Altro che effetti espansivi sulla crescita. Come sostenuto più volte su Economia e Politica, in assenza di una ripresa degli investimenti pubblici il quantitative easing
della BCE non servirà a rimettere in moto l’economia. Sarà piuttosto
uno strumento con il quale le autorità monetarie potranno imporre nuovi
tagli e riforme strutturali.
La Banca Centrale Europea ha dato avvio al massiccio programma di acquisti di titoli sui mercati finanziari detto Quantitative Easing
(QE). Si tratta di una misura di portata storica, per le dimensioni del
programma – circa mille miliardi di euro – ma anche e soprattutto per
il fatto che esso coinvolge i titoli del debito pubblico europei: la
banca centrale ne acquisterà quote consistenti, in controtendenza con
un’impostazione della politica monetaria incentrata sull’indipendenza
dell’autorità monetaria da quella fiscale. Una mossa che ha diviso gli
analisti. Da un lato chi, con Scalfari, descrive il governatore della
BCE come il “motore della crescita europea”, un eroe moderno che “mette
l’economia al servizio del bene comune” – spesso rappresentato in
contrapposizione al governatore della Bundesbank, arcigno sostenitore
del rigore. In effetti, lo stesso termine “quantitative easing” allude
ad una misura che accompagna una politica fiscale espansiva, allentando
quei vincoli di natura monetaria che, in assenza di un aumento della
liquidità, ne ostacolerebbero l’operato. Entro questa lettura,
l’eurozona appare animata da un conflitto tra due opposti indirizzi di
politica economica: crescita vs rigore, ovvero Draghi vs Weidmann, con il primo che incarnerebbe lo spazio politico per condurre l’Europa fuori dal paradigma dell’austerità.
La realtà appare però, ad un’attenta
analisi, più complessa. L’attuale contesto politico europeo impone ai
governi misure fiscali restrittive. Non vi è alcun margine per
incrementi di spesa pubblica e, conseguentemente, non vi è alcun ruolo
per una politica di QE: semplicemente, non c’è nessuna espansione della
spesa pubblica da accompagnare. Sul versante opposto del dibattito
troviamo quindi alcuni economisti che prevedono un’efficacia limitata
della manovra (Cesaratto su il manifesto) e arrivano addirittura ad interpretarla come l’ennesimo regalo ai mercati finanziari (Moro su ‘Economia e politica’).
Mettendo in luce un inquietante nesso tra la discussa manovra della
BCE e le più recenti evoluzioni della supervisione bancaria europea,
proverò a fornire ulteriori elementi per una lettura critica della
misura varata da Draghi.
All’interno del percorso di integrazione
monetaria, la supervisione bancaria unica intende imporre alle banche
private dell’eurozona regole uniformi con l’obiettivo, tra gli altri, di
recidere il “nesso diabolico” tra banche e governi: i bilanci delle
banche sono oggi pieni di titoli pubblici, cosicché una crisi del debito
pubblico si trasmette immediatamente al sistema bancario. Per evitare
ciò, sono state propostealcune regole mirate a limitare la quantità di
titoli pubblici che ciascuna banca privata potrà detenere. In primo
luogo, i titoli pubblici saranno progressivamente considerati, alla
stregua di tutte le altre attività finanziarie, titoli rischiosi: in
questo modo si impone alle banche di accantonare, diversamente da quanto
avviene oggi, capitale di base a fronte degli investimenti in titoli
pubblici, che perdono così parte della loro convenienza. In secondo
luogo, quei titoli non sarebbero più considerati ‘liquidi’ a prescindere
dal loro rating: verrà così meno un ulteriore incentivo a
sottoscrivere quei titoli, quello che proveniva dalla mera necessità di
ottemperare ai vigenti vincoli di liquidità. Infine, si sta
predisponendo un tetto alla quantità di titoli pubblici di ogni singolo
stato che ciascuna banca potrà detenere, in analogia con il limite del
25% del capitale di base che già si impone ai prestiti verso i debitori
privati. L’insieme di queste misure avrà l’effetto di indurre una massa
di vendite di titoli del debito pubblico che Fitch stima – in un
rapporto del novembre 2014 citato dal Financial Times – in poco
più di mille miliardi di euro: un ordine di grandezza identico al QE
promosso da Draghi, tanto che la BCE viene considerata come il naturale
compratore dei titoli di cui le banche private sono costrette (dalla
stessa BCE, nella sua funzione di supervisore del sistema bancario) a
liberarsi.
