Il
termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è quasi
certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è
parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di
crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi religiosa.
Di un’ulteriore e possibile declinazione non si è parlato o si è
parlato molto poco, quasi incidentalmente, o, addirittura non si è
voluto parlare: di crisi di civiltà
Una crisi di civiltà?
Il termine forse più usato e abusato negli anni o decenni passati è
quasi certamente “crisi”. Lo si è declinato in un’infinità di modi. Si è
parlato di crisi politica, di crisi economica, di crisi finanziaria, di
crisi ambientale, di crisi sociale, di crisi morale, di crisi
religiosa; di crisi di nervi, verrebbe da aggiungere. Di un’ulteriore e
possibile declinazione non si è parlato o si è parlato molto poco, quasi
incidentalmente, o, addirittura non si è voluto parlare: di crisi di
civiltà.
Eppure, è forse questa la prospettiva che ci consentirebbe di
considerare e di comprendere più in profondità le tante crisi che ci
angosciano e, più in generale, le dinamiche sociali, economiche,
politiche lungo le quali sta scivolando la nostra civiltà. Il grande
antropologo Ernesto De Martino vi avrebbe forse trovato la materia per
delineare un’ennesima “apocalisse culturale”.
Forse, come l’ambiente fisico in cui viviamo, anche l’ambiente
sociale è soggetto all’alternanza di ere calde o temperate in cui la
vita fiorisce e si espande e di ere glaciali in cui la vita si ritira e
combatte duramente per conservarsi. La sensazione cui vorrei offrire il
supporto di qualche riflessione più accurata è che ci stiamo avviando
verso una sorta di glaciazione sociale, perché stanno venendo meno
alcune delle spinte vitali, espansive, che hanno sospinto la precedente
fioritura.
Parlando di quella che ha definito la “grande stagnazione” del
proprio paese, un economista americano, Tyler Cowen, ha sostenuto che la
società americana, negli ultimi tre secoli, si è mangiata tutti i
“low-hanging fruits”, i frutti a portata di mano, che quella terra e la
sua storia fortunata gli avevano offerto. Forse è una considerazione che
vale non solo per gli americani, ma per noi tutti e descrive bene la
natura dello sviluppo economico che ha fatto apparentemente prosperare
le nostre società (occidentali).
Sono finiti i “frutti a portata di mano”
Abbiamo a lungo sfruttato i frutti di una terra generosa, che ci ha
offerto cibo e materie prime per alimentare un grandioso sviluppo delle
nostre capacità economiche e della nostra ricchezza individuale e
collettiva. Dalle viscere della terra abbiamo scavato una quantità
pressoché incommensurabile di energia, che ha moltiplicato le nostre
capacità e possibilità. L’offerta era così abbondante che appariva
illimitata, suscitando l’illusione, incarnata dalla cultura del
progresso, che il modello di crescita della ricchezza che avevamo
individuato, sotto il nome di capitalismo, potesse rappresentare il
destino eterno dell’umanità.
Ma non ci siamo limitati ad arraffare in maniera sconsiderata i
frutti a portata di mano. Abbiamo anche posto le basi per cambiamenti di
sistema irreversibili, suscettibili di intaccare, se non distruggere,
le fondamenta materiali su cui poggia la nostra civiltà e quelle ancora
più fragili su cui abbiamo eretto la convivenza sociale.
Questo è il rischio spaventoso cui lo sviluppo della nostra civiltà
sta esponendo la società degli uomini. È il rischio faustiano cui
l’imponente sviluppo della scienza e delle forze produttive innescato
dalla rivoluzione industriale sta esponendo il nostro ambiente fisico e
di conseguenza anche quello umano. Siamo ormai entrati nell’antropocene,
come l’hanno definito alcuni studiosi, un’era nuova e sconvolgente che
proietta la nostra sopravvivenza in un quadro futuro che sovverte
l’ordine fisico che ha finora accompagnato e sostenuto il cammino della
civiltà umana. Per la prima volta nella storia del nostro pianeta,
l’azione dell’uomo, che pure ha sempre inciso, trasformandolo,
sull’ambiente naturale, senza peraltro turbarne gli equilibri sistemici,
è oggi in grado di mutare gli assetti dell’ecosistema terra,
addirittura di governare e trasformare i processi naturali. Fino a oggi
era l’uomo, in linea di massima, ad adeguarsi alle dinamiche naturali,
tentando di piegarle ai propri fini, oggi è la natura che deve provare
ad adeguarsi alle dinamiche messe in moto dall’uomo. È un rovesciamento
radicale del rapporto uomo-natura, che stenta a trovare un modo
altrettanto radicale di cambiare i nostri comportamenti e i modi in cui
pensiamo e progettiamo l’evoluzione dell’ambiente terrestre.
La dissipazione del capitale sociale
Il capitalismo non è solo un grande divoratore di risorse ambientali;
è anche un grande, spietato, divoratore di risorse sociali e umane.
