domenica 13 gennaio 2013

Chi e perché vuole rottamare la Costituzione da www.contropiano.org

Validità della Costituzione e variare nel tempo dei valori, della struttura sociale. Le prime risposte ad un (allucinante) articolo pubblicato su "il manifesto".

Crediamo sia ora di aprire, al di qua della linea di demarcazione costituita dal "pensiero della Troika", una discussione "costituente" sul futuro delle istituzioni. E di farlo con la massima chiarezza.
E l'occasione è fornita da questa indignata e immediata reazione a un pezzo di Luca Nivarra, docente a Palermo, pensatore del "comune" e spesso consultato nell'entourage che solo per brevità definiamo "negriano".
I termini della questione, altrettanto brevemente, sono il patto sociale che una Costituzione incarna, la funzione di una Costituzione, le condizioni della sua variabilità, gli effetti del suo cambiamento.
Ricordando che "le Costituzioni si scrivono col sangue", ovvero giungono al termine di una fase di guerra civile vera e propria, crediamo che a nessuno possa essere consentito di "giocare" con questo tema senza assumersene la responsabilità.
Giustamente Greco nota che l'assalto alla Costituzione viene da destra. Da Berlusconi, che vorrebbe una sostanziale "dittatura del potere esecutivo", in chiave nazionalistica, palesemente conservatrice con connotazioni tardo-fasciste. E da Monti, che al contrario, da esponente della borghesia multinazionale euro-statunitense, vede nelle Costituzioni nazionali un impaccio alla ristrutturazione reazionaria del "modello sociale europeo" ritenuta "necessaria" per aumentare la "competitività" del continente sul mercato globale.

Di seguito anche la risposta immediata di Gaetano Azzariti e il testo di Nivarra, sempre su "il manifesto", scialuppa ormai palesemente priva di capacità di intendere e volere, in balia di venti, marosi e mattane individuali.