Gli acquisti della BCE sono dunque il
necessario complemento alle vendite imposte alle banche private dalla
nuova supervisione bancaria. Due facce della stessa medaglia: senza il
QE quelle vendite scatenerebbero infatti una tempesta finanziaria, con i
tassi alle stelle ed il crollo delle quotazioni dei titoli rimasti nei
bilanci delle banche. Più che come una manovra di QE, la misura discussa
si presenta allora come una “grande abbuffata” di titoli pubblici da
parte della BCE, che a valle del programma si troverà in pancia quote
consistenti dei debiti pubblici europei. Da dove proviene tutto questa
appetito?
Il cosiddetto (a questo punto) QE segna la
transizione verso un nuovo assetto di rapporti tra Stato, mercati
finanziari e banca centrale. In virtù dei limiti imposti dalla
supervisione bancaria, viene sensibilmente depotenziata la capacità dei
settori bancari nazionali di sostenere le emissioni di titoli pubblici
dei rispettivi governi, come avvenuto negli anni della crisi: Fubini (Repubblica,
22 novembre 2014) ci spiega che “le banche sono di fatto scoraggiate
dal caricarsi sempre più di Btp, come han fatto fin qui aiutando il
Tesoro dalla crisi del debito. E il messaggio è arrivato: gli istituti
italiani hanno in bilancio quasi 400 miliardi di bond del governo di
Roma, una cifra record e senza paragoni in Europa. Ma quest’anno, per la
prima volta, hanno iniziato a ridurre l’esposizione (di 8,6 miliardi).”
Il giornalista si prefigura, giustamente, “il declino (già iniziato in
questi mesi) del modello italiano tradizionale, quello nel quale gli
istituti cooperano con il governo investendo in dosi sempre più massicce
di titoli del debito pubblico. A partire dal prossimo anno, sempre di
più il Tesoro dovrà trovare compratori diversi per i suoi Btp, Cct o Ctz
e le altre obbligazioni dello Stato.” Quello che il giornalista di Repubblica
non dice è che il compratore c’è già: si tratta dell’autorità
monetaria, che contestualmente ha varato un programma di acquisti di
titoli pubblici tale da assorbire i titoli messi sul mercato dalle
banche private.
Il programma di acquisti della BCE può
essere dunque considerato come una sorta di “accumulazione originaria”
di titoli pubblici, un processo che trasformerebbe l’autorità monetaria
nel principale creditore di tutti i governi dell’eurozona: da quella
posizione, la banca centrale potrà esercitare un’influenza sulle
economie europee ben superiore a quella formalmente prevista. Infatti,
la stabilità finanziaria di ciascun paese dipenderà in maniera cruciale
dalla disponibilità della BCE a rifinanziare, di volta in volta, il
debito pubblico in scadenza. Nell’attuale contesto tale disponibilità
risulta rigidamente subordinata alla disciplina fiscale: precisi
meccanismi (le Transazioni Monetarie Definitive, OMT, ed il Meccanismo
Europeo di Stabilità, ESM), informati al principio della condizionalità,
fanno sì che i prestiti vengano concessi solo ai governi che adottano
fedelmente le politiche richieste dalla Commissione Europea. Con buona
pace della romantica contrapposizione Draghi/Weidmann, tra una possibile
Europa keynesiana e quella monetarista oggi ripiegata sul rigore,
l’austerità viene così posta dall’autorità monetaria come condizione
della stabilità finanziaria. Chi non fa quel che “chiede l’Europa” perde
automaticamente la copertura della banca centrale e, in ragione del
nuovo assetto, viene esposto alla speculazione finanziaria. Proprio come
avviene oggi in Grecia e, probabilmente, con gli stessi identici
risultati: non esattamente una “economia al servizio del bene comune”.
Piuttosto, tornano alla memoria le parole di Fernando Vianello (La Moneta Unica Europea,
2005) sul processo di integrazione monetaria europea: “La politica
monetaria (e del cambio), vista un tempo come qualcosa che si pone al
servizio della società – qualcosa che asseconda la libera determinazione
dei comportamenti sociali, che tiene conto delle caratteristiche della
struttura produttiva e della stratificazione sociale, del grado di
conflittualità delle relazioni industriali, dell’esistenza o meno di
aree depresse o di un distacco d’industrializzazione da colmare – è ora
concepita come qualcosa che detta legge alla società, che fornisce un
quadro di riferimento astratto entro il quale il corpo vivente della
società deve comprimersi, come in una camicia di forza, non importa a
quali costi.” Un’immagine, quella della camicia di forza, che ben
descrive la natura del programma di acquisti di titoli pubblici varato
dalla BCE: non una politica espansiva ma, al contrario, una vera e
propria stretta monetaria.
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