È comune defetto degli uomini, non fare conto, nella bonaccia, della tempesta.
N. Machiavelli
N. Machiavelli
1. Introduzione
La crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo le debolezze dello sviluppo del capitalismo negli ultimi decenni, dimostrando la natura propagandistica delle teorie economiche che ne magnificavano le sorti. Come ha osservato Paul Krugman: “la maggior parte della teoria macroeconomica degli ultimi 30 anni è stata, nel migliore dei casi, clamorosamente inutile, attivamente dannosa nei peggiori”. I governi sono stati costretti a intraprendere politiche ritenute fino a poco prima preistoriche dai fan del libero mercato arrivando alla nazionalizzazione delle banche. Si sono levati cori di critiche per le politiche economiche dominanti di questo ultimo quarto di secolo e sono partite molteplici iniziative di riforma del sistema finanziario. Non si tratta però di un cambio di rotta. Passata la tempesta, si tornerà indietro, perché le cause della crisi sono radicate nell’essenza del modello di accumulazione capitalistico.
Per anni, è sembrato che non ci fosse alternativa teoria e pratica alla globalizzazione capitalistica. La crisi ha dimostrato quanto invece sia necessario sviluppare o meglio riscoprire una teoria e una politica radicalmente differenti che possano fornire, tra l’altro, una spiegazione efficace delle ricorrenti crisi finanziarie. L’ampiezza e la pervasività della crisi sono tali da far spesso dimenticare che si tratta dell’ultima di una serie di crisi che hanno colpito i mercati finanziari negli ultimi decenni. Ad esempio, in un recente lavoro della Banca dei Regolamenti Internazionali, vengono identificate 40 crisi bancarie sistemiche solo negli ultimi 35 anni e gli autori devono concludere che: “le crisi finanziarie sono più frequenti di quanto si creda e portano a perdite che sono molto maggiori di quanto si spererebbe”1. Così come con l’esplosione della bolla dei subprime, dopo ogni crisi sono emerse riflessioni teoriche e politiche sulla fragilità dei mercati, sull’inadeguatezza delle regole, sull’eccesso di leva finanziaria delle banche. Queste riflessioni si sono rivelate effimere, poiché una nuova bolla finanziaria ha messo a tacere i malumori. La crescita economica mondiale è sembrata una risposta sufficiente a ogni osservazione critica sull’architettura dei mercati finanziari internazionali e dunque, per estensione, una conferma della teoria che ne spiegava il funzionamento.
D’altra parte, anche le crisi principali risultavano comunque circoscritte geograficamente o settorialmente. Una crisi generalizzata della finanza, sul modello del ‘29, era ritenuta impossibile. Ciò perché quella crisi, nella spiegazione mainstream, era stata determinata da errori grossolani dei governi e delle banche centrali che nessuno avrebbe più commesso. Questa ipotesi, legata soprattutto ai nomi di Milton Friedman e Anna Schwartz, era considerata a tal punto inattaccabile che l’attuale Presidente della Federal Reserve nel 2002, in una conferenza per l’appunto in onore di Friedman concluse così: “Vorrei dire a Milton e Anna: riguardo alla Grande Depressione. Avete ragione, lo abbiamo fatto. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a voi, non lo rifaremo un’altra volta”2. Sarebbe interessante sapere se vorrebbe ringraziarli ancora.
Ancora nel 2007, proprio alla vigilia dell’esplosione della bolla subprime, è stato pubblicato il testo The Economics of the Great Depression, che raccoglie le interviste con alcuni degli economisti più famosi al mondo, specialisti della materia, a cui è stato chiesto di delineare una spiegazione della crisi del ‘29 (che di solito era vicina a quella sopra indicata). A chiusura di ogni colloquio, il curatore del testo, Parker, domanda se, a giudizio dell’intervistato, una crisi del genere potrebbe ripetersi. Tutti categoricamente lo escludono, ad eccezione proprio di Bernanke, che formula giudizi meno perentori. Il prof. Cecchetti osserva, ad esempio: “oggi lasciamo fallire le banche ma lo facciamo in una maniera pensata per evitare il panico. Il fallimento di una banca oggi sarebbe quasi invisibile ai suoi clienti perché finirebbe in un week end” (AA VV, a cura di Parker, 2007, p. 165). Dopo il fallimento di Northern Rock o Lehman Brothers, pochi manterrebbero questa posizione. Allo stesso modo, nella sua autobiografia, pubblicata nel settembre del 2007, Alan Greenspan spiegava: “dirò ai miei lettori che abbiamo di fronte non una bolla ma un po’ di schiuma – molte piccole crisi locali che non cresceranno mai a una scala tale da minacciare la salute dell’economia nel suo complesso” (Greenspan, 2007). Ancora durante la crisi, un esito catastrofico appariva impossibile. Il 22 agosto del 2008 a una cena tra personalità dell’economia, discutendo dell’eventualità di una situazione “giapponese” di anni di stagnazione, Bernanke spiegò che “abbiamo capito così tanto dalla Grande Depressione e dal Giappone che non avremo nessuna delle due” (Sorkin, 2009, p. 221). Se questo era il clima tra i cosiddetti esperti di economia, la stampa, soprattutto quella specializzata, andava oltre, contribuendo a creare un clima di euforia in cui sembrava che tutti potessero arricchirsi facilmente, sapendo cogliere le giuste occasioni.
Quando la crisi è esplosa, dopo un primo momento di incertezza e di negazione, sono fiorite molteplici spiegazioni la cui base comune risiede nell’escludere che il problema sia nelle basi stesse dello sviluppo economico e abbia invece natura esogena. Non avendo un’analisi seria del problema, le spiegazioni estemporanee si sono moltiplicate, affollandosi una accanto all’altra senza nemmeno un tentativo di connetterle. In definitiva, nulla di serio. C’è da dire che sotto la spinta della necessità di capire la crisi, sì è tornati a parlare di autori borghesi eterodossi, come Minsky e Kindleberger, che hanno fornito osservazioni interessanti sulle crisi finanziarie. All’apice del panico bancario, sono anche stati pubblicati articoli che citavano le analisi di Marx, mentre Keynes è stato nuovamente sdoganato, ma in fondo si tratta di un economista liberale, seppure eterodosso3. Appena il panico si è attenuato, il tutto è stato dimenticato e i paladini del mercato hanno riconquistato saldamente le posizioni. Certo, come per gli economisti della scuola austriaca negli anni ‘30, anche all’apice della crisi attuale c’erano economisti che continuavano a difendere la bontà delle politiche di laissez-faire e proponevano una totale non interferenza pubblica, e proprio come allora, gli strateghi della borghesia li hanno abbandonati al loro mondo immaginario, scegliendo strade che consentissero al capitalismo di sopravvivere, che è ciò che interessa alla classe dominante, al di là delle ideologie e delle teorie.
