Intervento di Bruno Steri al Comitato politico nazionale del PRC del 5 gennaio 2013
Ho
condiviso il percorso e l’obiettivo che la maggioranza di questo
partito si è data: la costituzione di un cartello elettorale “No Monti”,
contro le destre (quelle populiste e sfasciste come quelle liberiste e
in doppio petto) e in alternativa al centro-sinistra. Ribadisco: un polo
elettorale “No Monti” (che non è la stessa cosa di un “polo della
sinistra di alternativa”, anche se ambisce a porsi in una tale
prospettiva). Un’impresa che non si presentava affatto semplice, legata
alla possibilità di reperire una coalizione di forze che si ponessero il
suddetto obiettivo e di disporre di un candidato a capo del governo che
fosse credibile (come l’attuale legge elettorale impone); ma,
soprattutto, al fine di riportare dei comunisti nel Parlamento
nazionale. Il risultato è stato conseguito e non era per nulla scontato.
Né si può dire che sia piovuto dal cielo: le opportunità si colgono se
si è arato bene il terreno, se si muove da un’analisi plausibile. I
fatti hanno dimostrato che avevamo ragione nel ritenere fuori portata
l’ipotesi di un patto di governo col Pd (a meno di non cambiare
radicalmente pelle, come accaduto a Sel, e passare nel campo del
socialismo europeo): quelli che, a sinistra, hanno inteso spingere su
tale obiettivo sono rimasti a secco e sono stati costretti a tornare sui
propri passi. Né si può scoprire ora l’esiguità di ciò che si ottiene,
l’esigua consistenza numerica della pattuglia parlamentare del partito,
posto che si superi la soglia del 4%: la quota parte di una ventina di
deputati in tutto. Il risultato non è certo eclatante; ma è molto, se
consideriamo la condizione in cui ci trovavamo anche solo un mese fa. Il
percorso fatto si è posto un obiettivo non scontato, ma era l’unico
percorso possibile. Ora dobbiamo investire con decisione su questa lista
“No Monti”: il suo impatto elettorale dipende da noi.
Era questo l’esito ottimale? Certamente
no. Non resto certo insensibile, ad esempio, alla sollecitazione di
insigni costituzionalisti, oltre che compagni stimati, come Gaetano
Azzariti e Gianni Ferrara, i quali criticano fortemente l’inclusione nel
simbolo del nome del candidato a premier, emblematica esemplificazione
della personalizzazione della politica. Come potrei glissare su di una
tale critica, io che sin dall’inizio ho criticato Nichi Vendola su
questa medesima questione? Mi guardo bene dal contrastarne il merito;
dico solo che essa non può, non deve spingersi fino a trascurare il
contesto in cui le scelte si compiono, scelte tese a salvare un
prevalente che consideriamo essenziale. Allo stesso modo, anch’io vedo
la necessità di irrobustire dal lato della politica economica e sociale
il profilo politico della lista: un compito che è di fatto affidato al
Prc. E guardo con un filo di preoccupazione ad un eventuale dibattito
che vedesse Antonio Ingroia contrapposto a contendenti quali ad esempio
Mucchetti o Tremonti, assai ferrati sui temi dell’economia. Capisco i
dubbi dei compagni; ma non dobbiamo vedere solo e sempre la parte vuota
del bicchiere. Dobbiamo dare un’analisi compiuta del quadro. Mi chiedo:
c’è poi così da sorprendersi se, ad un certo punto della storia del
nostro Paese – un Paese che, lo ricordo, è l’Italia e non la Svezia – l’
“astuzia della ragione” ha tirato fuori dal cappello un candidato per
la sinistra come Antonio Ingroia? Io penso proprio di no: non c’è
affatto da sorprendersi. Non voglio arrivare a dire che tutto ciò che è
reale è razionale; dico però che spesso c’è una ratio, una logica in ciò
che accade.
