I media di regime fanno schifo, e va bene. Chi ne controlla i
pacchetti azionari “sollecita” i suoi dipendenti-giornalisti a
diffondere le notizie nel modo e nalla misura che più si confà agli
interessi del proprietario.
Ma dovrebbe esistere un limite deontologico oltre il
quale il giornalista professionista o il caporedattore – in realtà un
lavoratore dipendente a tutti gli effetti - anche
se ancora non se n'è reso conto e coltiva antichi immaginari
corporativo-artigianali, “ordine” compreso – non si dovrebbe mai
spingere. E ci dispiace sinceramente che lo scivolone che stiamo
analizzando sia stato compiuto sulle pagine de IlSole24Ore,
organo di Confindustria (l'insieme dei padroni, non un padrone solo)
che proprio della serietà dell'informazione economica ha fatto il suo
marchio di fabbrica.
Sul quotidiano di oggi campeggia un incredibile “L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi. Frenano le uscite dal mondo del lavoro”.
Ci siamo guardati attorno, contando gli amici, i padri e le madri, i
parenti che maledicono Dini, Maroni, Fornero, Monti fino alla settima
generazione, e tutti i componenti di tutti i governi degli ultimi venti
anni, diversi nelle parole e nelle “cene eleganti”, ma assolutamente
uguali nel trattare le pensioni come una cassaforte di liquidità in cui
mettere le mani. Semplicemente ritardando l'età pensionabile e adottando
“coefficienti” più miserabili per calcolare l'assegno pensionistico.
Abbiamo ripassato in rassegna le biografie di gente che pensava di
andare in pensione a 57 anni, con 35 di contributi, e invece sta ancora
attendendo pur avendo passato i 63 e i 40 anni di “anzianità”.
Ci deve essere un errore, ci
siamo detti, magari un refuso (“mesi” al posto di “anni”, per dire). Ma
quando ci siamo messi a leggere c'è salita la pressione.
L'articolo di Davide Colombo
parte citando dati dell'Inps, quindi veri: “Tra il 2009 e i primi due
mesi del 2015 sono andati in pensione un milione e 503.450 lavoratori,
di cui 745.495 con l'anzianità (o l'anticipo) e 757.955 con la
vecchiaia. Per loro l'età media non è mai stata più alta di 62 anni e
sei mesi. In sei anni dunque - tenendo conto del fatto che il dato di
inizio 2015 non è ancora adeguatamente popolato - l'età media effettiva
di pensionamento è aumentata di sette mesi e una settimana”.
Cosa c'è di sbagliato? Che si
tratta di dati a consuntivo, che prendono in considerazione soltanto
coloro che in pensione sono riusciti comunque ad andarci, senza tenere
peraltro conto di tutto il settore pubblico (come ammette lo stesso
articolista), e tantomeno di tutti coloro che – per effetto delle
“riforme pensionistiche” degli ultimo 20 anni – hanno dovuto vedere il
loro “ritiro” allontanarsi di anni. Per dirne una: gli esodati, in
questo calcolo, dove sarebbero finiti? Tra gli attuali pensionati, ovvio
(sono rimasti sospesi tra lo scadere di ammortizzatori sociali chiesti
dalle aziende e l'allungamento dell'età pensionabile). E infatti ci
sono quelli per cui c'è stato un “intervento riparatore”, mentre mancano
quelli per cui ancora non è stato fatto niente.
Nel corso dell'articolo, poi,
Colombo dettaglia meglio le diverse posizioni, dà conto dello “scalino”
creato da Maroni e Fornero, in qualche misura fa intuire che la
situazione sociale effettiva è assai meno rosea di quanto detto nel
titolo; spiega anche gli effetti distorsivi provocati dalle norme più
punitive, che hanno convinto a "fuggire" - rimettendoci qualcosa, ma
meno di quanto non sarebbe accaduto restando al lavoro - molti
lavoratori "maturi". Ma ormai la frittata era fatta. E il titolista,
invece di arivare alla fine del pezzo, ha preso la frase che più si
confaceva agli interessi dell'azionista. E dunque vai con quell'infame “L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi” piuttostoche con il più corretto “tot milioni di persone non sono più potute andare in pensione”. Non era neanche difficile: in fondo basta specificare davvero cosa significa "Frenano le uscite dal lavoro"...
