circoscritto del quale ho raccontato. Nel
corso degli anni, il discorso razzista si è diffuso e legittimato come
discorso pubblico quasi normale, soprattutto grazie alla pedagogia di massa (l’abbiamo scritto mille volte), esercitata dalla Lega Nord.
Il ricorso all’epiteto insultante di scimmia, ripescato dal
repertorio del razzismo di stampo biologista, ereditato poi dal
fascismo, è stato accreditato anche da locutori istituzionali,
addirittura dal vice-presidente del Senato, Roberto
Calderoli. Nel corso del 2013, il suo utilizzo ha conosciuto
un’impennata vigorosa grazie alla persecuzione quotidiana ai danni di
Cécile Kyenge, attuata soprattutto dai leghisti, Calderoli in testa.
Così che “scimmia” si è banalizzato fino a diventare il nome dell’altro. Di qualsiasi provenienza e sembianze egli sia: negli stadi in tal modo s’insultano calciatori colombiani, brasiliani, italo-francesi, belga-marocchini, albanesi, napoletani, siciliani…
L’episodio di via Sannio, come altri simili, non attiene solo a
pratiche discorsive. E’ anche una piccola spia dell’imbarbarimento della
Capitale, della sua decadenza morale, della profonda infiltrazione nera
e mafiosa che condiziona pure le relazioni quotidiane. Il razzismo è
penetrato anche tra le classi subalterne, è arrivato nelle periferie
popolari, fomentato da gruppi di estrema destra, compresi i “fascisti
del Terzo Millennio”. Che oggi, protetti, rafforzati e ringalluzziti
dall’alleanza con la Lega Nord, moltiplicano provocazioni e raid
contro i migranti.
La riluttanza ad ammettere che il razzismo possa allignare tra le
classi popolari è ben esemplificata dalla frusta formula di “guerra tra
poveri”, abusata anche a sinistra, pure nei casi in cui è evidente che
si tratta, se mai, di guerre contro i più poveri.
Guerre asimmetriche, non solo perché di solito gli aggressori sono i
nazionali, ma anche perché essi, se pur disagiati, godono del privilegio
della cittadinanza italiana, che conferisce loro qualche diritto in
più. Nel caso del mercato di via Sannio, il privilegio, anche quanto a
posizione sociale, incoraggia il sadismo verso una vittima inerme, la
complicità dei sodali del persecutore, il silenzio e l’inerzia dei
testimoni.
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