Denaro per tutti, meno che per chi ne ha bisogno. Inizia
oggi l'ormai famoso quantitative easing della Banca Centrale Europea,
con qualche anno di ritardo rispetto alla Federal Reserve statunitense,
che anzi appare pronta a fare il percorso inverso, iniziando a rialzare i
tassi di interesse.
La logica della manovra monetaria è chiara: compriamo titoli di stato
(lo "strumento più liquido del mercato") per far salire i prezzi
relativi e comprimere drasticamente i rendimenti (ma non le "cedole
annuali", ovviamente, perché sono indicate nel contratto stesso di
vendita) e quindi incentivare le banche o gli investitori istituzionali
(ma anche quelli fa-da-te) a vendere questi titoli e far girare la
liquidità. La speranza è che questa circolazione aumentata venga
utilizzata dalle imprese per riprendere a fare investimenti e le
famiglie a spendere per consumi.
Già a livello delle banche centrali, però, cominciano problemi seri.
L'80% dei 1.140 miliardi dell'operazione - 60 miliardi al mese per 18
mesi, come minimo) sarà a carico delle singole banche nazionali e non
della Bce. E queste ultime dovranno comprare obbligatoriamente nella
misura delle propria quota di partecipazione alla Bce (organismo
composto da "soci" con peso differenziato), ma solo titoli di stato investment grade.
Roba buona, in parole povere, ma non titoli greci e ciprioti, per
esempio. Anche le banche centrali di questi due disgraziati membri
dell'Unione Europea saranno obbligate a fare acquisti del genere, ad
esempio comprando titoli tedeschi o francesi anziché i propri, come
invece sarebbe altamente necessario.
Che la Bce si accolli soltanto il 20% del "rischio" è una conseguenza
dell'ostilità tedesca (olandese, finlandese) alla "mutualizzazione del
debito"; che è poi come dire che sono ostili a una maggiore integrazione
fra i vari paesi. La linea ufficiale è che non vogliono accollarsi
debiti altrui, quelli delle "cicale" o Piigs; la realtà è che loro,
dalle politiche di austerità, finora ci hanno guadagnato, ridisegnando
la divisione internazionale del lavoro nel Vecchio Continente e
comprando a prezzi stracciati industrie altrui, società, immobili, ecc.
Questa dinamica ha favorito la deflazione, ovvero un calo
generalizzato dei prezzi che deprime proprio la necessità delle imprese
di investire e la volontà dei consumatori di comprare (se il prezzi
caleranno, tanto vale attendere). E l'Europa è 'unico angolo del mondo
in cui il livello del Pil non è ancora risalito ai livelli della crisi
del 2008 (crisi che non è finita per nessuna area del mondo, Cina a
parte, ma con livelli di gravità molto differenti), grazie proprio alla
follia dell'austerità quando invece sarebbero stati necessari
investimenti (più pubblici che privati) per tenere in vita la capacità
produttiva, l'occupazione e quindi anche i consumi. Ma, come si sa, gli
investimenti pubblici "produttivi" sono vietati nell'Unione Europea,
vanno bene solo quelli "infrastrutturali", mentre tutta la spesa
pubblicia in genere deve essere tagliata per ridurre anche il debito.
Oddio, interventi pubblici ce ne sono stati, e di dimensioni
colossali, in termini monetari. Ma si sono diretti al salvataggio delle
banche private, nella convinzione che queste - una volta riempite di
soldi freschi - avrebbero ripreso a far girare l'economia. Invece se li
sono tenuti in cassaforte, comprando titoli di stato ultrasicuri come
quelli tedeschi o statunitensi, oppure investendo nel mercato azionario
globale, che infatti oggi è ai massimi dei prezzi pun in presenza
dell'ottavo anni di crisi economica globale.
Da manuale, in questa logica, la follia del "salvataggio della
Grecia", dove si è intervenuti per assicurare il rientro dei crediti a
favore delle banche tedesche francesi, mettendo queste cifre in conto al
debito pubblico greco. Un modo per "socializzare le perdite", visto che
le garanzie sul debito ellenico venivano iscritte in capo ai singoli
stati nazionali partecipanti al salvataggio. Per capirci, il debito
greco - i famosi 240 miliardi da restituire all'"Europa" - oggi è a
carico degli stati nazionali, mentre prima del "salvataggio" imposto
dalla Troika era in capo alle banche private di Berlino e Parigi.
Ora la Bce corre ai ripari immettendo un altro oceano di liquidità
(supera il 60% del Pil italiano) nella speranza che il "cavallo"
dell'economia "riprenda a bere". Ma per quale motivo un imprenditore
privato dovrebbe domattina recarsi in banca a chiedere un prestito per
avviare o allargare la propria attività? Il mercato delle vendite
(ovvero i consumi) è fermo, anzi si restringe. Anche per "merito" dei
salari diminuiti, dell'occupazione in calo, del precariato che cresce
ovunque (anche in Germania) e impone stipendi al limire della
sopravvivenza. Può investire insomma solo chi pensa di vendere
all'estero. Ma dovunque - tranne che in Cina, in parte - si ragiona allo
stesso modo.
La manovra elaborata da Mario Draghi, dunque, stende uno schermo
protettivo - una "polizza d'assicurazione", dice qualcuno -
sull'economia europea. Ma qualsiasi politica monetaria non può
realizzare i compiti che dovrebbe assolvere una politica economica ed
industriale. E queste due ultime politiche, nell'Unione Europea, non
esistono a livello comunitario, ma solo nazionale. Quindi la Germania
può continuare a usare la crisi altrui per rafforzare le proprie
posizioni di mercato, ridisegnare le filiere produttive mettendole al
proprio servizio, in vista una centralizzazione futura duramente
asimmetrica.
In mancanza di politiche economiche o industriali comuni, la Ue e il
Fondo Monetario Internazionale spingono i governi a praticare le
"riforme strutturali" (mercato del lavoro, pensioni, sanità, welfare in
genere, ecc), obbedendo alla teoria liberista - e provatamente falsa -
per cui a salari più bassi corrisponde una maggiore competitività. Sul
piano delle esportazioni può essere anche moderatamente vero, ma in
questo modo ognuno - tutti i sistemi produttivi del pianeta - "compete"
per conquistare mercati di sbocco che invece ognuno va riducendo (se
comprimi i redditi da lavoro dipendente, ovvero la stragrande
maggioranza del mercato dei consumatori, diminuisci anche il numero
degli acquisti possibili).
Non stupisce dunque che "i mercati" azionari festeggino vedendo
arrivare un altro mare di moneta fresca per tenere ancora su prezzi
azionari fuori da ogni logica (il famoso price/earnigs che
dovrebbe oscillare intorno a 16 volte i profitti attesi per oigni
singola azienda quotata), alimentando "bolle" che non potranno far altro
che esplodere. Né stupisce che lo spread tra i vari titoli di stato si
riduca tedenzialmente a ben poca cosa (chi acquista titoli tedeschi, di
questi tempi, sa che ci rimetterà qualcosa, ma accetta di farlo per
correre rischi).
Gli unici che non festeggiano, pur apprezzando la creazione di un
"ambiente meno oppressivo" per gli investimenti, sono paradossalmente
gli industriali, che fanno i conti con ordinativi stitici e prezzi
fermi. E che quindi chiedono soltanto di ridurre ancora il costo del
lavoro.
E' così che la crisi viene fatta pagare a quelli che in nessun modo hanno potuto "crearla".
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