La
carta d'intenti dei "democratici e progressisti" presentata ieri dai
segretari di Partito Democratico, Sinistra Ecologia e Libertà e Partito
Socialista, costituisce la base comune della coalizione, i 10 punti
programmatrici che tutti i candidati alle primarie, e tutti i
parlamentari eventualmente eletti, devono rispettare.
È, di fatto, l'atto fondativo di una coalizione di centrosinistra che
si candida a governare l'Italia, anche se sconta la questione irrisolta
delle primarie: due dei firmatari del documento, Pierluigi Bersani e
Nichi Vendola, infatti , sono candidati alle primarie (Riccardo Nencini
si è saggiamente risparmiato il confronto con il consenso popolare), e
si presume quindi che questi 10 punti rappresenterebbero l'asse
programmatico della coalizione e dell'eventuale governo se uno dei due
dovesse vincere. Non si sa invece cosa succederebbe se vincesse Matteo
Renzi, che della carta d'intenti ha già detto che "è troppo generica" e
che "ciascuno lo riempirà di propri contenuti". Paradossi tipici
dell'unico paese al mondo in cui si siano mai celebrate primarie di
coalizione.
Ma dato che la vittoria di Renzi è ancora data per improbabile dalla
maggior parte dei sondaggi (anche se i consensi del sindaco di Firenze
crescono di giorno in giorno, grazie alla splendida campagna elettorale
che la burocrazia del Pd gli sta facendo con attacchi scomposti e
autolesionisti), i contenuti della carta d'intenti meritano di essere
analizzati, se si vuole capire dove sta andando il centrosinistra.
I primi 9 punti sono un normalissimo programma di centrosinistra. Si
parla di lavoro, di uguaglianza, di diritti delle donne, di libertà
civili. Niente di rivoluzionario, ben altro rispetto alle soluzioni
radicali che ci vorrebbero in questo momento di crisi, però di sicuro un
netto cambio di direzione rispetto al governo Berlusconi, e, in parte,
anche rispetto al governo Monti. Sembra di leggere, nello spirito se non
nella forma, che stavolta è più sintetica e meno articolata, il
programma dell'Unione del 2006. Ripeto: niente di rivoluzionario, ma di
questi tempi non possiamo certo permetterci di fare i difficili. Non
siamo nati ieri, conosciamo i rapporti di forza nella politica e nella
società, conosciamo la natura del Pd e la situazione internazionale, è
evidente che una prospettiva timidamente socialdemocratica, come quella
prospettata in questo testo, sarebbe grasso che cola.
Sconta certamente dei difetti di genericità, ad esempio nella parte
su scuola e università, in cui mancano impegni precisi di investimento e
non c'è alcun riferimento alla cancellazione dell'obbrobrio Gelmini, ma
sicuramente va riconosciuto che la direzione imboccata è quella di un
normale e onesto centrosinistra, e che un governo che realizzasse questi
9 punti si metterebbe sulla strada giusta, anche se a passo lento e
incerto.
Tutto ciò è messo in discussione da un passaggio nel primo punto,
quando si parla di "un patto di legislatura" con il "centro liberale",
che però non è tra i firmatari di questo documento. Davvero non si
capisce che senso abbia condividere 10 punti vincolanti per tutta
l'eventuale maggioranza, quando all'interno di quegli stessi 10 punti si
mette per iscritto che si dovrà allargare quella maggioranza a un altro
soggetto, appunto "il centro liberale" (si tratta con ogni evidenza del
polo montiano che stanno costruendo UDC, FLI e Montezemolo) e che
quindi quei 10 punti andranno, per forza di cose ridiscussi. Chi
condurrà questo negoziato? Ogni partito per conto proprio, oppure la
coalizione nel suo insieme? E cosa resterà, del programma di un
centrosinistra che oggi i sondaggi danno tra il 30 e il 35%, quando
questo sarà sottoposto ai ricatti di una forza centrista che viaggia tra
il 7 e il 10%? Se si pensa al precedente del governo Prodi, in cui una
microforza come l'Udeur era in grado di tenere in scacco l'intera
coalizione e bloccare ogni azione legislativa e di governo coerente con
il programma, si possono ben vedere i rischi e le ambiguità di questa
operazione.