Chi (e perché) vuole rottamare la Costituzione 

Non solo Berlusconi e Monti

“Reperto archeologico”. Con questo lapidario e irrevocabile giudizio, Luca Nivarra (il manifesto del 10 gennaio) suggerisce di mandare in soffitta la Costituzione del ’48, arnese ormai esausto, utile un tempo che fu, ma di cui si sono perse le tracce, tanto sono mutate struttura e sovrastruttura della società italiana.
“Irriducibili vestali”, “anime belle”, presenti “a legioni” soprattutto a sinistra, sono per Nivarra quanti – in compagnia di qualche “guitto televisivo” – si ostinano a riesumare i fasti della Carta, ormai ridotta a feticcio adorato da ingenui e da ipocriti.
La tesi di Nivarra è semplice: il mondo è cambiato. Lo è il fondamento normativo dell’adesione all’Unione europea, con il dogma del pareggio di bilancio che fa fuori, in un sol colpo, la sovranità dei paesi membri e, appunto, mezza Costituzione; lo è il lavoro fordista, “soppiantato da una nuova e inedita composizione della forza lavoro”; lo è perché “i partiti di massa e il sindacato sono evaporati come nebbia al sole, sostituiti da oligarchie dedite alla riproduzione di se stesse”; lo è – ancora – per la torsione in senso maggioritario della legge elettorale che ha stravolto i meccanismi della rappresentanza.
Insomma, la Costituzione avrebbe perso ogni “significato emancipatorio” perché non in grado di “legittimare pratiche di conflitto sociale nell’attuale fase dello sviluppo capitalistico”, quella che – continua Nivarra - ha per forze propulsive i movimenti.
Osservo, di passaggio, che per pura coincidenza, altrettante legioni, accampate questa volta nei quartieri della destra e dei poteri forti, invocano a loro volta la messa al macero della Carta, nell’insieme e nelle parti ma, soprattutto, con invidiabile lungimiranza, nel suo TitoloIII, quello che si occupa dei “rapporti economico sociali”, che afferma il primato dell’interesse sociale su quello privato e che prevede – ove il primo sia sopraffatto – l’intervento dello stato, l’esproprio di attività produttive o di servizi condotte in termini lesivi della libertà, della sicurezza, della dignità umana e la consegna di quelle attività a gruppi di lavoratori, a comunità di cittadini, o allo stato medesimo perché sia ripristinato l’interesse comune vulnerato. Una cosetta da niente, insomma, come la facoltà di intervenire dentro i rapporti di proprietà, cosa considerata dal pensiero liberale niente più niente meno che un’usurpazione, un’aberrazione ideologica mutuata dal pensiero socialista e marxista, contro la quale si è battuto senza soste Berlusconi (ce lo ha ricordato anche ieri sera, nel Circo Barnum di Santoro ) oltre che (e più di ogni altro) Mario Monti, il quale, senza indugiare in proclami, ha in quest’anno praticato con grande coerenza e maggiore efficacia lo stesso obiettivo.
Ora, è evidente a chiunque che la costituzione materiale impostasi nel tempo si è totalmente divaricata da quella formale e ne ha nei fatti divelto gran parte dell’impianto. E lo è altrettanto che il referendum celebrato anni or sono per impedirne lo stravolgimento ha difeso la lettera della Costituzione, senza poter compiere il miracolo politico di farne rivivere la sostanza, consegnata com’è a rapporti di forza fra le classi che hanno drammaticamente spostato il pendolo dalla parte del capitale.
E’ persino superfluo procedere ad una pur sempre istruttiva analisi del testo, articolo per articolo; basta uno sguardo d’insieme per capire quanto la situazione reale sia cambiata , quanto la produzione legislativa abbia tradito precetti e prescrizioni costituzionali, sino al punto da rendere irriconoscibile la fonte normativa di cui avrebbe invece dovuto nutrirsi.
Del resto, la Costituzione, questa Costituzione, non è stata solo il risultato della guerra patriottica contro l’occupante nazista, né solo l’esito della guerra civile ingaggiata per liquidare il fascismo, ma anche – per dirla con le parole dello storico Claudio Pavone – il prodotto di una guerra di classe che ha avuto per protagonisti gli operai e il Partito comunista.
Dire che non siamo più lì e che oggi, come ci ricorda il miliardario Warren Buffet, la lotta di classe la stanno facendo (e vincendo) i ricchi contro i poveri è un’ovvietà inopinabile.
Ma allora? Perché mai si dovrebbe concludere che la Costituzione ha cessato di dire quel che aveva da dire e che ancora oggi può ispirare? Non solo perché non è stata mai davvero attuata, ma neppure esplorata in tutte le sue straordinarie potenzialità. E perché si dovrebbe trarre dalla sconfitta – questa sì storica – del movimento operaio, l’autolesionistica conclusione che il progetto politico che vive nella Costituzione debba essere consegnato all’oblio, nuovo capitombolo dell’interminabile damnatio memoriae che perseguita la sinistra malata di recidivante pentitismo? Forse perché la Costituzione è oggi fuori dal mercato delle ideologie correnti? E cosa vuol dire che “siamo entrati in una fase costituente” che obbliga a rivedere tutto? Forza, chi ha qualcosa di meglio da offrire? E per andare dove?
Postcomunisti, postmoderni ed ora postcostituzionali. Francamente, ho l’impressione che dietro la particella “post” si nascondano furbizie opportunistiche che a loro volta preparano ancor più sostanziali abiure e rinunce.
Nel tempo che registra la fioritura di agende e agendine, dove ogni pensiero robustamente innervato è considerato un retaggio ideologico del Novecento, dove ai partiti organizzati ed espressione di classi sociali si sono sostituiti comitati elettorali funzionali all’occupazione del potere fine a se stessa, dove il dogma della competitività e del profitto ha derubricato tutti i fondamentali diritti di cittadinanza, è bene che ci teniamo ben stretta la nostra Costituzione, non per affidarla a vuote esercitazioni retoriche, ma per tornare a farne un formidabile strumento di lotta politica.
Dino Greco, direttore di Liberazione