In questo lavoro cercheremo di gettare uno sguardo sui meccanismi della crisi ricorrendo a quello che per gli economisti classici e per Marx era il principio unificatore della dinamica del sistema capitalistico e che consente di fornire una spiegazione endogena della crisi e degli effetti che essa ha sui comportamenti degli agenti economici: la dinamica del saggio di profitto. Vedremo che, una volta compresa questa dinamica, le altre tessere del mosaico trovano la loro giusta collocazione. In definitiva avremo una spiegazione endogena, unitaria e di lungo periodo della crisi, tutto ciò che le spiegazioni ufficiali non possono darci.
2. Il meccanismo della crisi: la parabola del saggio di profitto settoriale
Gli economisti classici comprendevano bene le basi della dinamica capitalistica, anche se non ne vedevano le contraddizioni, all’epoca solo iniziali. La contraddizione fondamentale tra lo sviluppo continuo delle forze produttive e la forma limitata che a questo sviluppo danno i rapporti di produzione borghesi determina che, con il procedere dell’accumulazione di capitale, il saggio di profitto tende a ridursi. Ciò spinge i capitalisti alla ricerca di innovazioni che contrastino tale tendenza, sia all’interno dei settori economici già stabiliti, sia con la creazione di nuovi settori. Ogni singolo capitalista cerca le occasioni di investimento a maggiore saggio di profitto; la ricerca del profitto più elevato, attraverso lo spostamento dei capitali tra i settori, determina la convergenza verso un saggio medio del profitto. Il saggio di profitto dei nuovi settori economici, maggiore della media, tende, con l’affluire di nuovi investimenti, a ridursi sino al saggio medio generale. Abbiamo dunque due dinamiche convergenti: i saggi di profitto dei nuovi settori tendono, con il maturare del settore, a ridursi; il saggio di profitto generale tende a ridursi per il maturare complessivo del capitalismo. Marx ha approfondito queste tendenze ma il meccanismo è già in Adam Smith:
La crisi finanziaria internazionale ha messo a nudo le debolezze dello sviluppo del capitalismo negli ultimi decenni, dimostrando la natura propagandistica delle teorie economiche che ne magnificavano le sorti. Come ha osservato Paul Krugman: “la maggior parte della teoria macroeconomica degli ultimi 30 anni è stata, nel migliore dei casi, clamorosamente inutile, attivamente dannosa nei peggiori”. I governi sono stati costretti a intraprendere politiche ritenute fino a poco prima preistoriche dai fan del libero mercato arrivando alla nazionalizzazione delle banche. Si sono levati cori di critiche per le politiche economiche dominanti di questo ultimo quarto di secolo e sono partite molteplici iniziative di riforma del sistema finanziario. Non si tratta però di un cambio di rotta. Passata la tempesta, si tornerà indietro, perché le cause della crisi sono radicate nell’essenza del modello di accumulazione capitalistico.
Per anni, è sembrato che non ci fosse alternativa teoria e pratica alla globalizzazione capitalistica. La crisi ha dimostrato quanto invece sia necessario sviluppare o meglio riscoprire una teoria e una politica radicalmente differenti che possano fornire, tra l’altro, una spiegazione efficace delle ricorrenti crisi finanziarie. L’ampiezza e la pervasività della crisi sono tali da far spesso dimenticare che si tratta dell’ultima di una serie di crisi che hanno colpito i mercati finanziari negli ultimi decenni. Ad esempio, in un recente lavoro della Banca dei Regolamenti Internazionali, vengono identificate 40 crisi bancarie sistemiche solo negli ultimi 35 anni e gli autori devono concludere che: “le crisi finanziarie sono più frequenti di quanto si creda e portano a perdite che sono molto maggiori di quanto si spererebbe”1. Così come con l’esplosione della bolla dei subprime, dopo ogni crisi sono emerse riflessioni teoriche e politiche sulla fragilità dei mercati, sull’inadeguatezza delle regole, sull’eccesso di leva finanziaria delle banche. Queste riflessioni si sono rivelate effimere, poiché una nuova bolla finanziaria ha messo a tacere i malumori. La crescita economica mondiale è sembrata una risposta sufficiente a ogni osservazione critica sull’architettura dei mercati finanziari internazionali e dunque, per estensione, una conferma della teoria che ne spiegava il funzionamento.
D’altra parte, anche le crisi principali risultavano comunque circoscritte geograficamente o settorialmente. Una crisi generalizzata della finanza, sul modello del ‘29, era ritenuta impossibile. Ciò perché quella crisi, nella spiegazione mainstream, era stata determinata da errori grossolani dei governi e delle banche centrali che nessuno avrebbe più commesso. Questa ipotesi, legata soprattutto ai nomi di Milton Friedman e Anna Schwartz, era considerata a tal punto inattaccabile che l’attuale Presidente della Federal Reserve nel 2002, in una conferenza per l’appunto in onore di Friedman concluse così: “Vorrei dire a Milton e Anna: riguardo alla Grande Depressione. Avete ragione, lo abbiamo fatto. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a voi, non lo rifaremo un’altra volta”2. Sarebbe interessante sapere se vorrebbe ringraziarli ancora.
Ancora nel 2007, proprio alla vigilia dell’esplosione della bolla subprime, è stato pubblicato il testo The Economics of the Great Depression, che raccoglie le interviste con alcuni degli economisti più famosi al mondo, specialisti della materia, a cui è stato chiesto di delineare una spiegazione della crisi del ‘29 (che di solito era vicina a quella sopra indicata). A chiusura di ogni colloquio, il curatore del testo, Parker, domanda se, a giudizio dell’intervistato, una crisi del genere potrebbe ripetersi. Tutti categoricamente lo escludono, ad eccezione proprio di Bernanke, che formula giudizi meno perentori. Il prof. Cecchetti osserva, ad esempio: “oggi lasciamo fallire le banche ma lo facciamo in una maniera pensata per evitare il panico. Il fallimento di una banca oggi sarebbe quasi invisibile ai suoi clienti perché finirebbe in un week end” (AA VV, a cura di Parker, 2007, p. 165). Dopo il fallimento di Northern Rock o Lehman Brothers, pochi manterrebbero questa posizione. Allo stesso modo, nella sua autobiografia, pubblicata nel settembre del 2007, Alan Greenspan spiegava: “dirò ai miei lettori che abbiamo di fronte non una bolla ma un po’ di schiuma – molte piccole crisi locali che non cresceranno mai a una scala tale da minacciare la salute dell’economia nel suo complesso” (Greenspan, 2007). Ancora durante la crisi, un esito catastrofico appariva impossibile. Il 22 agosto del 2008 a una cena tra personalità dell’economia, discutendo dell’eventualità di una situazione “giapponese” di anni di stagnazione, Bernanke spiegò che “abbiamo capito così tanto dalla Grande Depressione e dal Giappone che non avremo nessuna delle due” (Sorkin, 2009, p. 221). Se questo era il clima tra i cosiddetti esperti di economia, la stampa, soprattutto quella specializzata, andava oltre, contribuendo a creare un clima di euforia in cui sembrava che tutti potessero arricchirsi facilmente, sapendo cogliere le giuste occasioni.
