Pubblichiamo il discorso tenuto da Tomaso Montanari all’assemblea pubblica su «Firenze non è una merce. Renzi, il governo
della città e la Costituzione» tenutasi a Firenze il 25 novembre.
Tra
meno di due settimane il Partito Democratico affiderà se stesso, quel
che resta della Sinistra e soprattutto del Paese a Matteo Renzi.
Lo farà senza convinzione: per mancanza di meglio. Ed è forse per
questo motivo che nessuno si chiede veramente chi sia e che cosa
rappresenti Matteo Renzi. Come uno struzzo, l’Italia mette la testa
sotto la sabbia: preferisce non sapere.
Si parla del clan di Renzi, dei poteri fortissimi che lo sostengono e
ne tirano i fili, perfino dei suoi abiti firmati: ma non delle sue
idee, del suo programma, dell’Italia che vuole.
Ma noi fiorentini sappiamo chi è Matteo Renzi. E non possiamo, non dobbiamo tacere.
Con il suo quinquennale non-governo Firenze si è trovata in una
posizione del tutto singolare: da una parte è stata abbandonata a se
stessa da un’amministrazione rinunciataria, latitante e ben decisa a non
sostituire, ma semmai ad affiancare, i preesistenti centri di potere;
dall’altra si è vista trasformare in un laboratorio politico in cui è
stato possibile conoscere in anteprima i connotati dell’Italia del
prossimo futuro.
Se i frutti della inettitudine amministrativa di Renzi sono sotto gli
occhi di tutti i fiorentini, i rischi insiti nella sua visione
politica ultraliberista e programmaticamente anticostituzionale non
appaiono chiari né alla base del Partito Democratico né all’opinione
pubblica nazionale.
Ma a noi sì: a noi fiorentini quei rischi appaiono ben chiari.
Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, ha descritto nel suo ultimo libro (Il prezzo della disuguaglianza,
2013), un mondo in cui «i ricchi vivono in comunità recintate,
assediate da masse di lavoratori a basso reddito». Matteo Renzi questo
mondo spaccato lo ha voluto rappresentare, legittimare, celebrare la
sera che ha noleggiato Ponte Vecchio alla Ferrari, facendo letteralmente
carte false e lasciando i cittadini comuni ad assediare il banchetto
dei ricchi.
Usando il patrimonio artistico di Firenze non per includere,
integrare, rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza (come vuole la
Costituzione), ma per escludere, separare, incrementare la
disuguaglianza, Renzi non ha inventato nulla di nuovo.
In questa città, la Biblioteca Nazionale trasforma le sale di lettura
in campi da golf, la Curia affitta le chiese sconsacrate per sfilate
di biancheria intima, la Soprintendenza noleggia gli Uffizi per
kermesse di moda con evidenti implicazioni razziste (ricordate i Masai
esibiti in galleria?), l’Università progetta di affittare le aule a chi
offre di più. Sono ormai secoli che il peggio di Firenze vive di
sciacallaggio alle spalle di un passato glorioso, che ormai davvero non
ci meritiamo più.
Matteo Renzi, conservatore per vocazione e per istinto, non fa dunque
nulla di nuovo: si limita a seguire la corrente. Si adegua ad un
sistema di potere che non vuole rovesciare, ma occupare. Accentua e
approfondisce il solco tra la città dei poveri e la città dei ricchi.
Dice, non sapendo quello che dice, che gli Uffizi devono diventare una
macchina da soldi. E intanto costruisce il clima politico perché questo
accada davvero.
Usando il patrimonio storico e artistico della sua città come arma di
distrazione di massa ad alto impatto mediatico, il sindaco di Firenze è
assai rapidamente diventato il politico professionista più a proprio
agio nel violare il significato civile dell’arte del passato,
clamorosamente ridotta ad alienante fabbrica di clienti (e, in
particolare, di acquirenti di un format politico).
Ma se tutto questo riguardasse solo il patrimonio artistico, ebbene
potrebbe impensierire me, Salvatore Settis e purtroppo non molti altri.
Ma questo riguarda qualcosa di ancora più profondo, e vitale.
Riguarda il futuro della democrazia in Italia.
Matteo Renzi è l’ultimo epigono del provinciale ma aggressivo
neoliberismo italiano. Egli confessa apertamente che il suo modello è
Tony Blair: l’ultimo erede della stagione di Ronald Reagan e Margaret
Thatcher. È un modello culturale che, per dirlo con le parole dello
storico anglo-americano Tony Judt «ha cresciuto una generazione
ossessionata dalla ricerca della ricchezza materiale e indifferente a
quasi tutto il resto».
