lunedì 1 aprile 2013

Politica, cultura, egemonia di Roberto Gramiccia

Sarebbe un errore dare dell’attuale crisi della sinistra di alternativa una lettura di tipo politicistico ed economicistico. Sappiamo bene che i momenti di più acuta crisi economica e sofferenza sociale non preludono necessariamente a prese di coscienza collettiva in termini di classe. E che anzi, al contrario, sono proprio il rischio del baratro economico e la disperazione sociale che spesso conducono al successo delle parole d’ordine dei populismi di destra. E nonostante questa consapevolezza pur tuttavia rimane aperta la questione del come sia possibile, proprio nel momento in cui il capitalismo dimostra tutta la sua intrinseca incapacità a provvedere agli interessi generali, che le forze che si definiscono anticapitaliste o anche semplicemente antiliberiste possano conoscere una sconfitta epocale, come quella subita nelle recenti elezioni politiche. Anzi – ancora peggio - come sia possibile che l’idea stessa di sinistra esca sconfitta e delegittimata dall’ultimo confronto politico.

Eppure tutto questo è accaduto. Come è accaduto che masse di sfruttati e di proletari abbiano votato Berlusconi, o non abbiano votato, o abbiano dato i loro consensi a Grillo, lasciando al palo i progetti del duo Bersani-Monti. Altro che bipolarismo quindi! Lo scenario politico appare diviso in quattro e per quasi tre quarti comprende elettori che non hanno scelto il centro sinistra. Questo è accaduto, e ormai moltissime sono le analisi che si sono zelantemente applicate a scovarne le ragioni. Rinviando ad esse per una valutazione diciamo così ortodossa e complessiva, che non è fra gli scopi di questa riflessione, mi vorrei soffermare su un aspetto che mi è sembrato del tutto sottovalutato, in particolare nel dibattito interno a Rifondazione Comunista, ma non solo.

Per farlo – potrà sembrare singolare – userò propedeuticamente le parole di Peer Steinbrück, il quale qualche tempo fa ha sostenuto che in Italia le elezioni le hanno vinte due comici, suscitando per altro la legittima e opportuna reazione di Napolitano. In realtà, al di là degli aspetti formali e diplomatici, non posso non condividere, pur con tutta l’antipatia per il personaggio, l’opinione di Steinbrück. Anzi ritengo utile far partire proprio da essa il mio ragionamento.

E allora domandiamoci perché più del 50% dell’elettorato è stato catturato o ricatturato da due figure, diciamo così, attoriali. In realtà sarebbe un errore grossolano confondere queste due personaggi fra di loro e banalizzarne le capacità. Come sarebbe ancora più grave confondere i loro due elettorati. Che sono diversi evidentemente, anche se questa diversità non esclude affatto che siano esistiti e possano esistere flussi osmotici fra l’uno e l’altro schieramento. A dirigere questo traffico osmotico nell’una e nell’altra direzione – come succede per le membrane biologiche semipermeabili – c’è un comune denominatore e cioè il carattere post-ideologico e post-democratico dei due schieramenti.

La mancanza di vincoli ideologici apparenti (di fatto l’ideologia dell’antiideologia domina il tempo della postmodernità) rende agevole qualsiasi mutazione di rotta in termini di flusso dei consensi e con una rapidità senza precedenti. Per quanto riguarda la connotazione postdemocratica, ferma restando la sua ovvietà per il Pdl, ci si potrebbe obiettare che, invece, il movimento di Grillo appare iperdemocratico, anzi che è la rappresentazione plastica della democrazia diretta e partecipata resa possibile dalla rete. Ebbene, non scherziamo. E’ vero esattamente il contrario. E’ noto, infatti, che il 90% dei pronunciamenti in rete sono condizionabili e condizionati da abili manipolatori in grado di gestire quel marketing politico virale che ritrova in Casaleggio un maestro assoluto, come è chiara a tutti la struttura verticistica del Movimento cinque stelle.