Quando la crisi è esplosa, dopo un primo momento di incertezza e di negazione, sono fiorite molteplici spiegazioni la cui base comune risiede nell’escludere che il problema sia nelle basi stesse dello sviluppo economico e abbia invece natura esogena. Non avendo un’analisi seria del problema, le spiegazioni estemporanee si sono moltiplicate, affollandosi una accanto all’altra senza nemmeno un tentativo di connetterle. In definitiva, nulla di serio. C’è da dire che sotto la spinta della necessità di capire la crisi, sì è tornati a parlare di autori borghesi eterodossi, come Minsky e Kindleberger, che hanno fornito osservazioni interessanti sulle crisi finanziarie. All’apice del panico bancario, sono anche stati pubblicati articoli che citavano le analisi di Marx, mentre Keynes è stato nuovamente sdoganato, ma in fondo si tratta di un economista liberale, seppure eterodosso3. Appena il panico si è attenuato, il tutto è stato dimenticato e i paladini del mercato hanno riconquistato saldamente le posizioni. Certo, come per gli economisti della scuola austriaca negli anni ‘30, anche all’apice della crisi attuale c’erano economisti che continuavano a difendere la bontà delle politiche di laissez-faire e proponevano una totale non interferenza pubblica, e proprio come allora, gli strateghi della borghesia li hanno abbandonati al loro mondo immaginario, scegliendo strade che consentissero al capitalismo di sopravvivere, che è ciò che interessa alla classe dominante, al di là delle ideologie e delle teorie.
In questo lavoro cercheremo di gettare uno sguardo sui meccanismi della crisi ricorrendo a quello che per gli economisti classici e per Marx era il principio unificatore della dinamica del sistema capitalistico e che consente di fornire una spiegazione endogena della crisi e degli effetti che essa ha sui comportamenti degli agenti economici: la dinamica del saggio di profitto. Vedremo che, una volta compresa questa dinamica, le altre tessere del mosaico trovano la loro giusta collocazione. In definitiva avremo una spiegazione endogena, unitaria e di lungo periodo della crisi, tutto ciò che le spiegazioni ufficiali non possono darci.
2. Il meccanismo della crisi: la parabola del saggio di profitto settoriale
Gli economisti classici comprendevano bene le basi della dinamica capitalistica, anche se non ne vedevano le contraddizioni, all’epoca solo iniziali. La contraddizione fondamentale tra lo sviluppo continuo delle forze produttive e la forma limitata che a questo sviluppo danno i rapporti di produzione borghesi determina che, con il procedere dell’accumulazione di capitale, il saggio di profitto tende a ridursi. Ciò spinge i capitalisti alla ricerca di innovazioni che contrastino tale tendenza, sia all’interno dei settori economici già stabiliti, sia con la creazione di nuovi settori. Ogni singolo capitalista cerca le occasioni di investimento a maggiore saggio di profitto; la ricerca del profitto più elevato, attraverso lo spostamento dei capitali tra i settori, determina la convergenza verso un saggio medio del profitto. Il saggio di profitto dei nuovi settori economici, maggiore della media, tende, con l’affluire di nuovi investimenti, a ridursi sino al saggio medio generale. Abbiamo dunque due dinamiche convergenti: i saggi di profitto dei nuovi settori tendono, con il maturare del settore, a ridursi; il saggio di profitto generale tende a ridursi per il maturare complessivo del capitalismo. Marx ha approfondito queste tendenze ma il meccanismo è già in Adam Smith:
“L’introduzione
di una nuova industria, di un nuovo ramo di commercio o di una
qualsiasi nuova pratica agricola è sempre una speculazione dalla quale
l’imprenditore si attende profitti straordinari. Questi profitti sono
talvolta molto elevati, talaltra, più spesso, non lo sono affatto; ma in
generale essi non sono proporzionati a quelli delle altre vecchie
attività della zona. Se il progetto riesce, all’inizio essi sono
normalmente altissimi. Ma via via che l’attività o la pratica diventa
bene affermata e conosciuta, la concorrenza li riduce al livello delle
altre” (Smith, 1776, 2006, p. 214).
La concorrenza è il meccanismo attraverso il quale i saggi di profitto settoriali sono perequati a una media che tende di per sé a scendere. Come noto, Smith, Ricardo e Marx propongono cause differenti per il trend discendente (la concorrenza, la rendita fondiaria, l’aumento della composizione organica del capitale). Non ci interessa qui approfondire tali differenze ma ne cogliamo, invece, l’aspetto comune. Poiché il saggio generale del profitto si riduce, e nei nuovi settori la concorrenza tende a riportare il saggio del profitto a quello medio, i capitalisti innovano per arginare la diminuzione dei profitti mettendo in atto quella che Schumpeter chiamava “distruzione creatrice”. L’innovazione, la nascita di nuovi processi produttivi e prodotti sono ciò che consente la sopravvivenza al singolo capitalista.
Partendo dal fatto che l’innovazione e la concorrenza determinano la nascita di nuovi settori e la parabola del relativo saggio di profitto, è possibile comprendere la dinamica delle bolle speculative che accompagnano le ondate di nuovi investimenti. È la proprietà privata dei mezzi di produzione che determina la natura decentrata e individuale degli investimenti e dunque, attraverso l’operare della concorrenza, produce le bolle speculative. Ogni capitalista persegue la massimizzazione del proprio profitto e ciò genera, a livello generale, ondate di sovra-investimenti nei nuovi settori che conducono alla formazione e allo scoppio delle bolle finanziarie. Sintetizza efficacemente Kindleberger: “l’azione di ciascun individuo è razionale, o meglio lo sarebbe, se non fosse per il fatto che altri si comportano allo stesso modo” (Kindleberger, 2005, p. 78). La razionalità nell’affrettarsi sta nel fatto che il primo innovatore ottiene un saggio di profitto superiore alla media e, per le banche, è razionale finanziare tali investimenti perché produrranno per loro maggiori profitti. Tuttavia, la generalizzazione dell’utilizzo dell’innovazione ne riduce la profittabilità fino a pareggiare, almeno come tendenza, i saggi di profitto settoriali.