Abbiamo attinto, senza nemmeno rendercene conto, all’immenso
patrimonio sociale e culturale accumulato nel corso di millenni dalla
nostra civiltà. Quello che alcuni sociologi ed economisti, con felice
intuito, hanno chiamato “capitale sociale”, ovvero quell’insieme
complesso e variegato di soluzioni oggettivate in istituzioni o trasfuse
nelle abitudini, nei modi di sentire e di comportarsi delle persone,
che hanno costituito la solida intelaiatura della nostra civiltà,
garantendo la coesione sociale e la convivenza pacifica tra i membri di
una società composta di estranei. Il capitale sociale rappresentava il
patrimonio delle esperienze ereditate da millenni di sforzi e di
ricerche per rendere migliore la vita dell’umanità. Esso ha costituito
il fondamento di conoscenze, di capacità, di relazioni sociali, su cui è
stato possibile costruire il grande progetto illuministico di un
progresso continuo e illimitato delle capacità umane. Il capitale
sociale è l’elemento costitutivo della qualità della vita.
Quel patrimonio è stato dilapidato. Più esattamente, è stato
sacrificato sull’altare di quel moloch della modernità che è la crescita
economica. Abbiamo affidato il nostro destino a un meccanismo potente
quanto devastante che va sotto il nome di capitalismo. Esso ha rimesso
in gioco, potenziandoli e in certa misura sublimandoli, gli impulsi
primordiali che facevano sì che ogni uomo fosse un lupo per l’altro
uomo: homo homini lupus, come segnalava Hobbes. L’egoismo,
l’affermazione di se stessi, la conquista del potere sopra gli altri, la
facoltà di disporre di tutto ciò che è a portata di mano per soddisfare
i propri bisogni e le proprie voglie: questo groviglio di pulsioni che
definiscono biologicamente la natura dell’uomo è stato trasposto, e solo
in parte sublimato, nel grande gioco dell’economia. La società ha
ricevuto in cambio la crescita economica, la soddisfazione di una
quantità crescente di bisogni, l’apertura, spesso illusoria, di nuove
prospettive di vita e di esperienza, ma ha dovuto impegnare quello che
di più prezioso era riuscita a mettere insieme in millenni di esperienze
traumatiche, di sofferenze, di lotte, di guerre: la convivenza pacifica
fra individui che non si conoscono. L’individualismo esasperato che il
capitalismo inevitabilmente promuove, perché nel grande gioco
dell’economia gli uomini vincono solo in quanto individui, ha poco a
poco corroso il tessuto sociale, esaltato l’estraneità che era stata
appena domata, santificato l’egoismo contro la com-passione.
I risultati di questa devastazione del patrimonio più intimamente
connesso con l’idea di civiltà, del capitale sociale, sono ormai
solidamente installati all’interno degli ambienti urbani e si stanno
diffondendo esponenzialmente. Poche generazioni saranno sufficienti a
distruggere i risultati del faticoso quanto grandioso percorso di
convivenza che ha impegnato centinaia di generazioni di uomini.
Il degrado dell’ambiente fisico e sociale delle nostre metropoli ne è
l’esempio più vivo e drammatico. Da quando, non molti anni fa, si
cominciò a notare l’emergere di un sempre più diffuso “livore
metropolitano” (Dahrendorf), sintomo di una disgregazione già avanzata,
del tessuto sociale, il processo di disfacimento ha ormai raggiunti
livelli probabilmente irreversibili. Tutte le gradazioni dell’estraneità
sono state sperimentate. Dall’indifferenza all’aggressività,
dall’individualismo esasperato allo spregio dei beni comuni. Lo spazio
pubblico, sia nella sua accezione virtuale che in quella concreta, si è
ristretto fino a scomparire, trasformato sempre più spesso nel luogo di
nessuno, una sorta di enorme discarica del malessere metropolitano.
Tutto questo in un ambiente economico dominato e plasmato dalla crescita
drammatica e, in apparenza, inarrestabile, delle disuguaglianze di
reddito e di ricchezza. Il mondo sembra appartenere a quelli che hanno
di più, mentre quelli che hanno di meno sembrano scivolare sempre più in
basso.
Certo, sarebbe un errore non vedere e non apprezzare quei nuclei di
persone attive che, pur in minoranza, si sforzano tenacemente di tenere
in mano il filo della coesione sociale. Ma sarebbe altrettanto un errore
non vedere la fragilità e la precarietà di questi tentativi, sempre sul
punto di essere spazzati via dal vento dell’indifferenza.