In proposito porto due argomentazioni a
favore del candidato della nostra lista, una più dislocata su una sua
efficacia propagandistica, l’altra più di sostanza. Tra i dati del
recente rapporto Censis, ce n’è uno che ha colpito la mia attenzione:
quasi la metà degli italiani, dei cittadini del nostro Paese, a domanda
precisa risponde che la causa dell’attuale crisi (che, come sappiamo, è
sistemica e strutturale) sia “la corruzione”. Non dunque il modo di
produzione capitalistico, non la finanziarizzazione dell’economia, non
l’ineguale distribuzione della ricchezza ecc ecc. No. Per quasi la metà
(la metà!) degli italiani la causa è la corruzione. Evidentemente, si
tratta di una colossale sciocchezza. Ma non è questo il punto: dobbiamo
toglierci gli occhiali del nostro apparato concettuale, di quel che
riteniamo persino ovvio, e guardare al “Paese reale”. Ebbene, il Paese
reale è quello in cui la metà dei cittadini sono convinti che la
corruzione sia alla base della crisi di sistema. Io penso che in un
Paese così, un candidato come Antonio Ingroia possa riscuotere consenso,
perché parla a tanta gente onesta (magari non comunista e nemmeno di
sinistra), ma che sente con grande intensità la “questione morale”, che
pure avvolge (e affligge) il nostro Paese.
Vengo alla questione di sostanza. Nella
storia italiana di questi ultimi decenni, due sono stati i pilastri, i
punti-chiave intangibili, quelli che la politica non poteva neanche
sfiorare. Il primo, fino a quando il mondo è stato diviso in due blocchi
(atlantico e sovietico), era la collocazione internazionale
dell’Italia: la sua messa in questione ci è costata alcune centinaia di
morti civili, dilaniati da bombe “di Stato”. Quel mondo non esiste più e
conseguentemente va aggiornata l’analisi della nostra dimensione
internazionale, ma il secondo pilastro cui ho fatto riferimento è ancora
perfettamente vigente: ed è non tanto la “mafia”, quanto più
precisamente il rapporto tra politica e “mafia” (intendendo con tale
termine i poteri criminali propriamente detti e, in generale, la
galassia del malaffare). Anche questo nodo è intangibile, nel senso che
costituisce essenzialmente la specificità del capitalismo italiano,
inerisce alla sua peculiare struttura di potere. Se ciò è vero, dissento
da alcune valutazioni che talvolta ho sentito e che concernono Antonio
Ingroia: da questo punto di vista, egli è un vero e proprio
“estremista”, uno che non si piega alla struttura di potere vigente. Si
potrà dire che si tratta di un estremismo che fa leva sulla parte
migliore dei valori liberali. In ogni caso, esso configura una posizione
che si contrappone senza mediazioni ai poteri forti del nostro Paese.
Per questo, personalmente non ho mai creduto che, stante una tale
estrema collocazione sul terreno degli assetti istituzionali e di
potere, vi fossero spazi politici per un recupero di rapporti col
Partito Democratico. So bene che in quel partito c’è tanta gente che
pone sinceramente il tema della “questione morale”; ma so anche che,
nonostante ciò, le mediazioni che deve costruire la forza-guida di un
patto di governo per questo Paese impongono di non oltrepassare una
certa soglia di compatibilità. In questo preciso senso, Ingroia è un
estremista.
Starà poi a noi correggere il profilo
prevalentemente “giuridico” della lista, immettendo dosi massicce di
“sociale” e “lotta di classe”.
Un’ultima osservazione sulla formazione
delle liste. Credo che sia giusto, data l’esiguità del numero di
deputati del Prc da eleggere, candidare in posizione di eleggibilità
uomini e donne del gruppo dirigente del partito. Piuttosto, penso si
debba portare grande attenzione a dove presentare i candidati, in quale
collegio: perché non è detto che ogni candidato vada bene per ogni
collegio. Da questo punto di vista, è pertinente l’attenzione alle
relazioni che legano i singoli candidati ai diversi territori. Anche di
questo occorrerà discutere con i nostri compagni di strada.
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