Se la misura della piazza serve a far capire la forza delle
opposizioni sociali di un paese, si può dire senza dubbio che piazza
del Popolo a Roma ha dato un grande segnale. Con qualche novità
rispetto a molte manifestazioni degli ultimi anni. La presenza di
tanti giovani, e quindi non solo dei valorosi pensionati della Cgil
che di solito riempiono i cortei sindacali; il ritorno di molte
bandiere rosse, non del vecchio Pci e tantomeno di quelle sbiadite
del Pd, ma della Fiom; l’entusiasmo della gente che si è ritrovata per
esprimere un punto di vista che oggi non ha la necessaria
rappresentanza politica.
Naturalmente una piazza non fa primavera, anche se la giornata
era piena di sole e Maurizio Landini, il protagonista della
manifestazione, con la segretaria generale della Cgil, Susanna
Camusso a fare da potente spalla dell’iniziativa, ha voluto
sottolineare che una «nuova primavera per il paese è iniziata».
Ma la “protesta” di ieri forse rappresenta l’inizio di un
processo trainato da un’idea forte di rinnovamento delle forze
sociali e sindacali, politiche e di movimento, un’idea riassunta
dallo slogan della manifestazione, «Unions», traducibile in un
ritorno alle radici del sindacalismo. Che il segretario della
Fiom, nel suo discorso conclusivo, ha riassunto con i ripetuti
rimandi all’idea fondativa della Cgil di Di Vittorio: di un
sindacato delle Confederazioni, così diverso da un
sindacalismo corporativo, basato sulla competizione dei
lavoratori.
E’ la spinta verso un ripensamento profondo della natura del
sindacato, dettata sia dalle sconfitte subite con il progetto
confindustriale che marcia spedito sotto le ali del governo, sia
dalla perdita di rappresentatività prodotta da una crisi
economica che ha allargato il mare della disoccupazione
e prodotto un esercito di precari fuori da ogni tutela e diritto.
Così chi oggi ha ancora un lavoro deve subire il comando pieno
dell’impresa (abolizione dell’articolo 18, demansionamento,
contratti nazionali polverizzati dalla catena perversa del sistema
degli appalti), e chi un lavoro lo cerca è merce di scambio
e manovalanza per la feroce guerra tra poveri.
Più che una fantasia, una velleità o una scorciatoia, la
coalizione sociale è una necessità vitale per ricostruire la figura
del cittadino lavoratore (come appunto indicava Di Vittorio
quando negli anni ’50 già parlava di uno statuto del «cittadino
lavoratore»). E coalizione sociale vuol dire una cosa semplice:
ricostruire le basi di una partecipazione democratica, dunque
politica, ai destini dell’Italia.
Perché chi oggi accusa il segretario della Fiom di voler fare
l’ennesimo partitino dovrebbe piuttosto domandarsi come è stato
possibile arrivare a questo disastro sociale, a un così forte
ridimensionamento del ruolo del sindacato, alla negazione dei
diritti. E anche interrogarsi sulla subalternità, questa sì
politica, verso governi o partiti amici di quel «giaguaro» che
nessuno ha smacchiato e in molti hanno nutrito.
Ritrovare una soggettività politica diventa un bisogno
naturale e l’alleanza con tutte le realtà associative che non si
rassegnano è una via maestra per rafforzare l’opposizione a un
governo ricco di slogan almeno quanto è povero di un innovativo
progetto di sviluppo. Perché mettere in pratica la linea di
Squinzi, o una riforma costituzionale ed elettorale di regressione
verso forme di plebiscitarismo mediatico non sembra davvero una
grande novità. Né in Italia, né in Europa. Come direbbe Landini «non
raccontiamoci di balle». Che fa traballare la sintassi, ma si
capisce.
Domani è il compleanno di Pietro Ingrao. Cento anni applauditi da
tutto il popolo della piazza quando Landini ha ricordato il giorno in
cui, da presidente della Camera, si recò, come primo atto pubblico,
alle Acciaierie di Terni per rivolgersi agli operai chiamandoli «i
costituenti». Un messaggio a chi ha scarsa memoria del paese che
pretende di governare.
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