Quella parte del gruppo dirigente della Cgil che dissente da Maurizio Landini
per la costituzione di una Coalizione sociale — ancorché lo
faccia per comprensibili ragioni — dovrebbe farsi un esame di
coscienza. Viene infatti spontaneo chiedersi, di fronte agli sforzi
del segretario della Fiom di porre argini a una situazione di estrema
gravità di tutto il mondo del lavoro, quali iniziative abbia preso,
quali proposte di mobilitazione e di lotta abbia avanzato negli
ultimi sette terribili anni la Cgil.
Perché, bisogna ricordarlo, il periodo che va dal 2008 ad oggi, non è stato di ordinaria storia del mondo.
L’Italia, se escludiamo le due guerre mondiali, non aveva mai conosciuto,
nella sua storia unitaria, una così estesa riduzione della sua base
produttiva, un crollo così rovinoso dell’occupazione, un dilagare
continuo e senza argini della povertà e della disperazione sociale.
Eppure, un osservatore straniero che fosse vissuto in Italia in
questi anni difficilmente avrebbe immaginato che nel nostro paese
opera uno dei più antichi e potenti sindacati dell’Occidente. Ma,
senza voler qui aprire un infinito rosario di recriminazioni,
occorrerebbe almeno ricordare che l’inerzia e il silenzio del
sindacato hanno non poco favorito l’iniziativa dei novatori.
Renzi si è presentato come il difensore dei giovani e dei precari, con l’iniziativa del Jobs Act. Può
bastare uno sciopero generale a fermarlo? Chi ha permesso che
l’iniziativa di riforma del mercato del lavoro venisse ispirata dalla
Confindustria? Eppure dovrebbe essere evidente che oggi l’avversario
di classe –ripristiniamo questo termine di verità nel linguaggio
della politica– ha capito il gioco che il sindacato (e la sinistra)
stenta a capire. Alla bulimia consumistica dei cittadini del
nostro tempo occorre dare in pasto sempre nuovi prodotti. Basta che
siano nuovi all’apparenza. Se poi il nuovo che si impone demolisce
antichi diritti, cosa importa, visto che questo è il suo autentico
fine? L’importante è «andare verso il futuro».
Lo Statuto dei lavoratori? Ma è roba del 1970, un edificio obsoleto.
Figuriamoci la Costituzione, che è del lontanissimo 1948! Volete
mettere il Jobs Act, un prodotto nuovissimo, per giunta in
smagliante lingua inglese, la lingua corrente dei nostri operai
e impiegati?
La menzogna pubblicitaria che oggi ispira la politica rivela,
fra le altre cose, come il conflitto insonne che i poteri economici
e finanziari muovono contro i lavoratori persegue sempre più
l’innovazione simbolica e cerca di raggiungere pubblici vasti.
Perciò restare fermi, silenziosi, dentro i luoghi di lavoro o i
propri uffici, come ha fatto la Cgil in molte occasioni, in difesa
dell’esistente, dei vecchi e consolidati diritti, ha portato
e porterà a continue sconfitte. Certo, la condizione della Cgil
e di tutti i sindacati del mondo oggi è terribilmente difficile.
Si è eclissata nei parlamenti la forza politica amica, i partiti
comunisti o socialdemocratici. Gli imprenditori e i finanzieri
possono aprire aziende, spostare capitali in ogni angolo del
pianeta. I lavoratori e i sindacati sono inchiodati nel
territorio delle nazioni. Ma che cosa è stato tentato per
incominciare a fronteggiare una asimmetria così grave
e penalizzante?
Ho spesso ricordato che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO)
è stata fondata nel 1919 ed è ancora in vita, ma come un modesto
ufficio studi. Eppure era nata come un generoso progetto universale
della politica occidentale dopo la Grande Guerra, in difesa della
classe che produceva la ricchezza di tutti i paesi. Oggi guida invece
le sorti del mondo il Fondo Monetario Internazionale, nato nel
1945. Eppure nessuno osserva che dietro ad esso c’è solo l’interesse
di alcune migliaia di banchieri, dietro l’Ilo ci sono diversi miliardi
di lavoratori sparsi per il mondo. Quando faremo esplodere la
potenza di tale contraddizione? Non è possibile cominciare
a tessere una rete internazionale che rivitalizzi tale
organismo, o ne crei un altro nuovo? Quando incominceremo a porre
in agenda l’obiettivo del salario minimo per tutti gli operai, di
standard di base irrinunciabili delle condizioni e dell’orario di
lavoro? Vaste programme, direbbe qualcuno, dal momento che da quando
esiste l’Unione Europea non si era mai vista tanta inerzia
sindacale e mancanza di azione comune nel Vecchio Continente.