La società degli estranei
L’umanità ha impiegato migliaia di anni per riuscire a far convivere
in pace milioni di sconosciuti. C’è voluto un tempo infinito perché,
dopo la fine dell’ultima era glaciale, più di 10.000 anni fa, quel
cugino stretto degli scimpanzé e dei bonobo da cui discendiamo si
risolvesse ad abbandonare il suo atteggiamento violento, aggressivo,
diffidente nei confronti degli altri e decidesse di dar vita a
insediamenti stabili dove allevare animali e coltivare piante. L’uomo,
Homo sapiens sapiens è così diventato “l’unico animale che si è
impegnato in una complessa divisione di compiti fra membri della stessa
specie non collegati geneticamente… La natura non conosce altri esempi
di una simile, complessa, mutua dipendenza fra estranei” (Seabright
2004). Per arrivarci, gli uomini hanno dovuto modificare i loro
comportamenti primordiali innati, hanno dovuto inventare un linguaggio
di segni, a partire dal sorriso, per significare la deposizione
dell’aggressività e la disposizione a cooperare. Hanno creato
istituzioni sempre più complesse per articolare e tutelare le relazioni
fra di loro, per contenere la violenza, per condividere fini. Quella
fiducia che, malgrado l’attuale degrado, caratterizza ancora l’ambiente
sociale in cui viviamo rendendo possibili quelle innumerevoli
interazioni fra estranei che riempiono la nostra vita di tutti i giorni
non è un dato primario, “naturale”, bensì il frutto consolidato di
un’infinità di atti di scambio e di cooperazione.
La globalizzazione sta portando alle estreme conseguenze, alla sua
massima estensione, questo lungo processo di costruzione di un’unica
umanità planetaria. Era inevitabile che questo processo avanzasse in
mezzo a timori, incomprensioni, reazioni difensive, di ripulsa. Era ed è
inevitabile che esso richieda l’elaborazione di strumenti culturali
aggiuntivi, di nuove forme istituzionali per renderlo accettabile e
condiviso. Ma lo scenario che oggi ci troviamo di fronte è diverso e più
preoccupante. È come se, in prossimità del raggiungimento di questo
approdo supremo della nostra civiltà, le tensioni che questa
trasformazione provoca fossero sul punto di far saltare l’intero
processo, precipitando l’umanità in una sorta di caos sociale
primordiale. Il ritorno prepotente della violenza, del terrore, della
sopraffazione, della guerra, come strumenti di regolazione dei rapporti
fra estranei e, per converso, il rinserramento nelle identità ataviche a
tutela di interessi materiali che atavici non sono, bensì frutti
avvelenati della modernità, la resurrezione prepotente del nemico che è
“legittimo” annientare: sono tutti sintomi inquietanti di un regresso
della nostra civiltà, capace di metterne a rischio la sopravvivenza.
L’esaltazione della disuguaglianza e l’ossessione per il diverso non ne
sono che una delle conseguenze più insidiose e distruttive.
Un nuovo paradigma?
I frutti non sono più a portata di mano, non basta sollevare il
braccio e afferrarli per poterne godere. I frutti che rimangono sono
ormai in alto e forse non sono accessibili a tutti. Occorre attrezzarsi
per coglierli e farli fruire all’intera umanità. Occorre un nuovo
paradigma tecnologico, che consenta di condividere i progressi, e un
nuovo patto sociale che includa l’ambiente in cui viviamo e contrasti la
crescente polarizzazione della società. La difficoltà crescente nel
cogliere i frutti dello sviluppo ha fatto emergere con forza la nozione
di limite, che è connaturata alla condizione umana. Una nozione che la
sapienza antica ha riconosciuto per tempo, facendone il fulcro di una
concezione realistica quanto pessimistica dell’esistenza umana, ma che
una superba quanto vana ideologia del progresso ha tentato di cancellare
nelle nostre mentii senza riuscire a cancellarla nella materialità del
mondo fisico. Il senso del limite deve tornare a ispirare i nostri
comportamenti, a dettare le regole della convivenza. L’economia è
l’ambito principale in cui va affermato.
I nostri costrutti mentali cambiano molto lentamente, e ancora più
lentamente cambiano i nostri comportamenti, perché prima che i mutamenti
che si verificano nell’ambiente provochino reazioni stabili e durature
occorre che vengano sperimentati ripetutamente e che ne venga pienamente
percepita la portata. Questo avviene, per lo più, sotto l’influenza di
eventi traumatici che ci toccano direttamente. Questo vale sia per
l’ambiente fisico che per l’ambiente sociale. È richiesto un senso di
responsabilità più maturo ed evoluto, che contempli non solo il
riconoscimento e il rispetto dell’altro, ma di tutto ciò che ci circonda
sulla nostra terra. Compito immane, per istituzioni che ancora non ci
sono, in un mondo in cui la civiltà sembra aver perso la bussola. Siamo
cresciuti nell’illusione di essere diventati i padroni del mondo, di
poter disegnare a nostro piacimento il mondo fisico e quello sociale.
Non è così. Possiamo solo provarci, interagendo, ma senza la certezza di
quello che sarà il risultato delle nostre azioni, che sarà sempre anche
il risultato di circostanze che non conosciamo e non controlliamo.
Possiamo, e dobbiamo, partire dalla cura e dal rispetto del nostro
territorio e della nostra comunità, dalla consapevolezza ritrovata dei
limiti non valicabili, dalla riscoperta dei sentimenti e dei
comportamenti che ci fanno essere animali sociali, dobbiamo tornare a
fidarci degli estranei; ma la strada è lunga e incerta e il tempo breve.
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