Mentre
le istituzioni europee e i governi nazionali sembrano ipnotizzati dal
problema del debito pubblico, è probabile che la prossima crisi in
Europa sarà una crisi bancaria.
La cosa, visti i soldi già spesi dai governi per salvare le banche in Europa (all’incirca 4.000 miliardi di euro), può sembrare parecchio strana. Ma la cosa più strana è un’altra: probabilmente questa crisi avrà il suo epicentro non nei cosiddetti “paesi periferici ” ma nel centro dell’Europa. Ossia in Francia e – soprattutto – in Germania. In Francia, a dire il vero, una crisi bancaria è già in corso: una banca specializzata (guarda un po’) in mutui immobiliari, il Crédit Immobilier de France, è prossima al fallimento.
Quasi certamente non riuscirà a ripagare un’obbligazione da 1,75 miliardi di euro in scadenza questo mese, e dovrà provvedere lo Stato francese.
Ma si stima che complessivamente le garanzie pubbliche che dovranno essere messe in campo a sostegno di questa banca saranno dell’ordine di 20 miliardi di euro. Come dire, due terzi della manovra di Hollande. Non c’è male.
Ma il fronte più caldo, almeno potenzialmente, è un altro, e riguarda la banche più grandi del paese: il valore delle attività di trading di BNP, Société Générale, Crédit Agricole e Natixis ammonta attualmente a qualcosa come 2.050 miliardi di euro, una cifra non molto inferiore all’intero prodotto interno lordo della Francia. Le attività di trading in azioni, obbligazioni e derivati sono cresciute del 21% in un anno e per quanto riguarda BNP e Société Générale superano ormai il 30% del totale delle attività di queste banche. Ma se prendiamo il trading in derivati la crescita è ancora maggiore: +48% per BNP, +38% per Société Générale. Queste cifre significano due cose: che i rischi di mercato assunti da queste banche crescono, e – viste le cifre in gioco – che si può parlare di rischio sistemico. Ma in confronto a quello che accade in Germania i problemi delle maggiori banche francesi impallidiscono. La Germania ha tuttora uno dei sistemi bancari meno concentrati e meno efficienti dell’intera Europa (circa 1200 banche). Basti pensare alle numerose Sparkassen (tradizionalmente vicine alla CDU), alle Landesbanken (fu una di esse la prima banca a fallire nel 2007, e molte sono tuttora in cattive acque) e alle Volksbanken. Ma il governo tedesco, che mesi fa poneva come condizione per ulteriori interventi europei a sostegno delle banche spagnole la realizzazione di un’unione bancaria europea, non appena questa unione bancaria ha assunto la forma di una concreta proposta di accentrare la sorveglianza bancaria in Europa presso la Bce, ha cominciato a frenare: con il ministro delle finanze tedesco Schäuble che è subito intervenuto chiedendo che questa sorveglianza valesse soltanto per pochissime grandi banche. È stato fin troppo facile rispondergli che non sono soltanto le grandi banche a esprimere rischi sistemici: basti pensare a quello che è successo dopo il fallimento (con salvataggio governativo in extremis) di Northern Rock nel Regno Unito. E del resto è la stessa situazione spagnola a mostrarci che effetti possono avere i fallimenti di tante banche piccole e medie.
È corretto però affermare che oggi i maggiori rischi del sistema bancario tedesco non vengono dalle banche piccole e medie, ma da quella più grande: la Deutsche Bank. Con un bilancio pari all’80% circa dell ’intero prodotto interno lordo della Germania, Deutsche Bank è una delle maggiori banche mondiali. Ma è anche una delle più sottocapitalizzate. Secondo i dati forniti da Bloomberg , il 30 giugno scorso di quest’anno era al quintultimo posto tra le 24 maggiori banche europee quanto a patrimonio (il cosiddetto “Tier 1 capital ratio ”). In apparenza sembrerebbe non passarsela troppo male, con un Tier 1 al 10,1% (le banche italiane, ad esempio, stanno peggio). Il problema però è che questo dato è ottenuto utilizzando “risk-weighted assets ”, ossia una ponderazione di rischio diversa a seconda delle attività. Questo tipo di misurazione è apparentemente corretta, perché i rischi di perdita sono effettivamente diversi a seconda delle attività della banca. Ma è anche alquanto arbitraria: basti pensare che sino a non molto tempo fa i titoli di Stato dell’Eu ro zona erano considerati tutti indistintamente a rischio zero. Il modo più corretto per valutare l’adeguatezza del capitale di una banca è quindi un altro: misurare la “leva ” (leverage ratio), cioè mettere a confronto il bilancio complessivo della banca con la sua dotazione di capitale. Bene, recentemente Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e oggi al Peterson Institute, ha fatto questo esercizio. E il risultato è questo: le attività di Deutsche Bank ammontano a 2.241 miliardi di euro, a fronte di un capitale di 55,75 miliardi di euro. In altre parole, il capitale di Deutsche Bank ammonta a poco meno del 2,5% rispetto agli assets della banca. Che è come dire che perdite del 3% sul totale del portafoglio della banca sarebbero più che sufficienti ad azzerare il capitale della banca. Ossia a farla fallire. Né più né meno di quanto è successo a Lehman Brothers, la banca d’affari americana fallita nel 2008, la quale del resto aveva una leva di appena 24 volte il capitale, a fronte del 40 medio delle banche tedesche. Ma nonostante questo i nuovi co-amministratori delegati della Deutsche Bank, Anshu Jain e Jürgen Fitschen, così come il loro predecessore Josef Ackermann, continuano a ritenere che la priorità non sia il rafforzamento del capitale, ma il suo rendimento: e hanno fissato un obiettivo di rendimento annuo del 12,5% dopo le tasse. Questo significa necessariamente continuare ad assumere rischi molto rilevanti. Al momento il tutto è reso più semplice, tanto per Deutsche Bank, quanto per le altre banche tedesche, dal fatto che il basso rendimento dei titoli di Stato tedeschi (di fatto negativo, ossia inferiore al tasso di inflazione) si riflette positivamente anche sul costo di raccolta delle banche: in concreto, oggi una banca tedesca ha un costo del capitale inferiore del 2-3% a quello di una banca italiana.