Precisati questi (relativi) distinguo fra i due movimenti, vediamo ora che cosa decisamente li accomuna, perché capirlo significa rendersi conto di cosa è accaduto. Ebbene, credo che ad accomunare il successo, assoluto, del duo Grillo-Casaleggio e quello, relativo, ma indiscutibile dell’inossidabile cavaliere sia la straordinaria capacità di catturare l’attenzione del popolo dei media. Populismo mediatico è l’espressione chiave. Laddove il sostantivo e l’aggettivo rinviano a scenari di senso oggi completamente mutati, la cui mancata decodificazione è a mio giudizio la causa principale degli insuccessi della sinistra in generale e di Rifondazione in particolare. Osserviamoli meglio questi scenari: quelli relativi al popolo e quelli relativi ai massmedia.
Cominciamo col dire che il popolo della postmodernità è profondamente diverso da quello di venti, trenta anni fa. E’ un’altra cosa. Parole come consapevolezza e coscienza di classe sono diventate reperti archeologici. I tratti che caratterizzano questo nuovo popolo sono l’individualismo più sfrenato e becero e l’odio per la casta. Non esistono più differenze di classe fra padroni e lavoratori, anzi nella percezione comune non esistono proprio più le classi. Esiste solo una moltitudine indistinta e interclassista che subisce l’oppressione della crisi, dei partiti, del fisco e, casomai, quella di Equitalia. Niente di più. La corruzione dei politici è la causa di ogni male e le contraddizioni intrinseche del capitalismo si sono disperse nel vento. Ora non c’è dubbio che gli elementi rapidamente enucleati abbiano un fondamento di verità. Non c’è dubbio che la crisi morda come non mai, che i partiti hanno fatto del tutto per sputtanarsi, che esistano la corruzione, le mafie e la casta (anzi le caste), che il ceto medio abbia subito un processo di proletarizzazione che avvicina operai e piccoli imprenditori, ecc. ecc. Ma non c’è nemmeno dubbio che la contraddizione principale rimane quella fra capitale e lavoro. Ecco, di questa verità elementare, anche nell’elettorato tradizionalmente di sinistra, non esiste più traccia.

Si tratta di un profondo cambiamento antropologico che coincide con la fine delle grandi narrazioni, accelerata e portata a (post)maturazione dalla crisi economica ma che era stata ampiamente intuita dalla Scuola di Francoforte, da Guy Debord che scrisse di “Società dello spettacolo” e da Pier Paolo Pasolini. Le previsioni di questi pensatori, che già intravedevano spaventosi processi di regressione omologante sin dagli anni Sessanta (e anche prima), sono state rese più cogenti dalla ristrutturazione capitalistica degli anni Ottanta e poi dalla scomparsa dell’Unione sovietica alla quale è seguito quello che sappiamo. Tutto questo, detto a spanne, sul popolo per come è diventato oggi.

Per quanto riguarda i media esiste una letteratura sconfinata che ne analizza e spiega l’importanza nel mondo di oggi (Mc Luhan, Baudrillard, Virilio con le sue teorie sul “cyber cult” ecc.). Basterà dire, per gli scopi che mi sono riproposto in questa riflessione, che Berlusconi incarna perfettamente da venti anni a questa parte la figura del dominus delle televisioni, per il motivo semplicissimo che le possiede e le controlla in modo magistrale (esiste anche un magistero del male). Per quanto riguarda Grillo gli va riconosciuta l’idea geniale di averle occupate permanentemente le televisioni, proprio rifiutandosi di andarci. Il cotè della comunicazione in rete lo ha curato da par suo Casaleggio. I bagni di folla e le nuotate di Grillo hanno fatto il resto. A tutto questo il centro-sinistra ha risposto con il grigiore un po’ condominiale di Bersani. E Rivoluzione civile con la figura più sbiadita che si poteva, un magistrato (per altro degnissimo) che ha sussurrato fiaccamente una lingua sconosciuta alla gente.

