venerdì 12 aprile 2013

E il mostro di Firenze, allora? di Alessandro Robecchi, Il Fatto Quotidiano

Sul linguaggio, i meccanismi della politica, le sue spericolate alchimie e i sorprendenti paraculismi, i tuffi carpiati, le discese ardite e le risalite (cit) e tutto il campionario, si direbbe che non c’è nulla da aggiungere. O forse no: c’è sempre da imparare e da stupire. Ed ecco infatti che si assiste in questi giorni di “stallo messicano” a un sublime perfezionamento del concetto di alibi, giunto ormai a vette di raffinatezza che nemmeno un ragazzino delle medie saprebbe escogitare.
 
Non parlo di scuse: dopo “uveite” e “il cane mi ha mangiato i compiti” in quel campo non c’è più molto da innovare. Parlo invece di una costante relativizzazione dei comportamenti. Esempio classico, uno picchia la moglie e, davanti al giudice che lo interroga, sbotta: “E il mostro di Firenze, allora?”. Ecco, il concetto è chiaro: c’è sempre qualcuno peggiore a cui rifarsi, da cui trarre benzina per alimentare il motore sempre acceso dell’autoassoluzione, legna per il sacro fuoco del giustificazionismo. La comparsa in Parlamento di alcuni volonterosi absolute beginners come i parlamentari del Movimento 5 Stelle – sostenuti in rete da una folta pattuglia di ultras più realisti del re – sembra fatta apposta per affinare tecniche ed elaborare varianti. Se ne era avuto un vago sentore fin da subito: non appena si rimproverava ai nuovi arrivati qualche gaffe, o inesperienza, o qualche incidente di percorso (roba veniale , intendiamoci), la risposta arrivava rapida come la torsione di un crotalo: “Preferivi Scilipoti?”. Ora, a parte che Scilipoti in Parlamento c’è (dettaglio che molti preferirebbero scordarsi), non è che prendere ad esempio il peggio sia di gran conforto. L’altro giorno il deputato grillino Massimo De Rosa rendeva al Corriere una benemerita dichiarazione sull’uso dello streaming: “…altre questioni è meglio non metterle in video per ovvi motivi di strategia politica”. Chi faceva notare che una simile notazione tattica confinava con antiche furbizie politichesi, veniva travolto da un’onda anomala di relativismo: e l’istituto Aspen, allora? E la Trilateral? C’è forse lo streaming delle riunioni di Mediobanca? Insomma, siamo lì: “E il mostro di Firenze?”.
Sia chiaro che si tratta di notazioni in margine, nulla di determinante nell’attuale situazione di diroccamento del paese. E però il segnale esiste, e ci interroga soprattutto su una cosa: le promesse, da qualunque parte vengano, sono fatte della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. Il realismo non piace, specie in campagna elettorale: è grigio, stantio, non fa sognare. Certi mirabolanti giuramenti, invece, fanno presa, affascinano. Tutto trasparente! Tutto online! E il fremito rivoluzionario si impossessa di noi. Fin quando, all’apparir del vero, tutto si ridimensiona un po’, torna coi piedi per terra, si annacqua – persino giustamente, verrebbe da dire. E allora ecco la rincorsa a un peggio con cui confrontarsi. È vero, ho preso cinque nel tema. Ma Giggetto, allora, che ha preso quattro? Trucco vecchio, anche un po’ infantile, ma che funziona sempre, e da cui nessuno è immune. Bizzarro, perdipiù, in un paese che a ogni passo si crogiola nell’uso improprio della parola “merito”, che ci si rifaccia sempre al peggio per sembrare meno-peggio e autoassolversi. Di questo passo la vecchia politica, le riunioni supersegrete del potere economico, Scilipoti caricatura di se stesso, Giggetto che prende quattro nel tema, dovremo tenerceli stretti: ci servono come il pane per sembrare migliori.

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