Il concreto dispiegarsi di questo meccanismo è strettamente legato alle modalità con cui sono finanziati gli investimenti, ossia al ruolo delle banche quali finanziatrici della bolla. Come osservò Minsky, soltanto ciò che è finanziato può avvenire. Non basta che un inventore sviluppi un nuovo prodotto o processo produttivo se questa novità non trova finanziamenti. Per questo, spesso intercorre un notevole lasso di tempo tra un’invenzione scientifica e il boom del corrispondente settore. Non sono le idee che muovono in avanti il capitalismo, ma gli investimenti e i profitti.
La fase ascendente di un ciclo deriva dalla nascita di una nuova attività (sia essa un prodotto, un procedimento produttivo) che incorpora una profittabilità maggiore della media. In questa prima fase, il nuovo settore vede un pullulare di micro-imprese in lotta per imporsi, quelle che nel settore informatico vennero definite aziende-garage, le cui sopravvissute sono Apple, Microsoft, Google. Quando l’attività inizia a richiamare l’attenzione dei consumatori, la capacità produttiva è ancora ridotta, in quanto dimensionata su un mercato di nicchia. È questo il momento in cui “tutti vogliono entrare”. Questo vale per i produttori ma anche per i finanziatori. Per questo può succedere che i titoli connessi a questa nuova attività crescano ancor prima che il settore diventi profittevole, perché le banche e gli altri intermediari finanziari, ma anche i risparmiatori, si attendono di fare buoni affari in seguito. Il maggior saggio di profitto del settore garantisce e, dal lato del finanziamento, esige, un rendimento maggiore dell’investimento. Anche questa caratteristica era ben nota ai classici:
“…sebbene possa essere
impossibile determinare con qualche grado di precisione quali siano o
siano stati i profitti medi del capitale…ci si può formare una nozione
di essi considerando l’interesse del denaro. Si può assumere come
massima che ovunque si possano fare molti profitti con l’uso del denaro,
sarà normalmente dato molto per il suo uso”4.
Dunque, il saggio d’interesse su quei crediti sarà più elevato, le obbligazioni di quel settore avranno un rendimento maggiore, le sue azioni pagheranno dividendi più alti o saliranno più della media e così via.
La fase del picco del boom è quella in cui si sviluppa facilmente la mania, come la definì Kindleberger. Tutti investono nella nuova attività, ampliando la capacità produttiva e, le banche, finanziando l’ampliamento. La mania si esprime, innanzitutto, con un aumento massiccio della capacità produttiva nell’attività e della sua domanda. Poiché l’output sta aumentando, ma il saggio settoriale del profitto è ancora maggiore della media, i profitti sono eccezionali, attirando investitori e finanziatori. Nella fase di ascesa della bolla, il rush degli investitori per finanziare l’espansione produttiva è tale che il valore dei titoli legati all’attività inizia a sganciarsi dal sottostante economico perché la domanda continua a eccedere l’offerta. La maggiore redditività consente di attirare una domanda che, a sua volta, aumenta i profitti che tali titoli generano.
Sebbene possa già essere chiaro a molti operatori l’insostenibilità a medio termine del trend, rimanere fuori non assicura di trovarsi in una situazione migliore nella fase successiva, mentre provoca critiche da parte di azionisti e clienti perché come osserva Keynes: “la saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale anziché riuscire in modo anticonvenzionale”. Quando il boom dura da un sufficiente periodo di tempo, comincia a trasmettersi ai settori vicini. Ciò ha innanzitutto una componente reale, perché, ad esempio, si investe in aziende che producono merci input per il settore che sperimenta l’euforia iniziale. Inoltre, vi è un aspetto finanziario: l’afflusso massiccio e immediato di finanziamenti non può subito scaricarsi interamente sul nuovo settore, che necessita di tempo per espandere la capacità produttiva e beneficia dunque i settori limitrofi. Con il passare del tempo, il fronte della speculazione contagia tutti i settori economici. Col senno di poi, si vedrà che i progetti hanno un contenuto economico sempre meno razionale, i criteri di erogazione del credito sono sempre meno stringenti. All’apice della mania si verificano comportamenti euforici, più interessanti per l’analisi della psiche che per quella dell’economia, che si esprimono in forme tipiche e ricorrenti, dalla ricerca di ogni mezzo per investire nel settore alle truffe5.
All’acme della bolla, la base reale da cui il ciclo si era sviluppato è ormai solo un pretesto, che si trattasse delle ricchezze di paesi lontani, dell’uso di una nuova tecnologia o di un’invenzione di primaria importanza. La funzione del credito, che consente di moltiplicare gli investimenti, consente alla bolla di raggiungere picchi maggiori e in minor tempo. Una volta raggiunto l’apice, non c’è alcun modo per evitare che la bolla esploda in modo dirompente. Il singolo investitore può salvarsi, uscendo prima del crollo, ma quanto prima tale comportamento si generalizza, tanto più rapidamente si scatena la crisi.
La transizione precipitosa verso l’uscita dal settore fa emergere allo scoperto la contraddizione incarnata da ogni bolla speculativa, ossia la presunzione che la nuova attività incorpori strutturalmente un saggio di profitto maggiore della media, il che va contro la logica inesorabile della perequazione dei saggi di profitto settoriali a sua volta frutto della ricerca della massimizzazione del profitto, la molla che muove il mondo.
