Fateci caso: il corso della storia cambia anche il significato delle parole. Una volta, ai tempi nei quali ogni manifestazione di piazza era una manifestazione di lotta che pareva prefigurare la rivoluzione imminente, i sindacati venivano definiti “riformisti” o, meglio, “riformatori”. “Riformisti” si definivano anche i socialdemocratici di Giuseppe Saragat dopo la scissione di Palazzo Barberini dai Socialisti di Pietro Nenni. “Riformista”, per definizione, è colui che vuole cambiare le cose in meglio pur accettando lo stato di cose esistente.
Il comunista non si accontenta di questo poiché la sua aspirazione è quella di trasformare la realtà esistente. Le parole d’ordine dei socialdemocratici, in Italia, negli anni 50 e per un paio di decenni successivi furono “più case, più scuole e più ospedali”. La lotta dei comunisti invece rivendicava una società diversa: “La via italiana al socialismo”, secondo la definizione di Palmiro Togliatti e, successivamente, quella di “Terza via” di Enrico Berlinguer. In tutti i casi il termine “riformismo” veniva considerato riduttivo e addirittura subalterno al sistema capitalistico. Eppur tuttavia esso prefigurava un mondo in cui i cittadini stessero meglio e, migliorando la loro condizione economica, potessero salire qualche gradino della scala sociale. Il modello “Roosveltiano” del “grande sogno americano”, per intenderci.
Come cambiano le parole! Da più di un ventennio a questa parte non solo è scomparsa dal lessico comune la parola “rivoluzione” ma il “riformismo” di cui si riempiono la bocca gli odierni riformisti prefigura un tipo di società in cui i cittadini vanno a stare peggio di quanto non stessero i loro padri. Non più “ascesa sociale” ma discesa sociale fino alle soglie della povertà. Basti pensare alla cosiddetta “riforma” delle pensioni attuata negli ultimi quattro lustri per capire di quanto quella parola sia stata svuotata di senso. Eppure, i soloni della attuale politica ti infiocchettano il termine di risvolti positivi e, con l’inganno, ti fanno credere che “riformare” significhi “migliorare”.
Un altro caso eclatante è quello relativo alla cosiddetta “riforma” della scuola e della università. Vogliono farci credere che privatizzare il sapere e riproporre in modo miserabile la discriminazione di classe sia cosa buona e giusta. E così via. Si potrebbe continuare. Fossero onesti e in buona fede questi obbrobri li dovrebbero chiamare con il loro nome: controriforme. Fatto si è che non sono né onesti e né in buona fede.
Poi vi sono i termini e le allocuzioni che addirittura scompaiono dal lessico corrente. Espressioni quali classe operaia, “masse popolari”, “classi sociali”, “lotta di classe” sono del tutto scomparse dal nostro lessico. In atri casi parole che avevano in passato un significato positivo e nobile ora sono disprezzate e hanno assunto un carattere decisamente negativo. E’ il caso di termini quali “ideologia”, “ideali”, “emancipazione”, “eguaglianza”. Le masse popolari sono diventate la “gente”, le classi si sono trasformate in “ceti”, alla lotta di classe si è sostituita la collaborazione fra prestatori d’opera e datori di lavoro. Naturalmente scomparse sono le parole lavoratori e padroni. Questo capovolgimento logico non è un semplice segnale di strafalcioni e /o aggiornamenti linguistici. No. E’ un fatto politico. E’ un inganno cosciente e voluto. E’ un nuovo turpiloquio atto a fare scomparire dall’orizzonte umano qualsiasi prospettiva di riscatto.
Se esploro il mio passato con la lente d’ingrandimento della memoria mi accorgo che la locuzione “Potere operaio” non ha rappresentato per me solo il nome del movimento di estrema sinistra fondato da Mario Tronti. Di questo movimento, di cui personalmente non feci parte, a me interessa recuperare qui - più che l’intuizione fondamentale del nuovo soggetto politico detto “operaio massa”, visto quale perno rivoluzionario - il significato letterale del termine. Il “potere operaio”, infatti, rappresentò per me qualcosa di vissuto al di là, forse, delle intenzioni di Toni Negri e Massimo Cacciari. Mi riferisco, in particolare, a una fase nella storia recente del sindacalismo italiano in cui elementi di potere si realizzarono, almeno nel territorio di Bologna. Si trattò della costituzione dei nove Consigli di Zona in cui venne suddivisa sindacalmente la provincia.
I Consigli Unitari di Zona (CUZ) nacquero a Bologna intorno alla metà degli anni ’70. Essi rappresentarono la proiezione territoriale dei Consigli di Fabbrica sorti in seguito alle grandi lotte del 1969 ed eletti dai lavoratori su scheda bianca e in sostituzione delle superate “Commissioni Interne”. I lavoratori si resero conto che le pur importanti conquiste sindacali realizzate nei luoghi di lavoro (la settimana di 40 ore; il diritto all’assemblea retribuita; i permessi sindacali; il diritto allo studio; i premi di produzione; l’abolizione del cottimo; gli aumenti salariali; la contrattazione aziendale; la modifica dei ritmi e dei carichi di lavoro, ecc.) dovevano essere proiettate sul territorio in modo che le conquiste di fabbrica non fossero vanificate dall’assenza dei servizi sociali nella zona circostante. Le vertenze territoriali, attraverso gli scioperi di zona, puntarono all’ottenimento di importanti servizi per i lavoratori: dalle mense interaziendali ai trasporti, dagli asili nido all’organizzazione del tempo libero. I Consigli di Zona venivano eletti in assemblee intercategoriali in maniera unitaria assieme a CGIL – CISL e Uil. I Consigli elaboravano le rivendicazioni che poi venivano discusse e approvate dalle assemblee dei lavoratori. La richiesta più importante e decisiva per finanziare i servizi sociali sul territorio fu costituita dall’ottenimento da parte delle aziende dell’uno per cento del monte salari.
L’ottenimento di questo risultato costò lotte e sacrifici ma con quell’uno per cento si impose un esempio di “potere operaio” dal basso. Per cui la locuzione “potere operaio” uscì dall’ambito di una teorica ipotesi per rappresentare una concreta prassi. Purtroppo, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo spiegare, quell’esperienza non ebbe seguito. L’ho citata unicamente per dire che alle parole va attribuito il significato corretto. Forse non vi fu niente di rivoluzionario nei Consigli di Zona ma di certo furono l’espressione di un reale “riformismo”. Cari Mario Monti, Berlusconi e Bersani quando vi riempite la bocca della parola “riformismo” a che cosa pensate esattamente?
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