I 9 punti di buon centrosinistra prodiano escono quindi un po'
ammaccati da questo passaggio, ma dove si vanno definitivamente a
schiantare contro un muro è al decimo punto, nel quale Bersani, Vendola e
Nencini impegnano i propri partiti ad "assicurare la lealtà
istituzionale agli impegni internazionali e ai trattati sottoscritti dal
nostro Paese", e quindi ad attuare le misure previste dal fiscal
compact. Non si capisce davvero come si possano attuare le politiche
progressiste e redistributive di cui ai primi 9 punti e allo stesso
tempo ridurre il debito pubblico di 46 miliardi all'anno, come stabilito
dal fiscal compact. Abbiamo trovato il petrolio e Bersani non ce l'ha
detto? Abbiamo in programma di annettere la Libia e finanziarci con i
proventi del gas? Immaginiamo una riforma fiscale che espropri di fatto i
grandi patrimoni? Se non è così, allora delle due l'una: o Bersani,
Vendola e Nencini sanno qualcosa che noi non sappiamo (una ripresa
economica in arrivo, o un repentino cambio di fronte di Angela Merkel
nel ridiscutere il fiscal compact, che in piena campagna elettorale
tedesca definire improbabile è un eufemismo), oppure il loro tentativo
di tenere insieme austerity e politiche sociali finirà con l'inevitabile
scelta tra la prima e le seconde. E chi sceglierà?
I segretari dei partiti del centrosinistra lo scrivono subito dopo,
quando stabiliscono di "vincolare la risoluzione di controversie
relative a singoli atti o provvedimenti rilevanti a una votazione a
maggioranza qualificata dei gruppi parlamentari convocati in seduta
congiunta". Insomma, se su qualsiasi cosa non si andrà d'accordo,
deciderà il Pd. Anzi, se la maggioranza sarà allargata all'Udc, basterà
un asse tra Casini e la destra piddina per imporre qualsiasi cosa.
Qualsiasi. Da una nuova guerra (di politica estera non si parla, nei 10
punti) alla macelleria sociale. I 10 punti stabiliscono i principi
programmatici per l'ordinaria amministrazione, ma per tutto il resto, in
situazioni d'emergenza, decide il Pd. Se "sovrano è chi decide lo stato
d'eccezione", si sta dando al gruppo parlamentare del Pd la sovranità
assoluta, al di fuori del mandato elettorale. E se si dovrà decidere tra
l'attuazione dei primi 9 punti e il rispetto dell'austerity stabilito
al decimo, sarà il Pd a decidere.
Ma c'è di più: nell'ultimo paragrafo, infatti, lo stato d'eccezione
diventa permanente: Pd, Sel e Psi si impegnano ad "appoggiare
l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale che
nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta unica
e procedere verso un governo politico-economico federale
dell’eurozona". Qui si stabilisce uno stato d'eccezione rispetto allo
stato d'eccezione: se infatti sopra si dava sovranità al gruppo
parlamentare del Pd, qui si stabilisce che, per tutte le misure legate
alla crisi dell'euro, la sovranità è direttamente del governo, e i
partiti e il parlamento sono impegnati a sostenerlo sempre e comunque, a
prescindere.
Questo è ciò che è scritto nella carta d'intenti del Pd. Come si
diceva prima, non siamo nati ieri, e nei due anni del governo
dell'Unione abbiamo ben imparato quanto contino i programmi elettorali,
una volta al governo. Se questo è servito a massacrare la sinistra tra
il 2006 e il 2008, questa volta potrebbe funzionare al contrario, e Sel
potrebbe essere in grado di ricattare il governo per spostare a sinistra
l'asse della coalizione, minacciando altrimenti di uscire. Ma ci
permettiamo di dubitarne. La composizione del prossimo parlamento sarà
nettamente spostata a destra, rispetto a quella del 2006, e
significativamente più frammentata, se si pensa che i sondaggi
attribuiscono al Movimento Cinque Stelle una quota tra il 15 e il 20%
dei voti. Dando per scontato che con Grillo nessuno sia in grado di
accordarsi, le uniche alternative a una coalizione di centrosinistra
sarebbero il famoso Monti-bis oppure addirittura un nuovo governo di
centro-destra.
I dibattiti di questi giorni sull'assenza di un giudizio sul governo
Monti all'interno della carta d'intenti sono assolutamente insensati: a
rovinare il sonno al centrosinistra, una volta rinnovato il parlamento,
non sarà certo il fantasma del Monti passato, bensì quello del Monti
futuro. Un'alternativa al centrosinistra che tutti avranno sempre ben
presente, e che servirà da ricatto costante nei confronti della sinistra
interna alla coalizione. Sel si troverebbe quindi nella situazione di
dover decidere se accettare qualsiasi cosa il governo proponga oppure
riconsegnare il paese alla destra. Una prospettiva certamente non
allettante, e che rischia di trasformare il patto di coalizione
sottoscritto ieri in un contratto capestro. Insomma, con tutta la buona
volontà che si può riconoscere a chi ha deciso di affrontare una sfida
di governo, il fantasma di Monti è ben lungi dall'essere sconfitto. Qui
si cammina davvero su un filo, e, se non succede qualcosa di inatteso,
la sinistra italiana ha buone probabilità di uscirne, ancora una volta,
con le ossa rotte.
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