Chi possiede anche soltanto un minimo di conoscenza,
neanche “scientifica”, del mondo del lavoro, sa che la “generazione del
boom” - i nati fino all'inizio degli anni '60,
insomma gli over 55 – ha avuto l'indubbia fortuna di crescere in
un'economia mista (pubblica e privata), in piena esplosione di crescita
da ricostruzione” dopo la guerra, in cui si trovava dunque lavoro con
relativa facilità; al punto che non è difficile trovare oggi dei 58enni
che hanno abbondantemente superato i 40 anni di carriera lavorativa
regolare, “con i contributi” si diceva una volta. Tutta questa gente è
stata attraversata peraltro da un ciclone di crisi e di cambiamento
delle regole pensionistiche che hanno creato disparità inqualificabili
(potersi ritirare o no per una questione di giorni o settimane di
differenza, come accaduto ai “quota 96” della scuola) e situazioni
insostenibili (gli “esodati” sono solo una delle tante figure di questa
scena).
Se si eliminano dal conteggio tutti i “bloccati sul lavoro”
(o più probabilmente in cassa integrazione o in mobilità), si possono
truccare i calcoli in qualsiasi modo. Senza neppure considerare la
condizione disperante cui sono state consegnate le nuove generazioni (di
fatto: chiunque abbia oggi meno di 55 anni), che andranno - forse - in
pensione molto più tardi e con ancora meno soldi.
Perché viene fatto?
“Quella sull'età effettiva di pensionamento è una delle statistiche prese in esame dai comitati tecnici della Commissione europea (a partire dal Working group on ageing, population e sustainability) e dall'Ocse per verificare l'impatto delle riforme. Sono
dati su cui riflettere prima di introdurre le nuove misure, di cui
tanto si discute, per favorire una maggior flessibilità in uscita”.
E qui tutto diventa più chiaro. Si devono mettere le
mani su diversi problemi convergenti alle soglie del nodo
pensioni/ammortizzatori sociali. Ci sono gli ultrasessantenni espulsi
dal lavoro ma che non hanno i requisiti per la pensione; c'è la
necessità di far uscire i più anziani e lasciare posto ai giovani, ma
senza gravare l'Inps di oneri che si vorrebbero invece diminuire
(basterebbe lasciar andare al loro destino i dirigenti d'azienda, la cui
“Cassa di previdenza” è fallita a causa degli assegni troppo ricchi e
che sono stati girati all'Inps senza alcuna riduzione di trattamento; a
spese nostre, insomma).
La proposta che più ottiene ascolto in sede
governativa è quella di favorire l'uscita volontaria di chi è vicino
comunque all'età del ritiro, ma accollando a chi sceglie di andarsene
prima il costo dell'operazione. Col vecchio metodo delle
“penalizzazioni”, sia rispetto al calcolo della
liquidazione (col solo “contributivo”, anziché con sistema misto per
quanti avevano già 18 anni di anzianità lavoratica nel '95, all'epoca
della “riforma Dini”), che alla determinazione dell'assegno mensile. A
spese nostre, insomma...
E allora si capisce benissimo la “caduta di stile” del titolista de Il Sole...
*****
L'età della pensione? In sei anni è salita solo di sette mesi. Frenano le uscite dal mondo del lavoro
di Davide Colombo
Le nuove regole previdenziali introdotte negli ultimi anni, dalle
finestre mobili di Maurizio Sacconi ai più stretti requisiti di età e
contribuzione di Elsa Fornero, hanno avuto un effetto piuttosto modesto
sull'età di pensionamento effettiva degli italiani se si guarda alla
media generale alla decorrenza del primo assegno Inps. Tra il 2009 e i
primi due mesi del 2015 sono andati in pensione un milione e 503.450
lavoratori, di cui 745.495 con l'anzianità (o l'anticipo) e 757.955 con
la vecchiaia. Per loro l'età media non è mai stata più alta di 62 anni e
sei mesi.
In sei anni dunque - tenendo conto del fatto che il dato di inizio
2015 non è ancora adeguatamente popolato - l'età media effettiva di
pensionamento è aumentata di sette mesi e una settimana. L'età media
all'incasso del primo assegno Inps, in particolare, è aumentata di tre
anni per le pensioni di vecchiaia (dai 62,5 del 2009 ai 65,6 del 2014) e
di quasi un anno per quelle di anzianità (dai 59 anni ai 59,9 anni).
