Sir Francis Bacon, lo spregiudicato filosofo e scienziato inglese, definì, nel XVII secolo, idòla quelle convinzioni accettate come vere, in realtà errate, che nascondevano il vero sapere. Solo dopo aver abbattuto gli idòla,
scriveva Bacon, diventava possibile provare, con rigore scientifico, a
costruire un percorso di conoscenza della realtà, con l'elaborazione
delle tabula. Il nostro tempo non manca certo di idòla. Il
pensiero unico che accompagna i fasti e soprattutto i nefasti del
turbocapitalismo sembra proprio un concentrato di idòla baconiani. Basti
pensare alla vulgata economica dominante che predica flessibilità,
tagli, rinuncia ai diritti, adattabilità alle condizioni dettate dalla
concorrenza globale. Proprio per questo, smascherare la falsità degli idòla
è un impegno lodevole: la nuova collana edita dalla Laterza si è data
questo arduo compito. Il volumetto scritto da Federico Rampini "Non ci
possiamo più permettere uno Stato sociale. Falso!" (Laterza, pagg. 112, 9
euro) ha nel titolo il luogo comune da sfatare, l'idòla da
abbattere, ovvero l'idea che il Welfare State sia ormai un lusso, la
causa principale dei mali e delle difficoltà dell'Europa e, in
particolare, dell'Italia.
Rampini, corrispondente di Repubblica a New York, ha scritto molti libri sull'economia americana, sulla globalizzazione e sull'affermazione dei nuovi giganti dell'economia mondiale, la Cina e l'India. E proprio dal suo osservatorio americano, sulla base di una ricca documentazione, svolgendo comparazioni e raffronti tra vecchio e nuovo continente, arriva a dire che il modello sociale europeo non è affatto fallito e che, al contrario, soprattutto in alcune sue realizzazioni nazionali, «è il modello migliore, di gran lunga», mentre quello americano, oltre a non essere maggiormente efficiente o meno costoso per la collettività, è anche incomparabilmente più ingiusto. Conclusione eterodossa, almeno per la quasi totalità del ceto politico e degli operatori dell'informazione, che con scarso o nullo spirito critico ripetono le ricette del liberismo economico come unica soluzione per uscire dalla crisi. Rampini, pensando soprattutto alle sconsolanti idee del centro sinistra italiano sulla crisi economica e finanziaria, sembra quasi essere un militante del movimento Indignados o di Occupy Wall Street. La sua riflessione, arricchita da comparazione e dati, si collega alle idee dei movimenti di critica alla globalizzazione liberista e si innesta sul filone critico dei keynesiasi Krugman, Stigliz e del francese Fitoussi.
L'Europa, scrive, viene descritta dai repubblicani americani, ma anche da molti democratici, come un continente inevitabilmente destinato al fallimento economico e sociale. La verità è che il modello sociale Usa non va certo meglio: sono 56,2 milioni gli americani che vivono sotto la soglia di povertà, la middle class è stata compressa in basso, e perfino riviste di destra denunciano che la mobilità sociale verso l'alto, il cuore del sogno americano, sia stata drasticamente ridimensionata dalla crisi. Insomma, il sogno sta svanendo. Non va meglio il capitolo pensioni (basti pensare al crac dei famigerati fondi), o quello dei trasporti pubblici, molto costosi e ridotti, per non parlare dell'istruzione e delle università, con i loro costi proibitivi. Uno stato sociale qualitativamente peggiore di quello europeo, in un paese con disuguaglianze sociali drammatiche, con una concentrazione impressionante della ricchezza, con un governo dei ricchi - plutonomia - che condiziona l'intero pianeta. Inoltre, non è neppure vero che il modello americano sia più flessibile e pronto a rispondere alle sfide dei nuovi competitori globali. La vecchia Germania, con un modello di welfare state di tipo europeo, con una forte manifattura, elevata innovazione di processo e di prodotto, livelli di retribuzione alti, codeterminazione nelle aziende, sembra reggere la sfida globale.