Superare la Carta? Andiamoci piano
Gaetano Azzariti
 
Mai le costituzioni sono state amate dal potere. Esse nascono con l'esplicito scopo di «limitare i sovrani», contrapponendo a questi i diritti fondamentali delle persone. Non può stupire, dunque, che il sistema politico dominante abbia sempre mostrato la volontà di far venir meno la forza normativa delle costituzioni, adottando strategie di "superamento" sempre più vigorose nel corso di quest'ultimo ventennio.
Dobbiamo però anche riconoscere che la Costituzione ha mostrato una forte capacità di resistenza e che essa continua ad ergersi a difesa dei diritti e contro le pretese assolutistiche dei poteri. È in nome della Costituzione che si è evitato il peggio. Certo la lotta per il diritto non è un pranzo di gala e le condizioni storiche entro cui si sta svolgendo non sono oggi le più favorevoli. Da più parti si denuncia dunque un calo di prescrittività delle costituzioni.
Ciò vuol dire che esse hanno perduto il loro ruolo storico? Siamo sicuri che la crisi delle costituzioni (della loro effettività, non del loro valore) debba indurci a denunciarne il superamento? Possiamo veramente gettare la Costituzione dietro le nostre spalle per guardare avanti senza più il peso di un residuo storico? È proprio vero - come è stato scritto su questo giornale da Luca Nivarra - che solo toghe e guitti televisivi possono ancora dare credito a un testo che stabilisce principi ormai superati dal primato del diritto europeo, mentre una sinistra radicale deve guardare avanti, verso l'Europa dei movimenti e del "comune"?
Mi permetto di dissentire. Credo che in tal modo si sottovalutino, da un lato, la specificità e il valore storico delle disposizioni costituzionali, dall'altro, le conseguenze politiche di una strategia "di sinistra" di abbandono della Costituzione. A differenza delle norme contenute nei codici (civile, penale, etc.), gli articoli di una costituzione non hanno la pretesa di dettare mere regole di comportamento, valide nei casi specifici e di volta in volta. Le disposizioni costituzionali hanno un'altra ambizione. Più alta se si vuole, comunque diversa. Indicano i principi di civiltà cui deve conformarsi la società. Ciò comporta che mentre i codici devono essere applicati, le costituzioni devono essere attuate. Pietro Calamandrei - è noto - parlava della nostra Costituzione come di una rivoluzione promessa, Jürgen Habermas indica nella "presbiopia" il carattere proprio e più prezioso delle costituzioni moderne. Questa natura programmatica del testo costituzionale implica la continua tensione tra costituzione da attuare e una legislazione che sia ad essa conforme.
È vero che la via per l'affermazione dei principi costituzionali è lunga e difficile, ma è anche vero che in nome della Costituzione si sono ottenute le maggiori vittorie politiche e normative sino ad ora in tutti i paesi occidentali. La Costituzione è sempre stata al fianco dei diritti dei lavoratori (basta leggere l'art. 1 per convincersi del suo valore), dalla parte dei diritti fondamentali delle persone e contro le logiche disumane del mercato (si veda l'art. 2), al servizio della diversità di genere e di condizioni sociali (un occhiata al terzo articolo è sufficiente), e potrei continuare elencando tutti i 139 articoli della nostra Costituzione per richiamare il progetto di civiltà costituzionale.
Sin dalla metà del secolo scorso si è discusso se il valore programmatico delle disposizioni costituzionali determinasse una loro sostanziale impotenza precettiva. Cioè se la Costituzione dovesse essere condannata a rappresentare solo un libro dei sogni, al più un programma politico, ma non in grado di imporsi come norma giuridica effettiva. Ma è questa una discussione ormai capziosa: è evidente che la costituzione è un'«arma» giuridica fondamentale contro gli arbitri dei poteri e un potente «propulsore» per le politiche costituzionali che sostengono i principi di eguaglianza e libertà. È opportuno disfarsene?
Francamente penso che senza la Costituzione i movimenti di lotta per i diritti in Italia e in Europa andrebbero a mani nude a fronteggiare un potere che, senza più limiti, finirebbe per travolgere ogni aspettativa del bene «comune».
Non illudiamoci, la Costituzione è dietro le nostre spalle
OPINIONI - Luca Nivarra
 
