Nessuno, a partire da sindacati e rappresentanze datoriali, pare essersi accorto che il costo orario del lavoro in Italia è addirittura sotto la media europea. E che la sua crescita negli ultimi 4 anni è stata perfettamente in linea con quella di altri Paesi europei.
Lo ha certificato ieri, una volta di più, Eurostat. Mettendo a confronto il costo orario nei paesi dell’Eurozona.
Ebbene, a fronte di un costo medio pari a 28 euro,
nel nostro Paese il costo orario del lavoro è stato nel 2012 pari a
27,4 euro. Contro i 34,2 della Francia, i 30,4 della Germania, i 38,1
della Danimarca, i 37,2 del Belgio, i 32,2 dell’Olanda.
In aggiunta a ciò, si consideri che il costo orario del lavoro ha visto, nel nostro Paese, un incremento
in linea con la crescita media Ue-17 (8,7 per cento). Minore che in
Francia (9,5 per cento) o in Germania (9,1 per cento) e in misura
lievemente superiore rispetto alla Spagna (8,3 per cento).
Insomma l’Italia non è un’anomalia.
Almeno da questo punto di vista. Come invece da più parti ci è stato
fatto credere, anche recentemente. E pensare che sono state fatte
battaglie epocali per allargare sempre più il novero delle tipologie contrattuali al
fine di abbattere il più possibile il costo del lavoro. Facendo troppo
spesso finta di ignorare che i nodi della mancata crescita sono altri.
Un primo problema, come peraltro si evince dagli elaborati di Eurostat, è il peso eccessivo degli oneri contributivi e fiscali sul
costo del lavoro. Tema questo, su cui negli ultimi 10 anni si è
lavorato male ed a spizzichi e bocconi. Basti pensare alla tragicomica
vicenda del cuneo fiscale!
Il grande elemento di criticità è però rappresentato dall’indice di produttività del lavoro: nel periodo 2001-2010 la produttività oraria del lavoro è cresciuta in Italia appena dell’1,2 per cento, contro l’11,4 per cento dell’area Ue-27 e addirittura il 26,1 per cento della Germania.
Siamo
quasi 50 punti distanti dalla Francia e dai Paesi Bassi, 40 dalla
Svezia, più di 20 dal Regno Unito e riusciamo, di poco, a precedere la
Spagna.
E fa sorridere che le parti sociali, ispirate da un ministro del Lavoro che verrà forse ricordata per le sue lacrime di coccodrillo, si illudano di ridurre il gap con gli altri Paesi attraverso intese, tanto disperate quanto inutili, sulla famigerata contrattazione di secondo livello.
Perché i temi da affrontare per far crescere la produttività sono altri. A partire, ad esempio, dagli investimenti in innovazione. Da noi la spesa complessiva in ricerca e sviluppo, nel 2010, era pari all’1,26 per cento del Pil. Una
percentuale, questa, distante anni luce dall’obiettivo del 3 per cento
enunciato nella strategia di Lisbona. Su tale fronte, però, le colpe non
sono solo pubbliche. perché è soprattutto la spesa dei privati in
R&S ad essere risibile: lo 0,5 per cento del Pil contro l’1,2 della
Ue-15, il 2 per cento della Germania, l’1,5 per cento della Francia, l’1
per cento della Gran Bretagna.
È poi evidente che sulla produttività pesano il nanismo di impresa, nonché la modesta capitalizzazione e managerializzazione delle imprese italiane.
Ma l’industria italiana fa soprattutto i conti con un grandissimo problema di specializzazione produttiva. Sbilanciata verso produzioni a basso contenuto tecnologico. Come ha scritto recentemente anche Bankitalia:
«In termini di valore aggiunto manifatturiero il peso complessivo di
settori quali il tessile e l’abbigliamento, il cuoio e le calzature, i
prodotti in legno ammonta nel nostro paese al 13,6 per cento, molto più
che in Francia (5,2) e in Germania (3,1). I settori più propensi
all’innovazione (chimica, apparecchi radiotelevisivi, per le
comunicazioni, medicali e di precisione, macchine per ufficio ed
elaboratori, altri mezzi di trasporto) pesano per il 16,4 per cento in
Italia, il 19,7 in Francia e il 20,8 in Germania».
In tutto ciò, al Paese manca drammaticamente da troppo tempo una straccio di politica industriale. Che neppure il governo tecnico vocato a far ripartire la crescita è riuscito purtroppo ad abbozzare.
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