Ma è una situazione che non può durare all ’infinito. Un peggioramento della situazione economica europea è tutt’altro che una remota possibilità. È ormai molto probabile che l’approfondirsi della recessione in Europa coinvolga anche la Germania (già ora le previsioni di crescita per il 2013 sono prossime allo zero). Ma più in generale l’economia mondiale è in vistoso rallentamento, e alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente anche uno shock sul prezzo delle materie prime energetiche non può affatto essere escluso. Per evitare che tutto questo si traduca in una crisi bancaria, bisognerebbe fare anche in Germania (e in Francia) quello che è stato fatto in Svizzera: dove UBS e Crédit Suisse sono state costrette a fare ingenti aumenti di capitale.
Anche per questo sarebbe importante arrivare quanto prima a una sorveglianza bancaria europea. Ma le mosse più recenti proprio del governo tedesco, dalle schermaglie sulle banche di minori dimensioni per le quali dovrebbero restare competenti organi di vigilanza nazionali, alla richiesta – di pochi giorni fa – di estendere anche ai paesi europei che non fanno parte dell’eu – ro la possibilità di decidere sulla configurazione della sorveglianza bancaria europea, sembrano avere un unico obiettivo: ritardare questo processo per proteggere ancora una volta le proprie grandi banche.
La cosa, visti i soldi già spesi dai governi per salvare le banche in Europa (all’incirca 4.000 miliardi di euro), può sembrare parecchio strana. Ma la cosa più strana è un’altra: probabilmente questa crisi avrà il suo epicentro non nei cosiddetti “paesi periferici ” ma nel centro dell’Europa. Ossia in Francia e – soprattutto – in Germania. In Francia, a dire il vero, una crisi bancaria è già in corso: una banca specializzata (guarda un po’) in mutui immobiliari, il Crédit Immobilier de France, è prossima al fallimento.
Quasi certamente non riuscirà a ripagare un’obbligazione da 1,75 miliardi di euro in scadenza questo mese, e dovrà provvedere lo Stato francese.
Ma si stima che complessivamente le garanzie pubbliche che dovranno essere messe in campo a sostegno di questa banca saranno dell’ordine di 20 miliardi di euro. Come dire, due terzi della manovra di Hollande. Non c’è male.
Ma il fronte più caldo, almeno potenzialmente, è un altro, e riguarda la banche più grandi del paese: il valore delle attività di trading di BNP, Société Générale, Crédit Agricole e Natixis ammonta attualmente a qualcosa come 2.050 miliardi di euro, una cifra non molto inferiore all’intero prodotto interno lordo della Francia. Le attività di trading in azioni, obbligazioni e derivati sono cresciute del 21% in un anno e per quanto riguarda BNP e Société Générale superano ormai il 30% del totale delle attività di queste banche. Ma se prendiamo il trading in derivati la crescita è ancora maggiore: +48% per BNP, +38% per Société Générale. Queste cifre significano due cose: che i rischi di mercato assunti da queste banche crescono, e – viste le cifre in gioco – che si può parlare di rischio sistemico. Ma in confronto a quello che accade in Germania i problemi delle maggiori banche francesi impallidiscono. La Germania ha tuttora uno dei sistemi bancari meno concentrati e meno efficienti dell’intera Europa (circa 1200 banche). Basti pensare alle numerose Sparkassen (tradizionalmente vicine alla CDU), alle Landesbanken (fu una di esse la prima banca a fallire nel 2007, e molte sono tuttora in cattive acque) e alle Volksbanken. Ma il governo tedesco, che mesi fa poneva come condizione per ulteriori interventi europei a sostegno delle banche spagnole la realizzazione di un’unione bancaria europea, non appena questa unione bancaria ha assunto la forma di una concreta proposta di accentrare la sorveglianza bancaria in Europa presso la Bce, ha cominciato a frenare: con il ministro delle finanze tedesco Schäuble che è subito intervenuto chiedendo che questa sorveglianza valesse soltanto per pochissime grandi banche. È stato fin troppo facile rispondergli che non sono soltanto le grandi banche a esprimere rischi sistemici: basti pensare a quello che è successo dopo il fallimento (con salvataggio governativo in extremis) di Northern Rock nel Regno Unito. E del resto è la stessa situazione spagnola a mostrarci che effetti possono avere i fallimenti di tante banche piccole e medie.