In questa fase si assiste al consolidamento delle aziende del settore, che si riducono drasticamente di numero aumentando le loro dimensioni, stabilizzando la capacità produttiva e i profitti. Ciò avviene in maniera disordinata nel singolo settore e spesso più in generale. La possibilità di circoscrivere la crisi dipende da una serie di circostanze, tra cui la situazione del sistema bancario. Quanto maggiore è la leva finanziaria, ossia l’indebitamento di stati, famiglie imprese e banche, quanto più l’esplosione della bolla può trasformarsi in una crisi generale del capitalismo. L’esito finale della bolla, stagnazione prolungata o rapida ripresa, dipende da una serie di fattori. Keynes, nel sintetizzare i metodi per uscire dalla recessione indicava: “il normale processo delle invenzioni e del progresso; il deperimento del capitale esistente; una caduta del saggio d’interesse; la libera attuazione di programmi di investimento da parte del governo, oppure la guerra”6. In sintesi, a meno che un’altra innovazione sufficientemente pervasiva non inverta la rotta, l’unica via di uscita dalla crisi è l’intervento dello stato. Tale intervento può anche consistere nel produrre, finanziare o incoraggiare l’innovazione stessa o una sua maggiore pervasività. La necessità dell’intervento statale e la profondità di tale intervento dipendono dalla dimensione del crollo della profittabilità delle aziende, oltre che da aspetti politici di cui non tratteremo qui. In questo senso, mentre la politica monetaria espansiva compare, a rimedio della crisi, sin dagli inizi dell’analisi del ciclo, una politica fiscale espansiva è la vera differenza emersa nel XX secolo, soprattutto a seguito della grande crisi. Infatti, nel ‘29, a due anni dallo scoppio della crisi, il bilancio degli Stati Uniti si manteneva in pareggio. Basti pensare allo stato delle finanze americane o dei paesi europei a partire dal 2008-2009 per vedere la differenza. Ad ogni modo, la politica fiscale e monetaria frenano o invertono la crisi prendendo a prestito risorse dal futuro, perciò l’intervento dello stato, sostanziandosi nel contrarre nuovi debiti, non fa che rimandare i problemi ampliandoli, il che è tutto ciò che chiede la generazione di capitalisti a cui tocca in sorte la crisi.
3. Euforia e cicli della regolamentazione
L’euforia finanziaria contagia tutto e tutti, come ben descritto già da molti classici dell’economia finanziaria7, a dimostrazione che la tv o internet non hanno inventato nulla. Quando la bolla è in fase di ascesa, tutti i mezzi di comunicazione celebrano il momento. Eventuali profeti di sventura vengono emarginati dai giornali, dall’accademia come nelle aziende. I giornalisti sono invitati a moderarsi o zittiti, i professori eretici sbeffeggiati e non pubblicati, i risk manager riottosi non considerati o licenziati. Occorre sottolineare che questa euforia ha del tutto senso, in questo sistema. È un comportamento razionale, per il singolo investitore, dimenticarsi le lezioni del passato e credere a ogni nuovo fenomeno euforico, perché studiare i crolli del passato non lo aiuta nelle scelte presenti. Come detto, restare fuori dal nuovo settore non garantirà più profitti. Basta solo uscirne in tempo e il singolo investitore può farlo, se è sufficientemente scaltro o fortunato. È la società che non può uscire indenne dalla bolla, ma gli effetti sociali delle scelte individuali sono irrilevanti per il singolo massimizzatore di profitti. È altrettanto tipico e per certi versi razionale che, con il procedere della bolla, la crescente difficoltà nel continuare a fare più profitti della media renda sempre più labile il confine tra il lecito e l’illecito. Osserva Kindleberger trattando del tema delle frodi:
“Un excursus nelle
truffe e in altri crimini da colletto bianco forse ci conducono lontano
dall’analisi economica di manie, panici e dal ruolo del prestatore di
ultima istanza. Tuttavia, è inevitabile. Le crisi commerciali e
finanziarie sono intimamente connesse con transazioni che superano il
confine della legge e della moralità, per quanto tenui siano questi
confini. La propensione a truffare ed essere truffati corre parallela
alla propensione di speculare durante un boom. Crolli e panici, con il
loro motto si salvi chi può, inducono ancor più a imbrogliare
per salvarsi. E il segnale del panico è spesso l’emergere di qualche
truffa, furto, malversazione o frode” (Kindleberger, cit., p. 86).
Valeva ai tempi di Luigi XV, vale nel XXI secolo, come il caso Madoff, tra gli altri, ha dimostrato.
Dialetticamente, quando la bolla crolla, tutti i comportamenti descritti si invertono nel loro contrario. La gente è inferocita per i soldi persi e poiché il boom giunge al suo apice quando vi partecipano più persone che in ogni altro periodo, il crollo colpisce molti più risparmiatori di quanti il boom ne avesse beneficiati. L’irritazione generale può condurre persino a rivolte, come in Albania nel 1996. Il nuovo clima dell’opinione pubblica si riflette nei media, che guidano crociate di moralizzazione ed esecrano banchieri, imprenditori e politici. Questi ultimi, dal canto loro, promettono un giro di vite dichiarandosi scandalizzati per i comportamenti degli squali della finanza. Le ondate di entusiasmo e di panico che plasmano l’opinione pubblica contribuiscono a una politica economica fortemente pro-ciclica. Anziché, come parrebbe razionale da parte dei governi e delle banche centrali, frenare gli eccessi delle bolle, le istituzioni le ingigantiscono adeguandosi all’opinione di chi li comanda (ossia il grande capitale) ma anche dei piccoli risparmiatori, che durante l’euforia, sperano di ricavarne qualcosa, mentre sono manovrati come burattini dai grandi investitori. Elettori che razionalmente si disinteressano del passato, eleggeranno governi che promettono di fare altrettanto. La cecità delle istituzioni, osservata a ogni scoppio di bolla finanziaria, è del tutto razionale. Quando il boom è in pieno svolgimento, tutti pensano di arricchirsi facilmente, e possono riuscirci per anni. Sotto il profilo della politica economica prevalgono il laissez-faire e la deregulation come portato della più generale idea che basta far andare le cose per produrre ricchezza generalizzata. Quando la bolla esplode, tutto ciò si trasforma nel suo opposto e per alcuni anni si impone un giro di vite alla regolamentazione finanziaria. I cicli economici sono dunque anche “cycles of regulation versus innovation” (Ward e Wolfe in AA VV, a cura di Mullineux e Murinde, 2003). Poi arriva il crollo e cominciano i pentimenti. Perché furono eliminate leggi così sagge?, si legge sui giornali economici o si sente nei talk-show finanziari. I banchieri giurano di aver capito la lezione e non si oppongono alle leggi draconiane che vengono varate. Il tutto, però dura molto poco, il tempo per dare inizio a una nuova bolla finanziaria.