Certo, la Germania non è l'Europa. La crisi dell'Europa monetaria è sotto gli occhi di tutti, ma per uscire dalla crisi economica e finanziaria che ormai da anni ci affligge, le soluzioni non vanno cercate oltreoceano e a nulla serve la predicazione degli assurdi dogmi rigoristi e socialmente punitivi della Bce o del Fmi, con la loro cabala di numeri sul rapporto deficit/pil o sui patti fiscali. Svelata la falsità di molte delle soluzione proposte da economisti e politici per uscire dal collasso del sistema finanziario internazionale e dalla crisi economica e occupazionale, resta aperto un territorio ancora poco esplorato, quello di un nuovo pensiero economico e di un nuovo modello sociale sostenibile che già da domani dovrebbe contenere la deriva di precarietà e instabilità verso la quale sono spinti milioni di persone in America, in Europa, in tutto il mondo. Per tornare a Sir Bacon, bisogna elaborare nuove tabula.
Rampini, corrispondente di Repubblica a New York, ha scritto molti libri sull'economia americana, sulla globalizzazione e sull'affermazione dei nuovi giganti dell'economia mondiale, la Cina e l'India. E proprio dal suo osservatorio americano, sulla base di una ricca documentazione, svolgendo comparazioni e raffronti tra vecchio e nuovo continente, arriva a dire che il modello sociale europeo non è affatto fallito e che, al contrario, soprattutto in alcune sue realizzazioni nazionali, «è il modello migliore, di gran lunga», mentre quello americano, oltre a non essere maggiormente efficiente o meno costoso per la collettività, è anche incomparabilmente più ingiusto. Conclusione eterodossa, almeno per la quasi totalità del ceto politico e degli operatori dell'informazione, che con scarso o nullo spirito critico ripetono le ricette del liberismo economico come unica soluzione per uscire dalla crisi. Rampini, pensando soprattutto alle sconsolanti idee del centro sinistra italiano sulla crisi economica e finanziaria, sembra quasi essere un militante del movimento Indignados o di Occupy Wall Street. La sua riflessione, arricchita da comparazione e dati, si collega alle idee dei movimenti di critica alla globalizzazione liberista e si innesta sul filone critico dei keynesiasi Krugman, Stigliz e del francese Fitoussi.
L'Europa, scrive, viene descritta dai repubblicani americani, ma anche da molti democratici, come un continente inevitabilmente destinato al fallimento economico e sociale. La verità è che il modello sociale Usa non va certo meglio: sono 56,2 milioni gli americani che vivono sotto la soglia di povertà, la middle class è stata compressa in basso, e perfino riviste di destra denunciano che la mobilità sociale verso l'alto, il cuore del sogno americano, sia stata drasticamente ridimensionata dalla crisi. Insomma, il sogno sta svanendo. Non va meglio il capitolo pensioni (basti pensare al crac dei famigerati fondi), o quello dei trasporti pubblici, molto costosi e ridotti, per non parlare dell'istruzione e delle università, con i loro costi proibitivi. Uno stato sociale qualitativamente peggiore di quello europeo, in un paese con disuguaglianze sociali drammatiche, con una concentrazione impressionante della ricchezza, con un governo dei ricchi - plutonomia - che condiziona l'intero pianeta. Inoltre, non è neppure vero che il modello americano sia più flessibile e pronto a rispondere alle sfide dei nuovi competitori globali. La vecchia Germania, con un modello di welfare state di tipo europeo, con una forte manifattura, elevata innovazione di processo e di prodotto, livelli di retribuzione alti, codeterminazione nelle aziende, sembra reggere la sfida globale.
Certo, la Germania non è l'Europa. La crisi dell'Europa monetaria è sotto gli occhi di tutti, ma per uscire dalla crisi economica e finanziaria che ormai da anni ci affligge, le soluzioni non vanno cercate oltreoceano e a nulla serve la predicazione degli assurdi dogmi rigoristi e socialmente punitivi della Bce o del Fmi, con la loro cabala di numeri sul rapporto deficit/pil o sui patti fiscali. Svelata la falsità di molte delle soluzione proposte da economisti e politici per uscire dal collasso del sistema finanziario internazionale e dalla crisi economica e occupazionale, resta aperto un territorio ancora poco esplorato, quello di un nuovo pensiero economico e di un nuovo modello sociale sostenibile che già da domani dovrebbe contenere la deriva di precarietà e instabilità verso la quale sono spinti milioni di persone in America, in Europa, in tutto il mondo. Per tornare a Sir Bacon, bisogna elaborare nuove tabula.
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