È corretto però affermare che oggi i maggiori rischi del sistema bancario tedesco non vengono dalle banche piccole e medie, ma da quella più grande: la Deutsche Bank. Con un bilancio pari all’80% circa dell ’intero prodotto interno lordo della Germania, Deutsche Bank è una delle maggiori banche mondiali. Ma è anche una delle più sottocapitalizzate. Secondo i dati forniti da Bloomberg , il 30 giugno scorso di quest’anno era al quintultimo posto tra le 24 maggiori banche europee quanto a patrimonio (il cosiddetto “Tier 1 capital ratio ”). In apparenza sembrerebbe non passarsela troppo male, con un Tier 1 al 10,1% (le banche italiane, ad esempio, stanno peggio). Il problema però è che questo dato è ottenuto utilizzando “risk-weighted assets ”, ossia una ponderazione di rischio diversa a seconda delle attività. Questo tipo di misurazione è apparentemente corretta, perché i rischi di perdita sono effettivamente diversi a seconda delle attività della banca. Ma è anche alquanto arbitraria: basti pensare che sino a non molto tempo fa i titoli di Stato dell’Eu ro zona erano considerati tutti indistintamente a rischio zero. Il modo più corretto per valutare l’adeguatezza del capitale di una banca è quindi un altro: misurare la “leva ” (leverage ratio), cioè mettere a confronto il bilancio complessivo della banca con la sua dotazione di capitale. Bene, recentemente Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e oggi al Peterson Institute, ha fatto questo esercizio. E il risultato è questo: le attività di Deutsche Bank ammontano a 2.241 miliardi di euro, a fronte di un capitale di 55,75 miliardi di euro. In altre parole, il capitale di Deutsche Bank ammonta a poco meno del 2,5% rispetto agli assets della banca. Che è come dire che perdite del 3% sul totale del portafoglio della banca sarebbero più che sufficienti ad azzerare il capitale della banca. Ossia a farla fallire. Né più né meno di quanto è successo a Lehman Brothers, la banca d’affari americana fallita nel 2008, la quale del resto aveva una leva di appena 24 volte il capitale, a fronte del 40 medio delle banche tedesche. Ma nonostante questo i nuovi co-amministratori delegati della Deutsche Bank, Anshu Jain e Jürgen Fitschen, così come il loro predecessore Josef Ackermann, continuano a ritenere che la priorità non sia il rafforzamento del capitale, ma il suo rendimento: e hanno fissato un obiettivo di rendimento annuo del 12,5% dopo le tasse. Questo significa necessariamente continuare ad assumere rischi molto rilevanti. Al momento il tutto è reso più semplice, tanto per Deutsche Bank, quanto per le altre banche tedesche, dal fatto che il basso rendimento dei titoli di Stato tedeschi (di fatto negativo, ossia inferiore al tasso di inflazione) si riflette positivamente anche sul costo di raccolta delle banche: in concreto, oggi una banca tedesca ha un costo del capitale inferiore del 2-3% a quello di una banca italiana.
Ma è una situazione che non può durare all ’infinito. Un peggioramento della situazione economica europea è tutt’altro che una remota possibilità. È ormai molto probabile che l’approfondirsi della recessione in Europa coinvolga anche la Germania (già ora le previsioni di crescita per il 2013 sono prossime allo zero). Ma più in generale l’economia mondiale è in vistoso rallentamento, e alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente anche uno shock sul prezzo delle materie prime energetiche non può affatto essere escluso. Per evitare che tutto questo si traduca in una crisi bancaria, bisognerebbe fare anche in Germania (e in Francia) quello che è stato fatto in Svizzera: dove UBS e Crédit Suisse sono state costrette a fare ingenti aumenti di capitale.
Anche per questo sarebbe importante arrivare quanto prima a una sorveglianza bancaria europea. Ma le mosse più recenti proprio del governo tedesco, dalle schermaglie sulle banche di minori dimensioni per le quali dovrebbero restare competenti organi di vigilanza nazionali, alla richiesta – di pochi giorni fa – di estendere anche ai paesi europei che non fanno parte dell’eu – ro la possibilità di decidere sulla configurazione della sorveglianza bancaria europea, sembrano avere un unico obiettivo: ritardare questo processo per proteggere ancora una volta le proprie grandi banche.
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