Le leggi elettorali sono un mio vecchio
pallino: nel 1974 furono l’argomento del mio esame di diritto pubblico,
sostenuto con il prof. Carlo Alberto De Bellis (allora assistente, mi fa
piacere ricordarlo qui a 10 anni dalla sua prematura scomparsa) che mi
concesse la lode. Dopo ho sempre continuato a studiarle comparando
l’Italia con gli altri paesi. Sono sempre stato un intransigente
proporzionalista (uno dei principali motivi di contrapposizione con il
Psi craxiano prima e con il Pds-Pd dopo). Ho scritto diversi articoli e
saggi in merito e quello che mi dette più soddisfazioni fu l’opuscolo
che scrissi per “Avvenimenti” in occasione dello sciagurato referendum
del 1993, di cui si vendettero 240.000 copie (quando il direttore,
Claudio Fracassi, mi annunciò i risultati delle vendite, prima che
potessi fiatare, concluse: “Grazie, è stata una bella sottoscrizione per
il giornale!”. E non mi rimborsò neanche le spese di spedizione via
fax: va bene, fa niente). Forse per questa mia vecchia passione, provo
un’ irritazione invincibile nel seguire il dibattito sulla legge
elettorale che periodicamente si accende, dimostrando ogni volta quale
penoso livello di analfabetismo affligga la nostra classe politica.Non
ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere: facciamo un sistema mezzo
spagnolo e mezzo tedesco, no, meglio un doppio turno alla francese con
primarie all’americana e quota di proporzionale con clausola di
sbarramento alla tedesca, e c’è anche qualche scienziato del Pd che ha
proposto in tutta serietà un mix fra il sistema australiano e quello
belga! Tanto vale, adottare le regole del tressette a perdere abbinato
alla lotteria di capodanno con ordalia finale a doppio turno!Non sarà male ricordare qualche regola base:
1-un sistema elettorale deve essere il
più semplice e lineare possibile; si può anche ibridare modelli diversi,
ma il bilanciamento finale deve avere un suo equilibrio complessivo e
senza inutili ridondanze: ad esempio, se c’è un consistente premio di
maggioranza è inutile la clausola di sbarramento come soglia minima di
accesso, perché la governabilità è già assicurata e, vice versa, se c’è
una clausola di sbarramento, è inutile un premio di maggioranza, perché
c’è già un effetto premiale a favore dei partiti più grandi, per effetto
dei voti dispersi da quelli che restano sotto la soglia. E, infatti,
l’Italia è l’unico paese che ha un sistema elettorale che prevede
entrambe le cose.
2- Fatta la scelta per un tipo di
sistema elettorale (maggioritario, proporzionale o misto che sia)
occorre che esso, salvo varianti abbastanza contenute, sia adottato
omogeneamente a tutti i livelli e non ci si può permettere (come è
attualmente in Italia) che ci siano sei diversi tipi di sistema
elettorale (Comune, Provincia, Regione, Camera, Senato, Parlamento
Europeo), con il, risultato di un sistema politico a “geometria”
variabile che compone e scompone gli schieramenti di volta in volta.
3-Un sistema elettorale può contribuire a
dar vita ad un sistema politico, ma da solo non basta: ad esempio, un
sistema maggioritario può conservare un formato bipartitico e può
contribuire a determinarlo, ma se un paese è attraversato da una
molteplicità di linee di frattura non sovrapponibili, nessun sistema
elettorale riuscirà a ridurre tutto ad un formato bipartitico. L’Italia è
un paese nel quale ci sono diversi partiti perché ci sono diverse linee
di frattura che si intersecano: quella sinistra-destra e quella
laici-cattolici, per esempio, per cui sia laici che cattolici sono
presenti tanto a destra quanto a sinistra;
4-Non bisogna confondere bipartiti con
le coalizioni, per cui noi siamo riusciti con fatica a creare un sistema
bipolare ma non bipartitico, per cui la nostra forma di governo resta
quella del governo di coalizione, solo che le coalizioni si fanno prima
del voto. C’è chi dice che questo è un vantaggio per l’elettore che così
sa quale coalizione lo governerà per 5 anni, ma lo svantaggio (a mio
avviso ben più consistente) è che questo spinge a coalizioni eterogenee
che, pur di vincere, mettono dentro tutto ed il contrario di tutto
(nella leggendaria ammucchiata del 2006 la sinistra riuscì a mette
insieme Clemente Mastella e Luxuria), ma poi viene fuori una coalizione
vincente incoerente. In questi venti anni la regola è stata: chi si
divide perde, ma chi vince non governa. E, infatti quella del “governo
di legislatura” è restata una chimera perché nessun governo è durato più
di tre anni.
5-L’introduzione di meccanismi premiali
(maggioritario secco, premio di maggioranza ecc.) o penalizzanti
(clausola di sbarramento ecc.) aiuta a trasformare la minoranza più
forte in maggioranza e cerca di contrastare la tendenza all’ eccessiva
frammentazione, ma, inevitabilmente, introduce effetti distorsivi della
volontà popolare, per cui qualsiasi legge diversa dalla proporzionale
produce un grado di rappresentatività più basso del Parlamento. Dunque,
quel che (forse) si guadagna in stabilità, si perde (sicuramente) in
rappresentatività.
6- I sistemi maggioritari tendono per
loro natura a congelare l’offerta politica esistente. Infatti, con
qualsiasi legge elettorale, un nuovo partito deve necessariamente
affrontare gli attriti ambientali per affermarsi (ad esempio la
necessità di farsi conoscere, la resistenza degli elettori a votare una
cosa nuova di cui non si conosce l’effettivo potenziale ecc.) se a
questo si aggiunge un meccanismo che spinge al “voto utile”
(maggioritario) o alza la soglia di accesso (clausola di sbarramento)
questo rende proibitivo affermare un nuovo soggetto e conserva gli
equilibri esistenti. Di conseguenza, questo consente agli apparati di
partito una maggiore autonomia dall’elettorato, accentuando il carattere
“partitocratico” del sistema.
7-Il carattere partitocratico (con le
derive che ne conseguono, festini alla Fiorito inclusi) è accentuato
anche dalla “dipendenza” degli eletti dall’apparato di partito e
dall’azzeramento della capacità di scelta dell’elettore sui singoli
candidati. Il voto di preferenza è l’unico sistema per ridurre il potere
di nomina dall’alto dei parlamentari. Tanto il sistema dei listini
bloccati quanto quello del collegio uninominale, si basano su un
presupposto: che scegliendo un partito l’elettore sceglie
automaticamente il o i candidati che quel partito gli impone, per cui
non è libero di scegliere e questo assegna un potere di “vita o di
morte” (politica) sui candidati all’apparato centrale. Attraverso la
collocazione di un candidato nella fascia alta o in quella bassa del
listino, il partito decide se deve essere eletto o meno. Allo stesso
modo, in caso di collegio uninominale, è l’apparato a decidere chi avrà
il collegio “sicuro” chi quello disperato e chi quello “marginale” dove
può battersi con qualche speranza. Di conseguenza, nei sistemi che
escludono il voto di preferenza, gli eletti saranno sicuramente molto
più conformi alla volontà dell’apparato centrale sino al limite attuale
del parlamento di lacchè, di escort e di burocrati che attualmente
abbiamo
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua