La lettera che non potremo scrivere a Monti o Napolitano
Questa è la lettera di risposta che Lelio Basso scrisse all’allora ministro della Difesa Arnaldo Forlani che decise di sospendere la parata militare del 2 giugno 1976 dopo il terremoto che sconvolse il Friuli.
Sono
personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione
della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la
sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito,
infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con
una parata militare. Che lo si facesse per la festa nazionale del 4
novembre aveva ancora un senso: il 4 novembre era la data di una
battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima guerra mondiale. Ma
il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile
e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il
clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe
dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di
mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un
corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della
democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del passato,
il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il
responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato
di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi
la continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2
giugno riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era
comunque cercato nel passato l’inno nazionale di una repubblica che
avrebbe dovuto essere tutta tesa verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere
l’annuncio di un nuovo giorno, di una nuova era della storia nazionale.
Io non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i
sentimenti patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che,
essendo nato un secolo prima, in circostanze del tutto diverse, non
aveva e non poteva avere nulla che esprimesse lo spirito di profondo
rinnovamento democratico che animava il popolo italiano e che aveva dato
vita alla Repubblica.
La Costituzione repubblicana, figlia
precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che
l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Una
repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie
militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di
armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere
imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica
alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia,
quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo
maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran
nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla
storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre
riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari,
anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del
consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che,
all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali?
Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di
conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue
sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.
Repubblica
democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate
che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora,
devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito
democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto
nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del
passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati,
sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri
governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della
carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei
carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore,
e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a
un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il
generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista
alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà
alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come
supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la
repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe,
nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica
sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e
Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in
prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o
sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio
può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva
a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?
Infine, non
dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va
bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della
costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per
questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno
simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si
chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze
di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente
fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di
governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze
armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei che questo mio invito
fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un
segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare
ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo
che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di
vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.
Egregio Presidente Giorgio Napolitano
Lei ha chiesto ai giovani di aprire porte e finestre, anche qualora le trovassero chiuse.
Le chiediamo con tutto il rispetto di dare l’esempio: apra porte e finestre alla solidarietà; trasformi il 2 giugno da festa della Repubblica militare a festa della Repubblica solidale.
Annulli la parata, che l’anno scorso era costata 4,4 milioni di euro e che secondo il ministero della Difesa quest’anno costerà quasi 3 milioni di euro.
Quei denari siano investiti in opere di solidarietà con la popolazione stremata dal terremoto e quei contingenti chiamati a sfilare vengano utilizzati nelle zone bisognose di aiuti.
Lei ha chiesto ai giovani di aprire porte e finestre, anche qualora le trovassero chiuse.
Le chiediamo con tutto il rispetto di dare l’esempio: apra porte e finestre alla solidarietà; trasformi il 2 giugno da festa della Repubblica militare a festa della Repubblica solidale.
Annulli la parata, che l’anno scorso era costata 4,4 milioni di euro e che secondo il ministero della Difesa quest’anno costerà quasi 3 milioni di euro.
Quei denari siano investiti in opere di solidarietà con la popolazione stremata dal terremoto e quei contingenti chiamati a sfilare vengano utilizzati nelle zone bisognose di aiuti.
Sipuòfare: nel 1976 la parata fu sospesa in occasione del terremoto del Friuli.
INVIAMO UNA MAIL A:
presidenza.repubblica@quirinale.it
https://servizi.quirinale.it/webmail/
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