L'antivigilia
di Natale ha portato nuove certezze agli italiani. Finalmente si è
capito, punto per punto, in cosa consiste la celebre "agenda Monti" di
cui tutti parlavano da alcuni mesi. L'ha pubblicata lo stesso presidente
del consiglio dimissionario nel suo sito, in versione integrale. Si
tratta di 25 pagine, ma non particolarmente dense. Alcuni sostengono che
gliela abbia scritta Ichino. Questa sarebbe la causa della
miniscissione dal Pd capitanata dal senatore. Se è vero non deve essersi
sforzato molto: la parte sul lavoro non fa altro che ribadire
perentoriamente che «non si può fare marcia indietro» rispetto alle
riforme Fornero e al di là di frasi di circostanza
si annuncia una drastica semplificazione normativa in materia di lavoro. Il progetto di legge Ichino, appunto.
A guardare bene, separato il loglio dal grano, non vi è poi tanta
differenza fra questa "agenda" e la Carta di intenti dei progressisti e
democratici. Anzi su qualche questione Monti appare persino più ardito.
Ad esempio per quanto riguarda il welfare propone di generalizzare il
2reddito minimo di sostentamento», una sorta di reddito di cittadinanza,
del quale la Carta di intenti non fa minimo cenno. Non vi è da stupirsi
per almeno due ragioni. La prima è che questa misura era raccomandata
dal parlamento europeo in una risoluzione assunta più di un anno fa come
misura di contenimento della povertà e di facilitazione per trovare
lavoro. Per quanto il parlamento europeo abbia poteri solo virtuali,
qualcuno prima o poi qualcosa la doveva pur dire.
Ma vi è un altro ben più sostanziale motivo. Anche Milton Friedman considerava compatibili con il suo impianto liberista forme di reddito di cittadinanza. Il suo ragionamento era semplice: essendo, secondo lui, la piena occupazione difficile da realizzarsi e in ogni caso non desiderabile, bisognava pur farsi carico di coloro che rimanevano inevitabilmente esclusi dal mondo del lavoro senza dargli pretesti per imbarazzanti sollevazioni sociali. Meglio quindi distribuire un po' di reddito che non offrire occasioni lavorative a tutti, perché il lavoro è un diritto che a sua volta ne crea e ne amplia altri e il tutto finisce per minacciare la tranquillità delle classi dirigenti, come annotava Kalecki in un famoso articolo dei primi anni settanta.
L'agenda Monti appare quindi come l'ultima versione della teoria «dell'austerità espansiva», fastidioso ossimoro ormai criticato persino dal Fondo monetario internazionale. Se si vuole andare al sodo, il documento montiano può ridursi ai pochi e lapidari punti del secondo capitolo che si aprono con l'affermazione «che non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». In base a questa indimostrabile affermazione, Monti trae la conseguenza che bisogna attuare in modo rigoroso il pareggio di bilancio, seguire pedissequamente la road map tracciata dal fiscal compact, dismettere il patrimonio pubblico destinando i proventi «integralmente» alla riduzione dello stock del debito pubblico.
Qui il punto di incrocio, almeno sulle prime due decisive questioni, con la Carta d'intenti è evidente. Quest'ultima nelle battute finali (quelle che contano di più, come più volte ha detto anche esplicitamente il segretario Bersani) ribadisce la necessità di «assicurare la lealtà istituzionale agli impegni internazionali e ai trattati sottoscritti dal nostro Paese, fino alla verifica operativa e all'eventuale rinegoziazione degli stessi in accordo con gli altri governi», senza però assumersi l'impegno di promuovere o sollecitare quest'ultima. Infatti Bersani in una recente intervista al Financial Times afferma di non avere alcuna intenzione di rinegoziare il fiscal compact, anzi di essere d'accordo con il ministro delle finanze tedesco nel rafforzarlo ulteriormente costruendo un organo di controllori autorizzati a mettere il naso nella formazione del bilancio di ogni singolo paese membro della Ue.
Che la si guardi da una parte o dall'altra la situazione ci appare quindi bloccata. A decidere sono le nuove normative europee qualunque sia il governo in carica. Monti con la sua agenda non fa altro che metterlo in evidenza. Come ricordava qualche settimana Carlo Bastasin editorialista del Sole 24 Ore «un governo post-Monti dovrebbe comportarsi più o meno allo stesso modo del governo attuale». Anzi «qualsiasi sarà il prossimo governo rischia di avere ancora meno margine di manovra» di quello appena defunto.
La pubblicazione dell'agenda Monti fa dunque ulteriore chiarezza su un punto, per chi non l'avesse ancora compreso o facesse finta: la ricusazione del fiscal compact - su cui costruire da subito alleanze concrete con i paesi mediterranei e tutti quelli in difficoltà nella Ue - è la vera discriminante programmatica su cui si giocano le prossime elezioni. E' l'unica possibilità per ridare un senso alla politica, che consiste nello scegliere fra strade diverse e possibili. Altrimenti ce ne è una sola, quella già decisa a Bruxelles, quella che ci fa dire, dati alla mano, che l'Europa più che vittima della crisi lo è delle proprie politiche. Di questo bisognerebbe discutere - e difatti di questo si parla nei movimenti e nella sinistra in Europa -, invece di perdersi in discussioni astratte e vuote sul fatto se sia meglio stare al governo o all'opposizione, dando la sensazione di essere come l'ubriaco della barzelletta che cerca le chiavi perdute sotto il lampione semplicemente perché lì c'è luce.