Nel dopoguerra, l’epoca di repressione finanziaria, con controlli sull’attività delle banche, sui movimenti di capitale, sui tassi di cambio, è durata molto più del solito, in alcuni paesi oltre quarant’anni. Ciò per una serie di ragioni, tra cui le conseguenze politiche della crisi del ‘29, che aveva condotto all’ascesa del nazi-fascismo e alla seconda guerra mondiale, la minaccia dell’Unione Sovietica stalinista, che costringeva a concedere qualcosa alla classe lavoratrice e il boom post-bellico, che consentiva di rimandare l’impellenza di fare profitti a qualunque costo. Finite queste circostanze speciali, sostanzialmente già negli anni settanta, la regolamentazione finanziaria cominciò a mutare. Negli anni ottanta, la deregulation era tornata dominante e con essa le crisi finanziarie. Il crollo dello stalinismo e la svolta di Deng in Cina, aprendo interi continenti agli investimenti e allo sfruttamento della relativa manodopera, hanno rafforzato il clima politico e ideologico liberista. La deregolamentazione finanziaria ha trionfato, ogni residuo controllo (come, negli Stati Uniti, la uptick rule, o il Glass-Steagall Act) è stato eliminato e le crisi, che pure continuavano a prodursi quasi ogni anno, venivano attribuite a questo o quel fattore contingente. All’ingresso nel nuovo millennio, nemmeno l’esempio del Giappone, che versava in una stagnazione cronica ormai da un decennio, dopo l’esplosione di una colossale bolla finanziaria e immobiliare, servì a imporre cautela8. Non sono sufficientemente liberisti, era la diagnosi, qualunque fosse la prognosi. Alla fine, come in una tragedia greca, la Nemesi è giunta a distruggere le opinioni prevalenti.
Nonostante la tradizionale prudenza dei banchieri centrali, gli elementi di ottimismo panglossiano hanno pienamente trionfato anche nella regolamentazione bancaria9 che, nel corso degli ultimi decenni, si è basata sempre di più sull’idea che le banche, soprattutto le più grandi, non solo sapessero da sole ciò che è meglio per loro, ma, secondo la nota vulgata smithiana, che il loro egoismo producesse una situazione ottimale per tutta la società. In questo contesto, il compito delle autorità pubbliche era, in definitiva, non disturbare.
Quando è scoppiata la crisi, vi è stato un primo momento di difesa della regolamentazione market friendly e si attribuivano i problemi al fatto che l’ultimo grido in fatto di vigilanza light touch, ossia l’accordo sul capitale noto come “Basilea 2”, non fosse ancora entrato in vigore. Con l’intensificarsi della crisi, si è rovesciata questa linea di ragionamento e le colpe della crisi sono state attribuite alla regolamentazione troppo morbida. Mano a mano che la crisi si infittiva, le critiche divenivano più feroci. Tutto ciò che era stato introdotto in quanto market friendly, dalla possibilità per le banche di adottare modelli interni di valutazione dei rischi, al principio contabile del fair value, è stato messo sotto accusa per i suoi effetti “pro-ciclici”, ossia aggravanti della crisi. Queste critiche, giunte come sempre a cose fatte, rimangono comunque sulla superficie dei fenomeni. Prendiamo il problema della “fallacia della composizione”, come viene definita nella storia della logica l’idea balzana che l’insieme si comporti come le parti che lo compongono. È emersa l’ovvia verità che se una tecnica di gestione dei rischi può risultare efficace per una singola banca, essa non elimina il rischio stesso, ma semplicemente lo sposta in maniera imprevedibile: “il vero pericolo non è nato perché un certo trader ha adottato il modello, ma perché la totalità dei traders lo ha fatto. Nei mercati finanziari, quando tutti fanno la stessa cosa, è inevitabile che si arrivi a una bolla e alla sua esplosione” (Gandolfo, 2010). Questa osservazione è giusta, ma non tocca ancora il punto chiave, ossia perché tutti sono costretti a fare la stessa cosa nello stesso momento. È la natura decentrata delle scelte di investimento, legata alla massimizzazione del profitto e alla proprietà privata, che produce comportamenti di gregge (“herd behaviour”) e normative pro-cicliche.
Come sempre, dopo l’esplosione della bolla, la reazione delle autorità è stata formalmente severa. Non sono mancati i rapporti ufficiali che hanno criticato ferocemente le grandi banche per aver precipitato il mondo nel baratro e, almeno nei mesi più acuti di panico bancario, sono anche state fatte proposte piuttosto radicali, compresa la scomposizione dei grandi gruppi, tuttavia, le banche non si sono spaventate più di tanto. Non a caso, il giorno in cui sono stati resi noti i dettagli del nuovo accordo (“Basilea 3”), le azioni delle banche hanno avuto forti guadagni in borsa e il Financial Times ha osservato: “le Autorità sembrano aver ceduto alle pressioni dell’industria bancaria”. Ciò è particolarmente visibile per quel che riguarda i tempi di applicazione, per alcune parti dell’accordo dilatati sino al 2023. Questa gentilezza non tiene però conto del funzionamento dei mercati. Le grandi banche hanno fatto a gara per cercare di soddisfare le condizioni del nuovo accordo per mostrare la propria forza rispetto ai concorrenti. Come sempre, dato che tutti gli operatori hanno fatto la stessa cosa nello stesso momento, l’esito finale è stato assai più misero del previsto.
Nel loro complesso, le nuove norme avranno effetti negativi sulla redditività delle banche che dovranno mantenere un capitale maggiore e di migliore qualità, più attività liquide e una leva finanziaria minore, senza contare le norme che potrebbero limitarne direttamente alcune attività, come la “Volcker rule”. L’inasprimento della legislazione, l’ambiente di critica ai profitti facili, la crisi produttiva, contribuiranno a ritardare il finanziamento di una nuova bolla, ma questi stessi fattori, pesando sul saggio di profitto, renderanno la ricerca di alternative sempre più impellente. La tendenza alla standardizzazione delle procedure di mercato e dei prodotti finanziari, visibile ad esempio nel dibattito sulla creazione di clearing house sui derivati OTC, produrrà gli stessi effetti. Queste esigenze hanno iniziato a riflettersi nei circoli che contano e sui media economici, che già dal 2010 hanno cominciato a rilevare che si è esagerato con le critiche e che bisogna ammorbidire o invertire l’inasprimento. Come è stato osservato: “la spinta verso riforme incisive della regolamentazione finanziaria si sta indebolendo man mano che il comparto finanziario sembra riacquisire profili di maggiore solidità e migliori performance.” (Tonveronachi, 2010). Le grandi banche, inferocite dal calo dei profitti, cercheranno in ogni modo di recuperare redditività. Il quadro perfetto per una nuova fase di “innovazione finanziaria”. Paradossalmente, quanto più il giro di vite regolamentare avrà successo, riducendo i profitti delle banche, tanto prima le pressioni dei grandi gruppi finanziari ne decreteranno la fine. Le banche cominceranno ad aggirare le norme costituendo società non bancarie (“shadow banking”) o sviluppando l’attività in centri off-shore (“arbitraggio normativo“); comincerà anche una ricerca spasmodica di nuovi prodotti finanziari che aiutino a sostenere i profitti. Alla fine, dotti articoli sui quotidiani economici e ben curati paper universitari dimostreranno l’inutilità delle nuove norme e la necessità di dare una svolta alla situazione. Le banche americane protesteranno che quelle europee sono avvantaggiate per come le norme sono applicate in Europa e viceversa. Tutte e due se la prenderanno con quelle giapponesi che restituiranno le critiche. Un bel giorno, qualcuno noterà che per tagliare la testa al toro è meglio eliminare del tutto la normativa e controllare caso per caso come sono gestite le banche. Il ritorno della deregulation almeno fino al prossimo crollo mondiale, posto che si riesca a superare quello attuale.