I numeri sono contenuti nelle tabelle di calcolo sull'età effettiva
di pensionamento nelle gestioni principali monitorate dall'Inps e ancora
in fase di elaborazione per diverse categorie - a partire dal pubblico
impiego che qui è escluso - e che Il Sole-24 Ore è in grado di
anticipare. Quella sull'età effettiva di pensionamento è una delle
statistiche prese in esame dai comitati tecnici della Commissione
europea (a partire dal Working group on ageing, population e
sustainability) e dall'Ocse per verificare l'impatto delle riforme. Sono
dati su cui riflettere prima di introdurre le nuove misure, di cui
tanto si discute, per favorire una maggior flessibilità in uscita.
I numeri in questione comprendono anche le pensioni supplementari, i
prepensionamenti, gli assegni di invalidità trasformati al
raggiungimento dell'età di vecchiaia e le pensioni erogate agli ex
esodati. Di questi ultimi, secondo l'aggiornamento Inps del 20 marzo,
già per 69.693 sono state liquidate le pensioni, a fronte delle 109.278
certificazioni su un totale di 170.230 soggetti salvaguardati.Ad
abbattere l'aumento di età effettiva ci sono le numerose deroghe
previste dal nostro ordinamento e che consentono il ritiro anticipato: i
lavoratori usuranti, i marittimi, i minatori, le diverse gestioni
speciali (dai lavoratori del trasporto alle ferrovie al volo, dove l'età
di pensionamento è di 60 anni). E c'è l'effetto del regime sperimentale
e transitorio riservato alle lavoratrici dalla riforma Maroni (legge
243/2004) che prevede il possibile ritiro anticipato con 35 anni di
contributi a 57 anni di età se dipendenti e 58 se autonome. Ma si tratta
di pochi casi.
A fare la differenza vera hanno continuato però ad essere i
pensionamenti anticipati degli uomini, che con molta più facilità delle
donne raggiungono il requisito contributivo minimo (42 anni e un mese
nel 2012 gradualmente innalzato di un mese nel 2013 e di un altro mese
nel 2014 oltre ai tre mesi della speranza di vita) grazie a carriere
lavorative più lunghe e meno discontinue. Basta guardare le cifre: tra
il 2010 e il 2014 si sono pensionati con l'anzianità (o l'anticipata)
443.429 uomini e solo 173.924 donne.Gli effetti più significativi delle
nuove regole si osservano poi sul numero dei pensionamenti. Se i dati
relativi al 2012 non si possono includere nella fase transitoria
post-riforma Fornero perché sono in larga parte persone che avevano
maturato i requisiti nel 2011 e sono andati in pensione con la finestra,
nel 2013 lo scalino c'è: le pensioni di vecchiaia scendono da 130.727
dell'anno prima a 92.993 e quelle di anzianità da 115.674 a 99.958.
Nell'anno dello scatto in avanti di tre mesi dei requisiti di età
legati all'aspettativa di vita sono state liquidate oltre 53mila
pensioni in meno. E la discesa è proseguita nel 2014, con altre 40mila
pensioni in meno dell'anno prima. Un “effetto blocco” generato dalla
riforma Fornero, che è stata improvvisa e che nel 2012 ha inglobato la
cosiddetta finestra mobile nell'età di pensionamento. A questo stop si
contrappone invece il picco dei 53.601 pensionamenti in più del 2010 (in
totale furono 339.955, il dato più elevato nei sei anni, contro i
286.354 del 2009). Ha avuto ragione chi, in questo caso, aveva previsto
un “effetto fuga” determinato dalla manovra che ha introdotto (dal
gennaio 2011) le finestre “mobili” sia per pensioni ordinarie di
vecchiaia che per pensioni di anzianità, con uno slittamento di 12 mesi
per i lavoratori dipendenti e di 18 per gli autonomi.
Una “fuga” che ha condizionato i previsti effetti di risparmio e di
aumento dell'età di pensionamento complessivo.Tornando all'età effettiva
che è salita poco - con buona pace di quanti si sono allarmati per
l'annuncio del futuro adeguamento alla speranza di vita che farà
crescere di quattro mesi l'età per la vecchiaia dal gennaio prossimo (66
anni e 7 mesi per gli uomini) - dalle tabelle esce infine la conferma
di un trend che sarà più evidente nel 2018, anno di passaggio a regime
degli ultimi requisiti: allora le pensioni di vecchiaia saranno un po'
più numerose e l'età effettiva delle donne potrebbe superare quella
degli uomini. Insomma, oltre ad avere più difficoltà nel concludere una
carriera lavorativa piena, le donne dovranno pagare lo scotto di un
pensionamento più ritardato.
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