Queste erano le osservazioni che sono andato facendo con sempre maggiore intensità dentro Sel, la comunità politica nella quale ho militato (non la chiamo partito, perché il primo a negare che lo sia o che lo debba essere è il suo leader). Debbo prendere atto che non hanno avuto successo. Sel ha finito per stringere un'alleanza che la subordina ai trattati vigenti e alle decisioni che a maggioranza verranno prese nei gruppi parlamentari. E' ovvio che il pallino resta in mano al Pd. Ma soprattutto Sel ha messo da parte quello che pure era un impegno derivante dai documenti congressuali, ovvero la costruzione di una forza di sinistra autonoma, per quanto non isolazionista o testimoniale. Necessita perciò trovare altre strade, per quanto esse siano difficili e tutt'altro che sicure, rese ancora più ardue dall'incombenza della scadenza elettorale, con la consapevolezza che lasciare una comunità politica che si è contribuito a costruire fin dal suo inizio porta anche il segno di una sconfitta personale. Riconoscerla è già un passo avanti.
Ma vi è un altro ben più sostanziale motivo. Anche Milton Friedman considerava compatibili con il suo impianto liberista forme di reddito di cittadinanza. Il suo ragionamento era semplice: essendo, secondo lui, la piena occupazione difficile da realizzarsi e in ogni caso non desiderabile, bisognava pur farsi carico di coloro che rimanevano inevitabilmente esclusi dal mondo del lavoro senza dargli pretesti per imbarazzanti sollevazioni sociali. Meglio quindi distribuire un po' di reddito che non offrire occasioni lavorative a tutti, perché il lavoro è un diritto che a sua volta ne crea e ne amplia altri e il tutto finisce per minacciare la tranquillità delle classi dirigenti, come annotava Kalecki in un famoso articolo dei primi anni settanta.
L'agenda Monti appare quindi come l'ultima versione della teoria «dell'austerità espansiva», fastidioso ossimoro ormai criticato persino dal Fondo monetario internazionale. Se si vuole andare al sodo, il documento montiano può ridursi ai pochi e lapidari punti del secondo capitolo che si aprono con l'affermazione «che non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti». In base a questa indimostrabile affermazione, Monti trae la conseguenza che bisogna attuare in modo rigoroso il pareggio di bilancio, seguire pedissequamente la road map tracciata dal fiscal compact, dismettere il patrimonio pubblico destinando i proventi «integralmente» alla riduzione dello stock del debito pubblico.
Qui il punto di incrocio, almeno sulle prime due decisive questioni, con la Carta d'intenti è evidente. Quest'ultima nelle battute finali (quelle che contano di più, come più volte ha detto anche esplicitamente il segretario Bersani) ribadisce la necessità di «assicurare la lealtà istituzionale agli impegni internazionali e ai trattati sottoscritti dal nostro Paese, fino alla verifica operativa e all'eventuale rinegoziazione degli stessi in accordo con gli altri governi», senza però assumersi l'impegno di promuovere o sollecitare quest'ultima. Infatti Bersani in una recente intervista al Financial Times afferma di non avere alcuna intenzione di rinegoziare il fiscal compact, anzi di essere d'accordo con il ministro delle finanze tedesco nel rafforzarlo ulteriormente costruendo un organo di controllori autorizzati a mettere il naso nella formazione del bilancio di ogni singolo paese membro della Ue.
Che la si guardi da una parte o dall'altra la situazione ci appare quindi bloccata. A decidere sono le nuove normative europee qualunque sia il governo in carica. Monti con la sua agenda non fa altro che metterlo in evidenza. Come ricordava qualche settimana Carlo Bastasin editorialista del Sole 24 Ore «un governo post-Monti dovrebbe comportarsi più o meno allo stesso modo del governo attuale». Anzi «qualsiasi sarà il prossimo governo rischia di avere ancora meno margine di manovra» di quello appena defunto.
La pubblicazione dell'agenda Monti fa dunque ulteriore chiarezza su un punto, per chi non l'avesse ancora compreso o facesse finta: la ricusazione del fiscal compact - su cui costruire da subito alleanze concrete con i paesi mediterranei e tutti quelli in difficoltà nella Ue - è la vera discriminante programmatica su cui si giocano le prossime elezioni. E' l'unica possibilità per ridare un senso alla politica, che consiste nello scegliere fra strade diverse e possibili. Altrimenti ce ne è una sola, quella già decisa a Bruxelles, quella che ci fa dire, dati alla mano, che l'Europa più che vittima della crisi lo è delle proprie politiche. Di questo bisognerebbe discutere - e difatti di questo si parla nei movimenti e nella sinistra in Europa -, invece di perdersi in discussioni astratte e vuote sul fatto se sia meglio stare al governo o all'opposizione, dando la sensazione di essere come l'ubriaco della barzelletta che cerca le chiavi perdute sotto il lampione semplicemente perché lì c'è luce.
Queste erano le osservazioni che sono andato facendo con sempre maggiore intensità dentro Sel, la comunità politica nella quale ho militato (non la chiamo partito, perché il primo a negare che lo sia o che lo debba essere è il suo leader). Debbo prendere atto che non hanno avuto successo. Sel ha finito per stringere un'alleanza che la subordina ai trattati vigenti e alle decisioni che a maggioranza verranno prese nei gruppi parlamentari. E' ovvio che il pallino resta in mano al Pd. Ma soprattutto Sel ha messo da parte quello che pure era un impegno derivante dai documenti congressuali, ovvero la costruzione di una forza di sinistra autonoma, per quanto non isolazionista o testimoniale. Necessita perciò trovare altre strade, per quanto esse siano difficili e tutt'altro che sicure, rese ancora più ardue dall'incombenza della scadenza elettorale, con la consapevolezza che lasciare una comunità politica che si è contribuito a costruire fin dal suo inizio porta anche il segno di una sconfitta personale. Riconoscerla è già un passo avanti.
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