Uno straniero che si trovasse a passare in Italia in questi giorni, nel leggere certi titoloni contro Antonio Ingroia,
penserebbe che l’ex pm di Palermo sia stato colto con le mani nel sacco
a rubare, a dire falsa testimonianza, a trescare con mafiosi, a coprire
assassini, a corrompere minorenni.
“Ingroia, vai a lavorare”. “Ingroia ha mentito anche a se stesso”
(Libero). “L’antico vizio di sentirsi il più antimafia di tutti. Ecco
perché ha fallito il giudice palermitano coccolato dai media” (La
Stampa). “Il finale grottesco del giudice Ingroia” (Repubblica). Cos’ha
fatto Ingroia per meritarsi tutto questo?
Si è candidato in politica come decine di suoi colleghi,
ha perso le elezioni, ha chiesto il permesso di lavorare in un incarico
extra-giudiziario – quello di commissario delle esattorie siciliane – a
metà stipendio. Ma il Csm gli ha risposto picche confinandolo in Val d’Aosta (l’unica regione dove non era candidato).
La prima destinazione, ineccepibile dal punto di vista delle regole,
era quella di giudice: solo che ad Aosta gli organici giudicanti sono
tutti coperti, dunque Ingroia sarebbe stato “in soprannumero”: avrebbe
percepito stipendio pieno scaldando una sedia. A quel punto il Csm s’è
accorto che la porcata era troppo sporca persino per i suoi standard e
l’ha nominato pm, derogando al divieto di funzioni requirenti per chi si
è candidato. Lui ha annunciato ricorso: deroga per deroga, c’è un posto
ben più consono alla sua storia e competenza: quello di sostituto alla Procura nazionale antimafia,
che ha competenza su tutta Italia e funzioni di puro coordinamento di
indagini altrui, dunque non striderebbe troppo col divieto di tornare in
toga dove ci si è candidati.
Resta da capire perché Ingroia non può fare il commissario delle esattorie siciliane, crocevia di interessi illegali
e spesso anche mafiosi, che richiede proprio un uomo della sua
esperienza. La risposta dei sepolcri imbiancati è che l’incarico non ha
attinenza con l’attività giudiziaria, dunque un magistrato non può
ricoprirlo. Ingroia ha chiesto di esser sentito, per spiegare che così
non è. Ma non l’hanno neppure degnato di una risposta. Che strano. Un
anno fa il Csm autorizzò la giudice Augusta Iannini in Vespa, dal 2001 distaccata al ministero della Giustizia, a passare al Garante della privacy:
che attinenza avrà mai quel ruolo con la giustizia? Del resto, in
questi anni, Palazzo dei Marescialli ha autorizzato vari magistrati a
fare gli assessori nella regione in cui fino al giorno prima erano pm
(Russo nella giunta siciliana Lombardo e Marino nella giunta Crocetta):
funzioni non elettive, ma di nomina politica, ben più delicate di
un’esattoria. Perciò ha ragione da vendere Ingroia a denunciare il
trattamento contra personam di un Csm presieduto da Napolitano, la cui voce fu da lui casualmente ascoltata intercettando Mancino.
Fare due più due è facile, ma anche legittimo. Eppure commentatori
che non hanno mai scritto una riga in difesa di Ingroia quand’era
massacrato perché indagava sui potenti, oggi lo massacrano perché s’è
dato alla politica. Il solito Francesco Merlo, su Repubblica, lo accusa
financo di aver “usato le indagini antimafia per uscire dalla
magistratura” e di “danneggiarla” dando ragione a Sallusti. Ora – a
parte il fatto che Sallusti non è in carcere grazie a Merlo che chiese
per lui la grazia e a Napolitano che la concesse – dov’era Merlo quando
Ingroia veniva isolato con i suoi colleghi perché osava indagare sulla
trattativa Stato-mafia? Se gli piaceva tanto il pm Ingroia, perché non
l’ha difeso quando tutti lo attaccavano? Il Fatto è stato il primo a
criticare la scelta di Ingroia di fare politica (non perché non ne
avesse diritto, ma perché rischiava di scendere di livello anziché
salire). Ma pure a solidarizzare con lui e i suoi colleghi isolati e
linciati da tutti. Anche da quanti ora si esercitano nello sport
italiota più diffuso e più vile: la bastonata allo sconfitto, detta
anche il calcio dell’asino.
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