Dal suo vago programma per le primarie, si capisce che anche Matteo
Renzi vuole cambiare la Costituzione. La nomina solo quattro volte: e
sempre negativamente. Cito un passaggio: «Ma spesso la Costituzione si
cita in piazza e si dimentica nella quotidianità. Si difende la
Costituzione, solo se si attacca la rendita. Pensiamo che l’uguaglianza
sostanziale di cui all’articolo 3 sia attuabile solo se rimuoviamo gli
ostacoli. Ma l’uguaglianza non significa ugualitarismo».
La strada prospettata è chiarissima: è quella invocata dalle grandi
banche d’affari. Pochi mesi fa JP Morgan ha scritto che la ripresa è
frenata dall’ugualitarismo delle costituzioni dell’Europa meridionale,
nate dalla Resistenza: e che è l’ora di cambiarle. È quello che farà
Matteo Renzi: l’erede naturale delle Larghe Intese, che ora finge di
criticare. Erede naturale, naturalissimo: perché la
ideologia-non-ideologia di Renzi trova nella cosiddetta modernizzazione
alla Blair la sintesi perfetta tra Pdl e Pd, tra Berlusconi e D’Alema.
Un segnale concreto? L’indecente alleanza con Vincenzo De Luca, il
sindaco di Salerno supercementificatore, superindagato, cumulatore di
cariche e violento. Un’alleanza col peggio di questo paese, per la
distruzione dell’ambiente e la violazione della legge.
Al tradizionalissimo, usurato marketing della rendita, alla retorica
del patrimonio artistico come petrolio di Firenze che ora si è
reincarnata in Matteo Renzi è tempo di opporre un’idea di comunità, un
progetto di città intesa come luogo e strumento della vita di una
collettività.
Io non so se ci sono le condizioni politiche per una proposta
alternativa: per una lista che sfidi Renzi alle prossime amministrative.
So, è vero, che la maggior parte dei fiorentini non sono felici di
come Renzi li ha governati, e so che non si riconoscono in questa
grottesca parabola personale.
Il mio dovere di studioso, di storico dell’arte è quello di dare
l’allarme. George Orwell ha scritto che «per vedere ciò che abbiamo di
fronte al naso serve uno sforzo costante»: ecco, io credo che chi ha il
privilegio di fare il mio mestiere debba cercare di rendersi utile
proprio in questo modo, favorendo e promuovendo in ogni momento questo
sforzo. Lo sforzo per vedere ciò che abbiamo di fronte al naso.
E di fronte al naso abbiamo un piccolo, mediocre replicante di ciò
che ha devastato l’Europa e l’Italia negli ultimi 30 anni. Non c’è
niente di nuovo: ma nuova sarà la rovina del Paese, imboccando questa
strada.
In questo momento appare vitale riunire tutti coloro che pensano che
Firenze possa tornare ad essere la forma e l’alimento di una vita
civile la cui missione principale dev’essere, oggi, quella di fornire
un modello culturale alternativo al mercato, di favorire l’integrazione
tra italiani e immigrati, di permettere la frequentazione reciproca di
classi diverse ormai chiuse in luoghi e vite nettamente separati.
L’arte e la storia della nostra città non servono a trasformarci in
turisti, in clienti a pagamento, in spettatori lobotomizzati del
Leonardo che non c’è: ma servono a farci cittadini sovrani, e a farci
tutti eguali. È da qua che è urgente ripartire.
Michael Sandel, filosofo della politica e professore di Teoria del
Governo ad Harvard, ha scritto che la grande domanda a cui oggi la
politica deve rispondere è se abbiamo un’economia di mercato o siamo una
società di mercato. Una società in cui tutto è in vendita, in cui
tutto è merce: dalla salute al lavoro, dall’arte all’ambiente, dai
diritti della persona alle virtù civili.
Il governo di Matteo Renzi ha proclamato forte e chiaro che Firenze è
una merce, che la nostra città è una società di mercato in cui tutto è
in vendita.
Ma la risposta della sinistra italiana, la risposta della
Costituzione italiana è una risposta diversa. E spero che anche la
risposta della mia città sarà diversa.
Una risposta opposta: la sovranità non appartiene ai mercati internazionali, appartiene al popolo. Ad ognuno di noi.
È per questo che stasera siamo qua. Ed è da qua che bisogna ripartire.
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