Martedì scorso il manifesto ha
pubblicato un articolo di Jospeh Stiglitz che ha il merito di disegnare
un quadro limpido della situazione sociale ed economica dell’Unione
europea dopo otto anni di crisi, e dei pericolosi contraccolpi politici
(crisi democratica e impetuosa crescita della destra radicale) che ne
conseguono. Stiglitz insiste sulle responsabilità delle leadership europee (scrive di un «malessere autoinflitto») e punta il dito sulle «pessime decisioni di politica economica» (l’austerity)
ispirate a teorie fallimentari. È una base di partenza per una seria
discussione, e anche un utile contributo per la ricostruzione di una
pratica critica che riapra un quadro politico stagnante, imprigionato
(non solo in Italia, ma soprattutto qui da noi) in una camicia di forza
che sta rapidamente soffocando la democrazia. Con gravi responsabilità
delle sinistre socialiste, che hanno cooperato alla costruzione
dell’architettura istituzionale e monetaria di questa Europa.
C’è solo un aspetto dell’analisi di
Stiglitz che non convince e forse merita un supplemento di riflessione.
Come molti altri anche Stiglitz parla di «errori», di «modelli viziati»,
della «follia» che accecherebbe le classi dirigenti impegnate in
politiche rovinose. Questa rappresentazione suggerisce che la
costruzione europea prima, la gestione della crisi via austerity e
deflazione salariale poi, abbiano danneggiato indiscriminatamente
tutti, risolvendosi in un incomprensibile esercizio di autolesionismo
collettivo. Le leadership europee avrebbero «sbagliato» e
persevererebbero diabolicamente, nonostante gli effetti negativi delle
loro scelte danneggino tutti gli attori coinvolti: Stati, economie
nazionali, classi sociali.
Se le cose stessero così, lo storico di
domani si troverebbe di fronte a un bel dilemma. Beninteso, non sarebbe
la prima volta che un intero continente sembra imboccare senza ragioni
evidenti la strada del suicidio. La storiografia si divide ancora sulle
cause della prima guerra mondiale. Quello che fu l’evento inaugurale del
nostro mondo somiglia tanto a un gesto suicidario dell’Europa uscita
dalla belle époque, e forse non è casuale che solo dopo la guerra Freud cominci a riflettere sulla «pulsione di morte».
Ma forse nel caso dell’Unione europea e
della gestione recessiva della crisi le cose non sono altrettanto
misteriose. Forse il quadro si semplifica, almeno in parte, se,
rinunciando alla chiave semplicistica degli errori e dell’impazzimento
collettivo, si suppone che quella che stiamo vivendo sia una
transizione, e che le politiche adottate dai sovrani della troika e dai
governi nazionali più forti, Germania in testa, rientrino in un processo
governato di ristrutturazione delle nostre società: in una distruzione
creatrice, finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico
(il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e
sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un
modello oligarchico (postdemocratico) affidato alla «giustizia dei
mercati globali» e caratterizzato dal binomio povertà pubblica –
ricchezza privata. Che poi questa grande trasformazione generi anche
effetti indesiderati (la crescita del neofascismo euroscettico) non
cambia il discorso di una virgola, visto che notoriamente non tutte le
ciambelle riescono col buco.
Non è escluso che, se leggessimo questo
decennio (e gli ultimi quarant’anni) come una "rivoluzione passiva",
l’analisi di Stiglitz ne guadagnerebbe in completezza. Alcuni dati
sembrano infatti confermare la coerenza del processo e la sua pur
perversa razionalità. La crisi ha debilitato le economie nazionali,
molti paesi europei sono da anni in recessione e registrano un calo del
pil rispetto agli anni pre-crisi. Se consideriamo l’Italia al netto
della fanfara propagandistica, i principali indicatori (le curve del
pil, della ricchezza media pro capite e della disoccupazione)
denotano una situazione di coma economico e di grave regresso sociale.
Ma queste sono, come dice Stiglitz, «fredde statistiche». Dietro le
quali non si cela un paesaggio omogeneo.
La crisi (proprio come la guerra) non è
un guaio per tutti. Non lo è nel mondo, dove – ricordava l’inserto di
«Sbilanciamoci!» del manifesto del 27 febbraio – i primi 80
miliardari hanno visto aumentare la propria ricchezza del 50% negli
ultimi quattro anni. Non lo è in Italia, dove, per ragioni che non è qui
possibile analizzare ma che non hanno nulla a che fare con il caso né
con il destino, il reddito annuo dei sempre più precari lavoratori
dipendenti è calato, tra il 2000 e il 2013, di ben 8.312 euro, mentre
quello dei professionisti ne ha guadagnati 3.142. Sempre in Italia,
negli ultimi cinque anni le dieci famiglie più ricche (proprietarie di
quasi metà della ricchezza netta totale) hanno raddoppiato il proprio
patrimonio, mentre il 30% più povero della popolazione (18 milioni di
individui) ha visto il proprio ridursi quasi di un quinto. La metà più
povera degli italiani (concentrata nel Mezzogiorno) ha perso oltre l’11%
di quanto possedeva inizialmente; anche la metà più ricca ha perso, ma
solo l’8%, e con una perdita concentrata nelle classi medie, sempre più
povere.
Si potrebbe continuare a lungo, per
esempio ricordando ancora che nel 2012, mentre il pil italiano cadeva
del 2,4%, il patrimonio delle famiglie più ricche (con un patrimonio
superiore a 500mila euro) aumentava in media del 2%. Ma il quadro è
abbastanza chiaro. Lo si potrebbe riassumere in tre semplici slogan:
-sta
(ri)nascendo un’Europa delle caste, incompatibile con la democrazia;
-capire la crisi è possibile solo leggendo i mutamenti che essa produce
in termini di rapporti di forza tra le classi;
-capire non basta, e la
sinistra italiana ed europea non esisterà – se non come figurante nello
spettacolo dei teatrini istituzionali – finché resterà complice di
questa grande trasformazione e non aprirà una lotta senza quartiere
contro il nuovo (arcaico) modello sociale che, grazie alla crisi, sta
prendendo forma.
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