Oggi mi tocca scrivere una banalità. Più del solito, intendo.
Ma tocca scriverla per via di quello che si sente dire in giro dopo
la notizia delle 79 mila assunzioni a tempo indeterminato. Di cui ieri
erano strapiene le tivù e oggi i giornali. E che nella coscienza comune
sono state messe in relazione con la flessibilizzazione dei contratti di
lavoro del Jobs Act.
Ecco: i dati si riferiscono al periodo gennaio-febbraio 2015. Il Jobs Act è entrato in vigore il 7 marzo. Le due cose quindi non c'entrano una mazza
l'una con l'altra. L'aumento di assunzioni è invece il frutto di
un'altra (peraltro benvenuta) decisione del governo Renzi: cioè gli
sgravi fiscali per le imprese che assumono nel 2015. Che ha convinto le
aziende a sostituire vecchi contratti (ad esempio di collaborazione
continuativa) con nuovi contratti a tempo indeterminato, perché più
convenienti. Il che, ripeto, è una buona cosa, intendiamoci.
Perché è importante dirla, questa banalità? E perché quindi è importante sottrarla al dibattito spicciolo pro o contro Renzi?
Perché da parecchi anni spadroneggia una tesi - maggioritaria nei
media e nella politica, quindi diffusasi in molte fasce dell'opinione
pubblica - secondo la quale togliere diritti ai lavoratori e renderli
più precari porterebbe a creare più posti di lavoro. È una tesi quanto
meno molto discussa, sulla base delle statistiche e delle esperienze del
passato. In Italia è stata finora smentita dalla successione di leggi
precarizzanti degli ultimi vent'anni (Treu, Biagi, Fornero) che non
hanno migliorato l'occupazione. Esiste peraltro anche una tesi contraria
di cui qui si è parlato
giusto qualche giorno fa: secondo la quale la precarizzazione del
lavoro porta con sé - almeno finché lo Stato non interviene con un
welfare molto massiccio - anche la riduzione delle sicurezze economiche
di ogni persona e famiglia, quindi porta alla crisi dei consumi, al calo
della domanda, e pertanto alla diminuzione della produzione quindi a
meno posti di lavoro: come dice Colin Crouch, «è difficile essere allo
stesso tempo lavoratori insicuri e consumatori ottimisti».
Comunque: i nuovi posti di lavoro non sono il frutto dell'abolizione dell'articolo 18,
né tanto meno delle norme sul demansionamento e sul controllo a
distanza dei dipendenti presenti nel Jobs Act. Sono il frutto della
decontribuzione prevista nella legge di stabilità. Che è stata - lo
ripeto di nuovo, a scanso di equivoci su presunte posizioni
pregiudiziali - una buona scelta del governo Renzi. Ma che non ha nulla a
che vedere con il resto delle scelte dell'esecutivo presenti nel Jobs
Act.
By the way, queste agevolazioni fiscali durano tre anni ma
valgono solo per gli assunti nel 2015. Quindi il rischio che si tratti
di una "fiammata" e basta, c'è. E di nuovo: per carità, benvenuta la
fiammata - per chi è stato assunto. Ma l'effetto rischia di essere di
breve durata, dopo la positiva ricaduta mediatica. Che comunque il
governo si prende - e d'accordo. Purché sia chiaro che con la riduzione
dei diritti dei lavoratori propria del Jobs Act non ha nulla a che fare.
Anzi, se volessimo fare un po' di polemica sul Jobs Act, il dato
diffuso ieri potrebbe portarci a dire che il boom di assunzioni a
gennaio-febbraio è proprio la prova che non c'era alcun bisogno di
precarizzare ulteriormente il lavoro, per creare occupazione: che
bisogna intervenire su altri meccanismi. Ad esempio, la decontribuzione.
Così come altri: la corruzione, la burocrazia, etc. Infatti i 79 mila
sono stati assunti con le tutele che poi il Jobs Act ha abolito,
considerandole ostative alle assunzioni. Verrebbe da ridere. Ma lasciamo
perdere.
Chiedo scusa, di nuovo, per la banalità. Ma la battaglia culturale -
ciascuno, nel suo piccolo - si fa anche attraverso queste banali verità.
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