Ma non esistono in Italia le figure capaci di un tale compito? Non
è possibile che i dirigenti della Cgil si guardino intorno e vedano
tanti nostri giovani, le migliori e più colte intelligenze del
nostro paese, che scappano all’estero? E perché non scegliere tra
questi i tanti talenti che potrebbero portare energia, idee,
motivazioni, conoscenza di lingue e realtà sociali in grado di
ridare giovinezza, saperi, visione internazionale al sindacato
italiano? Li dobbiamo lasciare alle imprese? Quale salto di qualità
potrebbe compiere la creatività della Cgil se una nuova leva di
giovani trentenni, oggi precari in Italia e nel mondo, venisse fatta
entrare con specifici compiti dirigenziali?
Avanzo tale proposta non solo perché la sinistra si dovrebbe porre il problema dei nostri giovani intellettuali. Ma
anche perché il sindacato oggi potrebbe far tesoro di una sua antica
istituzione, in grado di ridargli una nuova vitalità. Nata nel 1891
a Milano, la Camera del Lavoro è stata una geniale invenzione. Essa
metteva insieme le diverse categorie operaie in unico centro
territoriale, mentre lo sviluppo capitalistico si
diversificava e articolava le sue geografie. E oggi? Non
sappiamo da tempo che il lavoro, precario, alterno, reso autonomo,
frantumato, delocalizzato, subappaltato, ecc. sempre meno
ritrova unità in un luogo determinato?
E allora, che cosa si aspetta a ridare nuova vitalità a tali centri, dove
possano confluire non solo i lavoratori e i pensionati per
pratiche di patronato, ma anche i disoccupati, le partite Iva,
i ricercatori, gli studenti ? E’ una istituzione a base
territoriale quella che oggi può fornire uno spazio di unità a un
universo sociale in frantumi. Le Camere del Lavoro dovrebbero dunque
essere accresciute nelle grandi città, ma anche fatti nascere in ogni
comune, potenziate dove già esistono. Si pensi alla funzione
aggregativa che potrebbero svolgere oggi nel Mezzogiorno, dove i i
giovani disoccupati sono murati in casa, soli con la loro
disperazione.
Naturalmente, una soluzione organizzativa non è una politica, ma già darebbe un segnale di movimento. Mentre i temi politici certo non mancano.
Landini ha confessato con onestà di essere stato in passato contrario alla concessione del reddito minimo. Si
tratta di perplessità comprensibili, diffuse nella sinistra.
Incertezze che nascono dal fatto che essa ha abbandonato da tempo il
terreno sociale e teorico da cui è nata: l’analisi del mondo del
lavoro come parte costitutiva del capitalismo contemporaneo.
Marx ha disvelato l’origine della ricchezza e della sua diseguale
distribuzione, ricostruendo l’architettura dell’intera società,
partendo dal lavoro. Una analisi non superficiale del capitale ci
dice che oggi esso ha sempre meno bisogno di lavoro vivo, per via dei
processi accelerati di automazione e per il vantaggio di poter
trasformare direttamente il danaro in altro danaro.
Ma uno sguardo ai nostri ultimi anni ci dice anche che il capitale ha un interesse politico
a far scarseggiare il lavoro, a renderlo raro e incerto, perché
così può tenerlo sotto ricatto, rafforzare il suo rapporto di
dominio. Il lavoro è elemento vitale del capitale, ma anche suo
avversario. Le imprese lo sanno bene, la sinistra l’ha dimenticato,
pensando che il capitale si riduca alle piccole imprese familiari
del Nordest.
Il reddito minimo può sottrarre i lavoratori e la nostra gioventù al grande ricatto. La Coalizione sociale può trovare in tale obiettivo una via per costruire un consenso vasto e vittorioso.
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