4. La politica monetaria nell’era del debito
La caduta del saggio di profitto influenza l’economia anche in altri modi. Quello più eclatante, che molti commentatori hanno visto come causa scatenante della crisi, senza comprenderne l’origine, è l’aumento inarrestabile, del debito, di tutto il debito. Infatti, quello delle imprese aumenta per sopperire al calo dell’autofinanziamento aziendale, conseguenza della riduzione della redditività; quello delle famiglie aumenta perché i salari non riescono a tenere dietro all’aumento dei prezzi. Infine, aumenta anche il debito statale, nel tentativo dei governi di attenuare gli effetti del calo tendenziale sia dei salari che del saggio del profitto, aumentando la spesa pubblica, politica che rende la situazione delle finanze pubbliche sempre più precaria, fino a una vera e propria crisi fiscale10. L’aumento del debito è causato dal calo del saggio del profitto. Questo spiega perché i paesi più evoluti finanziariamente sono anche quelli dove la composizione organica del capitale (ossia la proporzione capitale/lavoro) è più elevata: la finanziarizzazione dell’economia è la conseguenza del declino della redditività del capitale investito. Ciò spiega anche perché lo sviluppo dei paesi emergenti porta con sé l’aumento del loro debito pubblico e privato, mano a mano che la composizione organica della loro economia si avvicina a quella dei paesi avanzati, proprio come il saggio di profitto dei nuovi settori si avvicina, nel tempo, al saggio medio.
Lo sviluppo dell’economia, aumentando la composizione organica, diminuisce la produttività dei finanziamenti e del debito, per così dire, costringendo le banche centrali a sorreggere il sistema con iniezioni sempre più rilevanti di liquidità. Questa colossale massa di denaro fittizio alimenta permanentemente la speculazione. Da qui le continue bolle e crisi finanziarie. Questa tendenza spiega anche il ruolo crescente dello stato nell’economia. Al di là delle mode del momento, “il mercato”, nel senso del capitalista individuale, conta sempre meno, mentre la politica economica è caratterizzata da una situazione di pseudo-keynesismo permanente: spesa pubblica, bassi tassi di interesse ne sono componenti fissi, pur con alti e bassi.
La tendenza declinante di lungo periodo del saggio di profitto determina le direttrici di fondo entro cui i governi e le banche centrali devono condurre la politica economica. Per rallentare gli effetti del calo del saggio di profitto, i governi e i privati aumentano il debito, elevando la leva finanziaria complessiva dell’economia. Le banche centrali sono costrette ad attutire gli effetti di un aumento del ricorso al debito abbassando i tassi e accrescendo la liquidità del sistema. Le banche centrali e le altre autorità di vigilanza sono anche costrette ad ammorbidire la regolamentazione per alleviarne l’effetto sui profitti delle banche. Il legame tra declino della redditività e peso della vigilanza prudenziale è stato osservato già molti anni fa. Ad esempio: “in recent years, concern has been increasingly voiced about the implications for bank’s capital adequacy of a perceived decline in the profitability of international operations” (Pecchioli, 1983, p. 11). I poteri pubblici hanno sempre ben presenti gli interessi delle banche, ma l’aumento della concentrazione finanziaria aumenta ulteriormente il peso contrattuale delle banche verso gli stati perché i governi non hanno davanti a sé molti piccoli e medi operatori, ma pochi gruppi giganteschi che decidono le sorti di interi continenti. Alla fine, la profittabilità si riduce a tal punto da annullare gli spazi di manovra della politica monetaria. Questo si è già visto in Giappone, dove da vent’anni i tassi d’interesse sono nulli. Questo è il futuro che aspetta tutti i paesi. Ovviamente la teoria ortodossa, che lega l’andamento della politica monetaria all’inflazione, si conferma del tutto futile a spiegare il mondo reale.
5. Conclusioni: e ora?
Banche e banchieri sono per loro natura ciechi
J. M. Keynes
J. M. Keynes
I fenomeni di euforia finanziaria sono ricorrenti nella storia del capitalismo, in quanto intimamente legati al funzionamento del ciclo economico e alla tendenza dominante del processo produttivo, la caduta del saggio di profitto, conseguenza dello sviluppo stesso del capitalismo. Gli episodi di mania, panico e crisi vengono ridotte dalla teoria economica a fattori più o meno estemporanei, comunque non strutturali. Quando il capitalismo attraversa un boom, queste spiegazioni sembrano convincenti, mentre quando torna in crisi, si ricomincia a parlare degli economisti che Keynes definiva il “mondo sotterraneo”, compreso il più sotterraneo di tutti, Marx. Tuttavia, questo recupero, che può sembrare superficialmente gratificante a chi considera importante la teoria marxista per capire l’economia, ne presenta una visione distorta e mutilata, in cui Marx il rivoluzionario diviene al massimo Marx lo scienziato eterodosso e le conclusioni politiche della teoria economica di Marx sono lasciate completamente fuori dal quadro.
Eliminando il Marx politico, la sua analisi teorica può servire, al massimo, a impostare qualche riforma dell’esistente, che si rivelerà effimera. Nel sistema finanziario, in particolare, le crisi conducono a riflessioni sull’importanza della stabilità rispetto all’innovazione. Si arriva a concludere che la prima deve essere garantita a scapito della seconda fino all’idea che “l’unico modo per eliminare la probabilità di una crisi è eliminare la possibilità dell’innovazione finanziaria” (Thakor, 2010). Questa soluzione però è impensabile, perché senza innovazione non c’è possibilità di risollevare i profitti, dunque le bolle sono l’alternativa meno dolorosa, essendo l’altra un calo senza sosta della profittabilità aziendale. Il legame tra innovazione e crisi era ovviamente del tutto sfuggito all’ortodossia teorica, non solo accademica, il che spiega perché, dopo anni in cui i governatori delle banche centrali e gli economisti avevano affermato che l’innovazione finanziaria permetteva alle banche una più efficiente gestione dei rischi, è arrivata la più pesante crisi finanziaria del dopoguerra. In realtà, la maggiore efficienza operativa del singolo intermediario era la conseguenza della pressione sui margini reddituali e ciò rendeva il sistema più instabile, una conclusione che oggi appare scontata, anche se in ritardo.