Ogni tanto, disseppellita da un suo tardo e interessato estimatore, ricompare sulla scena la vecchia e gloriosa Carta del '48, per il resto consegnata ad una condizione semivegetativa, così come si conviene a chi, avendo conosciuto stagioni luminose, trascorre le sue giornate nella penombra della vita o negli anfratti della storia. Come, sobbalzeranno indignate sulle loro poltrone le sue irriducibili vestali che, specie a sinistra, sono ancora legioni?
La nostra costituzione, nata dalla resistenza, base civile e presupposto giuridico di una rivoluzione promessa e ancora in larga parte incompiuta, trattata alla stregua di un reperto archeologico? Eppure le cose stanno proprio così. La Costituzione e, più in generale, il costituzionalismo democratico sono ormai alle nostre spalle e nulla, proprio nulla, potrà riportare indietro le lancette dell'orologio e restituirci ciò che aveva fatto di un semplice documento normativo, per quanto collocato al vertice del «sistema delle fonti», un potente fattore di innovazione giuridica e sociale. Perché è proprio questo il punto: alla Costituzione è successo quello che era già successo al codice civile. Quest'ultimo aveva permeato di sé un'epoca storica, l'Ottocento, consacrando la nuova egemonia borghese. La proprietà fondiaria, il contratto individuale, il rapporto di lavoro tra «eguali»: insomma, tutti gli istituti fondamentali del diritto civile, che poi erano anche i capisaldi giuridici del capitalismo, facevano del codice la vera carta costituzionale del nuovo ordine. Ma poi tutto cambia: il Novecento, tra fallimenti del mercato e regolazione del conflitto, è il secolo della «decodificazione»: gli equilibri del sistema giuridico si spostano verso l'alto (le Costituzioni «lunghe», luoghi del compromesso e del bilanciamento, ma anche dell'affermazione della potente razionalità del capitalismo fordista: che senso avrebbe avuto una norma come quella dell'art. 36 sulla retribuzione del lavoratore se non fosse stato disponibile uno strumento come il contratto collettivo?), e verso il basso (la legislazione speciale che prova ad articolare un discorso normativo all'altezza del disegno costituzionale).
Naturalmente, nella pratica quotidiana, il codice civile occupa ancora un grande spazio: basta sfogliare i repertori di giurisprudenza. Ma, salvo qualche inguaribile nostalgico, nessuno guarda più ad esso come al punto archimedeo dell'ordinamento, alla fonte che ne scolpisce e fissa la fisionomia. Ora, alla Costituzione è accaduta esattamente la stessa cosa. Certo, ogni anno la Consulta sforna centinaia di sentenze, alcune delle quali anche di grande rilievo politico (basti pensare alla n. 199/2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma che aveva reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dal referendum): ma chi, dotato di buon senso, può davvero pensare che la Costituzione rivesta ancora oggi un significato emancipatorio, ovvero sia in grado di legittimare pratiche di conflitto sociale all'altezza dell'attuale fase dello sviluppo capitalistico? Sono venuti meno tutti i presupposti della razionalità costituzionale: istituzionali (basti pensare che il fondamento normativo dell'adesione all'odierna UE è l'art.11, norma «sovranista» per definizione); politici (i partiti di massa e i sindacati di classe evaporati come nebbia al sole e sostituiti da oligarchie dedite solo alla riproduzione di se stesse), materiali (il lavoro fordista soppiantato da una nuova ed inedita composizione della forza lavoro): e questo sarebbe di per sé sufficiente, senza dovere tirare in ballo le continue manomissioni a cui la Carta è stata sottoposta nel corso degli ultimi anni ad opera, in primo luogo, dei postcomunisti e dei postdemocristiani (dalla riforma del Titolo V all'introduzione del pareggio di bilancio, per non parlare poi dei meccanismi della rappresentanza, i quali hanno un rango sostanzialmente costituzionale, e che sono stati continuamente stravolti in senso maggioritario).
Il richiamo alla Costituzione, nel tempo presente, quando non è strumentale, è da anima bella. Siamo entrati da tempo in una fase postcostituzionale e, dunque, costituente: il primato del diritto europeo che, all'inizio, si presentava come un'importante ma innocua innovazione normativa, si è tradotto, sotto la spinta della globalizzazione liberista, in un fattore di trasformazione dell'ordinamento, relegando le costituzioni nazionali (nella loro dimensione formale e in quella di diritto vivente) ad un ruolo del tutto marginale. Solo partendo da questa consapevolezza (che poi è quella che ha animato le lotte e i movimenti per il «comune», non a caso categoria del tutto estranea al lessico costituzionale) sarà possibile, per la sinistra, essere all'altezza del tempo presente: lasciamo la nostra vecchia Costituzione a toghe e tribunali, oltre che a qualche ben retribuito guitto televisivo, e guardiamo avanti, all'Europa dei movimenti e del comune.
 
da "il manifesto"

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