Ci
ha pensato Enrico Letta a mettere le cose a posto e a chiarire – dopo
l'ufficializzazione della candidatura di Vendola alle primarie del
Centrosinistra – che “noi (del Pd, ndr) non faremo nessun passo indietro
rispetto alle riforme di questo esecutivo”. E non vi è nulla, ma
proprio nulla, che possa fare pensare ad una diversa disponibilità di
Bersani a rimaneggiare, a correggere, sia pure marginalmente, i
provvedimenti che hanno caratterizzato il profilo del governo Monti.
Quella che oggi il Partito democratico tenta di fare passare nel
senso comune per “discontinuità” da Monti riguarda il ritorno ad un
governo frutto dell'esito elettorale e l'insediamento di una leadership
direttamente espressa dalle urne. Ma non già un mutamento di
orientamento nella politica economico-sociale.
L'evanescenza programmatica del Pd lascia ampiamente capire come quelle di Letta non siano “parole dal sen fuggite”, ma riflettano la linea ormai consolidatasi dei Democrats, un'introiezione sostanziale del montismo, il definitivo compimento di una metamorfosi culturale e politica che viene da lontano e che ha portato quel partito ad abbandonare come scorie esauste ogni capacità di lettura critica del mondo presente e, conseguentemente, ogni progetto di profonda trasformazione dei rapporti sociali.
In altri termini, la sottoscrizione del fiscal compact, il pareggio in bilancio nella Costituzione, la liquidazione dello Statuto dei lavoratori e del contratto nazionale di lavoro, l'annichilimento del welfare e lo smantellamento delle pensioni di anzianità, l'idea di uno sviluppo della crescita affidato alle privatizzazioni dei servizi sociali e di ciò che resta dell'industria pubblica non sono il “rospo” ingoiato in una transitoria stagione emergenziale, ma continueranno ad essere i punti cardinali di un governo di centrosinistra imperniato sul Pd, qualora il voto (e il più mortificante ed antidemocratico sistema elettorale che si sia mai visto) gli consenta di afferrare la barra del comando.
E tuttavia, molti – troppi – a sinistra, fingono di non sentire, di non capire. E vanno raccontando che bisogna liberarsi da remore e pregiudizi – manco a dirlo: ideologici! - che offuscherebbero il giudizio sul Pd, mentre occorrerebbe valutare più pragmaticamente, sui contenuti, quali margini di intesa si possano verificare. Salvo poi, al dunque, sorvolare proprio sui contenuti, per librarsi nel cielo, non proprio terso, degli schieramenti “a prescindere”, quando non delle piccole convenienze personali, con un occhio assai vigile sugli appannaggi che un'alleanza col Pd – per quanto da ininfluenti gregari – può garantire a chi ne faccia parte, purché non si accampino troppe pretese.
Dunque, veniamo in chiaro: qui lo scontro non è fra realisti e utopisti, fra moderati ed estremisti, fra una sinistra concreta ed un'altra incorregibilmente velleitaria e malata di minoritarismo. L'oggetto del contendere è se si debba lavorare ad un progetto che contrasti efficacemente una politica asservita al capitalismo finanziario, forti di una cultura affrancata dal liberal-mercatismo, oppure se si debba galleggiare nelle acque putride di una democrazia ridotta a simulacro, ignari e compartecipi degli esiti cui sta portando il rapido scardinamento di ogni traccia dell'edificio costituzionale.
L'evanescenza programmatica del Pd lascia ampiamente capire come quelle di Letta non siano “parole dal sen fuggite”, ma riflettano la linea ormai consolidatasi dei Democrats, un'introiezione sostanziale del montismo, il definitivo compimento di una metamorfosi culturale e politica che viene da lontano e che ha portato quel partito ad abbandonare come scorie esauste ogni capacità di lettura critica del mondo presente e, conseguentemente, ogni progetto di profonda trasformazione dei rapporti sociali.
In altri termini, la sottoscrizione del fiscal compact, il pareggio in bilancio nella Costituzione, la liquidazione dello Statuto dei lavoratori e del contratto nazionale di lavoro, l'annichilimento del welfare e lo smantellamento delle pensioni di anzianità, l'idea di uno sviluppo della crescita affidato alle privatizzazioni dei servizi sociali e di ciò che resta dell'industria pubblica non sono il “rospo” ingoiato in una transitoria stagione emergenziale, ma continueranno ad essere i punti cardinali di un governo di centrosinistra imperniato sul Pd, qualora il voto (e il più mortificante ed antidemocratico sistema elettorale che si sia mai visto) gli consenta di afferrare la barra del comando.
E tuttavia, molti – troppi – a sinistra, fingono di non sentire, di non capire. E vanno raccontando che bisogna liberarsi da remore e pregiudizi – manco a dirlo: ideologici! - che offuscherebbero il giudizio sul Pd, mentre occorrerebbe valutare più pragmaticamente, sui contenuti, quali margini di intesa si possano verificare. Salvo poi, al dunque, sorvolare proprio sui contenuti, per librarsi nel cielo, non proprio terso, degli schieramenti “a prescindere”, quando non delle piccole convenienze personali, con un occhio assai vigile sugli appannaggi che un'alleanza col Pd – per quanto da ininfluenti gregari – può garantire a chi ne faccia parte, purché non si accampino troppe pretese.
Dunque, veniamo in chiaro: qui lo scontro non è fra realisti e utopisti, fra moderati ed estremisti, fra una sinistra concreta ed un'altra incorregibilmente velleitaria e malata di minoritarismo. L'oggetto del contendere è se si debba lavorare ad un progetto che contrasti efficacemente una politica asservita al capitalismo finanziario, forti di una cultura affrancata dal liberal-mercatismo, oppure se si debba galleggiare nelle acque putride di una democrazia ridotta a simulacro, ignari e compartecipi degli esiti cui sta portando il rapido scardinamento di ogni traccia dell'edificio costituzionale.
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