Questa contraddizione tra situazione della banca e situazione delle banche è la chiave di volta per capire il rapporto che intercorre tra il singolo capitalista e il suo sistema. Il movimento del saggio di profitto è il ponte che li lega. Le aziende (industriali o di credito) sono costrette a innovare per aumentare la propria redditività ma quando si generalizza attraverso la concorrenza, l’innovazione trasforma un maggior saggio di profitto individuale in un abbassamento sistemico del saggio di profitto. Questa è la micro-fondazione delle dinamiche del capitalismo, il sacro Graal cercato da decenni dalla teoria economica ortodossa senza successo.
La teoria marxista della dinamica economica spiega anche, con efficacia, la connessione tra crisi reale e crisi finanziaria. Spiega innanzitutto, che questa divisione è artificiale e non coglie il cuore del problema: ai fini del saggio medio del profitto, ossia degli investitori, ogni settore è reale. Ciò che cambia è la forma che la crisi prende al suo sorgere ma essa è sempre connessa alla profittabilità: se la bolla è stata maggiore dal lato finanziamento, salteranno prima le banche, se è stata maggiore nella capacità produttiva del settore innovativo, salteranno prima le imprese industriali. Detto diversamente, se all’apice dell’euforia, il divario tra saggio settoriale e saggio generale del profitto è maggiore del divario tra saggio d’interesse settoriale e generale (compendiando nel saggio d’interesse ogni tipo di rendimento finanziario di un’attività), i problemi sorgeranno prima dal lato “reale”. Naturalmente, la logica dell’eterno ritorno al saggio medio farà sì che queste differenze tenderanno ad appianarsi.
In questo quadro è possibile analizzare l’efficacia delle politiche anti-crisi. Idealmente, a crisi finita, il saggio medio di profitto è minore del saggio medio iniziale ma più uniforme tra i settori. Ciò avviene per effetto della distruzione di capacità produttiva, innanzitutto, nei nuovi settori e poi più in generale. L’esito della crisi è una combinazione di due aspetti: la riduzione della capacità produttiva e un aumento della domanda, indotto dalle politiche espansive. Tali politiche si sostanziano, nell’immediato, in un maggior indebitamento pubblico o privato. L’aumento del debito, come si è detto, non è che un sottoprodotto della tendenza di fondo del capitalismo a generare una riduzione del saggio di profitto.
Come già era chiaro ai classici, questa tendenza non opera come fosse una legge naturale perché i capitalisti vi si oppongono. Sorgono dunque delle controtendenze11. Ai nostri fini, interessa osservare che spesso queste non influiscono direttamente sui profitti del sistema bancario ma, creando un ambiente migliore per i profitti di tutti i settori economici, hanno poi effetti positivi anche per le banche. Ad esempio, una consistente riduzione del livello salariale e del costo del lavoro in genere, può risollevare gli animal spirits, anche se il costo del lavoro, di per sé, incide poco sui profitti delle banche.
In questo senso, ogni controtendenza al calo del saggio del profitto presenta opportunità per le banche. Un calo dei salari costringe le famiglie ad aumentare la propria domanda di credito, incrementando i profitti delle banche. Allo stesso modo, se per resistere al calo del saggio di profitto, le aziende aumenteranno le spese in ricerca e sviluppo e per fusioni, crescerà anche il loro ricorso al credito e alle consulenze delle banche e così via. Gli stessi interventi pubblici sono occasioni di profitti per le banche, che collocano e negoziano titoli del debito pubblico, finanziano le opere infrastrutturali, e così via.
Tuttavia, la controtendenza più importante al calo del saggio di profitto, in tutti i settori economici, è la concentrazione del capitale. Tutte le aziende, comprese le banche, contrastano il calo del saggio di profitto con un aumento della sua massa, espandendosi. La parabola di ogni settore economico, compresi i diversi comparti finanziari, è composta da un’infanzia fatta di molti piccoli concorrenti e una fase matura di pochi giganti. La crisi produce un’accelerazione del processo di consolidamento per l’uscita di scena di molte aziende che falliscono o si fondono con i vincitori. Nel sistema bancario internazionale, il processo ha assunto un carattere particolarmente accentuato. Questo ha comportato, con lo scoppio della bolla, che la crisi di alcuni intermediari è diventata crisi della nazione perché questi intermediari erano più grandi dei paesi che li ospitavano. Per alcune piccole nazioni europee questo fatto è risultato eclatante. Ad esempio le due principali banche islandesi (Kaupthing e Landsbanki) avevano, prima di fallire ed essere nazionalizzate, un attivo superiore a dieci volte il Pil del paese; nel caso di UBS, il rapporto con la Svizzera era 1 a 5, per il gruppo ING con l’Olanda 1 a 3, e così via. Se in questi casi parlare di too big too fail è persino riduttivo, poiché è il paese a rischiare la bancarotta, tutti i paesi principali hanno ormai intermediari a rilevanza sistemica. A crisi scoppiata, organismi internazionali e commentatori si sono resi conto che la situazione è ingestibile, dando implicitamente ragione a Marx, e si sono moltiplicate le proposte di riforma12. Qualunque riforma venga attuata, le banche continueranno a diventare più grandi e potenti, perché non hanno altro modo per sopravvivere.
L’eredità della crisi è pesante. Anni di stagnazione, tagli, disoccupazione di massa. Le banche, colpite nei profitti e criticate dall’opinione pubblica, sono come tigri in gabbia alla ricerca di un modo per sfuggire alle nuove regole e tornare ai saggi di profitto di prima della crisi. I governi, di qualunque colore siano, non hanno soluzioni durature e si limitano a scontate operazioni di macelleria sociale peggiorando il problema. Le banche centrali possono muovere con sempre più difficoltà le leve della politica monetaria. Chi conta ha capito poco della crisi e sta solo rimandando al futuro i problemi. Soluzioni più durature non si possono trovare in questo sistema.
*Laureato in Economia Politica, Dottorato di Ricerca in Economia Politica, si occupa professionalmente di banche e normativa bancaria.
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