La cosa che va sottolineata, a questo punto, è che gli scenari sommariamente descritti non sono attivi solo nel condizionare le vicende della politica ma finiscono per condizionare tutti gli ambiti della vita civile e culturale. E’ questo che va compreso per non cadere nell’errore di considerare la politica una “una sporca cosa a sé”. Profonde modificazioni sono state introdotte dal relativismo postmoderno e dal pensiero unico neoliberista mediatizzato (che ne è il figlio trionfante), in settori fra di loro apparentemente diversi. Nell’arte per esempio, come nella musica e nella letteratura, si è assistito a processi di mercificazione spaventosi (ben studiati recentemente da Diego Fusaro nel suo “Minima mercatalia”) che hanno completamente isterilito la ricerca della qualità e il senso estetico diffuso. La medicina, una dottrina antichissima e nobilissima, è stata completamente americanizzata. E gli esempi potrebbero continuare all’infinito.
Non prendere atto di tutto questo è stato un errore gravissimo. Lo è stato nel non capire che per sviluppare un movimento controegemonico all’altezza dell’offensiva capitalistica ci volevano anni e, nel frattempo, occorreva prendere atto dell’imporsi di un senso comune omologante e immiserito, derubato del “lusso” di qualsiasi attitudine all’intelligenza critica, un senso comune che decretava il trionfo di una cultura leaderistico-carismatica. Quella stessa che a volte ha prodotto persino eventi positivi cui abbiamo contribuito, come l’elezione di De Magistris a sindaco di Napoli o quella diversamente connotata ma omologa di Pisapia a sindaco di Milano. Quello che si intende dire è che, al netto della necessità di un recupero controegemonico, ciò che occorreva ed occorre adesso è non perdere definitivamente terreno. Per farlo bisogna studiare il nemico e imitarlo se occorre (nei mezzi, ovviamente non nei fini). In questo senso la riflessione sul Principe di Machiavelli suggerita da Angelo D’Orsi è preziosa. Bisogna non confondere l’”essere” con un kantiano ed astratto “dover essere”. Lo so che a noi la cultura del leader non piace (anche se poi, a complicare le cose, i Lenin, i Togliatti, i Che Guevara, i Berlinguer sono figli della storia nostra e non di quella di altri). Ma purtroppo oggi non fare i conti con essa è semplicemente suicida.

Che cosa voglio dire ve lo spiego con un esempio. Se al posto di Ingroia alla testa di Rivoluzione civile ci fosse stato Landini (con lo stesso programma di Ingroia) sono certo che il quorum sarebbe stato superato. Ecco perché bisogna cambiare stile, facce, politica, modalità di approccio alla comunicazione. La determinazione e la radicalità di Landini (ma il nome poteva essere un altro) avrebbe comunicato alla gente un messaggio comprensibile e trascinante. Questo non lo abbiamo capito. E oggi la nostra monotona e floscia coazione a ripetere rischia di ucciderci.

Finalmente quello che si poteva capire anche prima è chiaro come la luce del sole. Non ci sono più scuse. E’ chiaro che la gente preferisce Renzi a Bersani. Come è chiaro che il nuovo Papa in due giorni ha conquistato le folle con l’aiuto dei media e di una non comune abilità comunicativa. E allora, la triste verità è che uno schermo televisivo o il video di un computer sono diventati più importanti di mille assemblee che, oltretutto, non possiamo più organizzare perché siamo rimasti quattro gatti. E quindi scoraggiarci non serve a niente. Bisogna cambiare tutto. Non è più il tempo dei partiti di massa. Bisogna pensare che l’ipotesi della rivoluzione non può ripartire dalla guerra di classe ma dalla guerriglia mediatica. Con spirito giacobino e con mentalità del tutto riformata dobbiamo ricominciare ad osare. A partire dal riconoscimento della nostra colpevole inadeguatezza. Se ci prende lo sconforto, pensiamo al 26 luglio, all’attacco alla Moncada (loro erano meno di noi), non per prendere il fucile ma per riprendere il coraggio.

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